Il naufragar m’è stanco in questo mare

Quando Assassin’s Creed Rogue fu annunciato, molti di noi (fan compresi) non lo accolsero proprio con gioia. La ragione era semplice: fu quello l’anno (se si escludono ovviamente gli spin off portatili et simila) in cui il pubblico si beccò due titoli della serie, andando quasi ad esasperare quella che era  una situazione ormai ai limiti del tollerabile. La serializzazione di stampo fordiano della saga Assassin’s Creed, con i suoi titoli ad uscita regolare di anno in anno, stava già cominciando a creare quel senso di sovraffollamento nei cuori dei giocatori, tale che poi, come saprete, si è arrivati alla definitiva rottura dopo l’uscita di Syndicate, in cui è stata la stessa Ubisoft a capire di dover riprendere fiato da una corsa di pubblicazioni ormai decennale. Rogue, all’epoca, aveva un compito a dir poco ardimentoso. Quello di fare da supporto all’uscita del controverso Unity, offrendo quindi un’alternativa ludica a chi non avesse ancora compiuto il salto next gen, proponendosi quindi come l’ultimo AC per le vecchie console. E dire che nelle premesse il tutto era coadiuvato da un piglio narrativo, almeno nelle intenzioni, fortemente atipico per la serie, offrendoci un punto di vista fino ad allora del tutto inedito: quello dei Templari. Rogue, insomma, spostava l’attenzione del giocatore dagli ormai iconici assassini ai loro più acerrimi rivali.

Un’intenzione che, dal punto di vista narrativo, aveva un potenziale immane, specie se si considera che il suo protagonista, Shay, era stato dipinto nel periodo pre lancio come un cupo e inarrestabile cacciatore di teste. La realtà dei fatti fu che Rogue, pur proponendo una storyline diversa e vagamente ambigua, finì per essere un titolo narrativamente molto canonico, quasi banalotto se si considera quanto poi fu identico l’incedere della trama rispetto al passato. Vero è che in Rogue rovistammo nella più torbida morale degli assassini, dipingendo gli eroi come un cinico gruppo di fanatici, ma non fu certo la riconsiderazione dei Templari a salvare il plot che ben presto si trovò a seguire la stessa strada dei predecessori, con un punto di vista neanche così profondo. Col senno di poi diciamo che il più grande merito di Rogue fu forse quello da essere l’unico spin off ad avere il respiro narrativo di una avventura principale, tanto da risultare come un enorme ricapitolativo di quegli eventi che, partendo dal periodo pre-AC 3, finirà per portare proprio a Unity. Una magra consolazione, ma pur sempre una consolazione.

Il crepuscolo del Credo

E dunque: Assassin’s Creed Rogue, concludendo quella che è a tutti gli effetti una trilogia dedicata al territorio americano (III – Black Flag – Rogue), racconta della tormentata vicenda di Shay Cormac, un adepto dell’ordine cresciuto e addestrato sotto l’ala di Achille Davenport, il Mentore dell’ordine della Costa Est americana che, come saprete, sarà poi anche l’addestratore e padre putativo di Connor Kenway. Shay, tuttavia, è uno spirito libero, che alla morale del Credo antepone la propria, convinto che non sempre l’Ordine compia il bene per il popolo, più che per sé stesso. Dopo un disastroso evento in Portogallo, di cui sarà involontariamente protagonista in seguito ad un ordine dello stesso Achille, Shay decide quindi di tradire l’Ordine degli Assassini, terrorizzato dall’idea che le azioni di Achille possano uccidere degli innocenti, e nella fuga che consegue il tradimento, finisce in mare mezzo morto. Salvato proprio da un Templare, il cui codice morale sembra del tutto distante dal modo in cui gli assassini dipingono i loro acerrimi nemici, Shay finisce per unirsi proprio a quei Templari a cui in passato aveva dato la caccia, trovando nella setta quella volontà di aiutare il prossimo che non ritrovava più tra gli Assassini, finendo quindi per divenire un cacciatore degli scalpi dei suoi vecchi compagni d’armi.

Come detto, Rogue si propone l’interessante proposito di offrire una alternativa a al comune punto di vista che ha caratterizzato la serie di Assassin’s Creed, cercando di sovvertire lo stereotipo, quais manicheo, che aveva contraddistinto la serie, secondo cui gli Assassini sono il bene assoluto, e i Templari un male da combattere a tutti i costi. Un presupposto importante, che potenzialmente avrebbe potuto rendere Rogue uno dei capitoli più importanti, e interessanti, dell’intero filone narrativo. Peccato che, come detto in apertura, lo svolgimento della trama finisca per essere di una banalità disarmante, rendendo anche i turbamenti di Shay un argomento del tutto glissabile. L’ex assassino si tormenta per i propri ex compagni, ma nulla finisce per influire veramente sulla trama, relegando il “pathos” ai soli momenti finali del gioco, quando cioè si è ormai abbastanza stanchi e “saturi” da affrontare il tutto con un generale disinteresse. Per dire, c’era molta più ambiguità nell’Edward di Blak Flag, e nel suo binomio assassino-pirata (con tutti quelli che furono i limiti del caso), che in Shay che, forse, più di tutti avrebbe potuto rovistare negli aspetti meno nitidi dell’ambigua morale di ambo le parti. Morale che, per inciso, resta oscura dopo oltre 10 anni di pubblicazioni.

Per quanto riguarda il gameplay, Rogue risulta oggi più che mai una sorta di lascito interattivo di quello che è stato il corso della serie nella sua veste old gen. Ovvero dalle origini sino al salto di Unity. In tal senso il gioco ripesca la gran parte delle meccaniche dei vecchi capitoli, su quello che è fondamentalmente lo scheletro di Black Flag. Rogue è anzi un Black Flag 2.0 a tutti gli effetti, con tanto di battaglie navali, esplorazione di luoghi ameni, atolli dimenticati, caccia alle balene e poco più. I due giochi da questo punto di vista sono identici, e l’unica differenza di Rogue (o pregio se proprio volete) è quella di aver arricchito l’offerta offrendo alcuni degli aspetti salienti di certi vecchi capitoli, come l’esplorazione della frontiera ed annessa caccia di AC III, o la gestione degli adepti, qui sotto forma di flotta navale, di Brotherhood. In buona sostanza è tutto qui, nel senso che non c’è nulla, che non sia la narrazione, che vi possa far sembrare il gioco dissimile da quanto vissuto con Edward Kenway, il che è ovviamente un bene o un male a seconda di quanto siate o non siate fan accaniti della serie. Volendo essere del tutto oggettivi, è comunque ovvio che c’è un senso di stanca che pervade il giocatore dopo qualche ora, dato oggi più che mai non solo dalle innumerevoli ore già passate su Black Flag, ma soprattutto da quella che è l’arretratezza strutturale del gameplay, che dopo i rimaneggiamenti di Syndicate e la rivoluzione di Origins, risulta più obsoleto e stantio che mai.

Giocare oggi a Rogue significa compiere un passo indietro notevole rispetto all’attuale punto di svolta del brand, non solo per l’ampio respiro esplorativo offerto dalla campagna egiziana di Bayek (che per quanto vincolata alla terra ferma, è di gran lunga superiore all’offerta marittima di Rogue), ma anche per tutte quelle migliorie tecniche e di game design che hanno riportato alla nostra attenzione la preziosa serie Ubisoft. In Rogue, per dire, siamo vincolati al vecchio sistema di combattimento, che unito alla sostanziale idiozia nemica vi porterà ben presto alla noia. Il gioco, come detto, è in svantaggio persino con Syndicate, ultimo capitolo del vecchio corso ludico, che però aveva introdotto importanti novità nelle scazzottate e nell’azione in generale. Non solo, Rogue, come ogni vecchio AC, era molto vincolante per ciò che riguarda scalata e esplorazione, offrendo diversi elementi irraggiungibili, come alture o montagne, messe a contorno dello scenario e non del level design. Un qualcosa che per Origins semplicemente non sussiste, data non solo l’atleticità di Bayek, ma lo stravolgimento stesso del level design, che permette al giocatore di andare dove vuole, quando vuole e come vuole. Ritrovarsi oggi a dover cercare la precisa pietra dove effettuare la scalata, salvo saltare come degli idioti verso un muro sul quale il personaggio non può (e mai potrà) aggrapparsi, suona oggi come un tedioso anacronismo, a prescindere che possa piacervi oltremodo l’esperienza in mare, che è invece ancora molto divertente per quanto, ovviamente, non offri alcuna novità rispetto al pacchetto di Black Flag.

Per ciò che riguarda la rimasterizzazione in sé, Ubisoft ha compiuto un lavoro di altissimo livello, come forse dovrebbero prendere ad esempio buona parte di quanti vorrebbero fare più o meno lo stesso (tipo tu Capcom, con la tua terribile Devil May Cry Collection HD). Il colpo d’occhio è eccezionale, sia per ciò che riguarda i modelli, sia per quanto concerne i livelli e l’orizzonte visivo. Pur mostrando una certa arretratezza, data ovviamente dagli anni e dalle sue origini old gen, Rogue si presenta benissimo ai giocatori, permettendo addirittura di beneficiare del supporto 4K dato da PS4 Pro e One X. Il risultato è così buono da dare un’impressione quasi “moderna”, che pur non essendo in grado di competere col colpo d’occhio generale dato, ad esempio, proprio da AC: Origins, riesce comunque a rivaleggiare con altre produzioni del medesimo respiro il che, per un gioco del 2014, non è poco. Anzi. Ovviamente ci sono delle piccole imprecisioni, come ad esempio le texture di certi elementi, come il legno o la pietra, o la modellazione un po’ meno eccellente dei vari NPC, ma questi sono tutti lasciti della genesi old gen del titolo, che non vanno imputati alla rimasterizzazione e che, comunque, richiedono una ricerca puntigliosa e precisa. In sostanza, ad un’occhiata superficiale, o durante le ore di gioco, non avrete l’idea di trovare troppe cose fuori posto, dimostrando un lavoro da parte di Ubisoft preciso e molto apprezzabile. Quando poi leverete l’ancora, Rogue darà davvero il meglio di sé. Pur non avendo dalla sua l’evocativa e tropicale bellezza dei Caraibi, nei suoi paesaggi stretti, nelle sue traversate ghiacciate, il gioco non lesinerà in quanto a maestosità, offrendo sempre un buon compromesso tecnico e, in linea di massima, anche alcuni scorci molto ispirati, confermando anche a posteriori quella che fu una trovata – parliamo ovviamente delle sessioni navali – intrigante e ispirata tanto di Black Flag quanto del titolo qui propostoci.

Verdetto

Assassin’s Creed Rogue è, oggi più che mai, un gioco derivativo e un po’ noioso. Non fosse la stucchevole riproposizione di quello che è, fondamentalmente, il gameplay di Black Flag, ad aggiungere un notevole carico di noia è la differenza rispetto a quanto appena giocato in Origins. Da un certo punto di vista questo è un male, ma aprendo gli occhi Rogue è il paragone perfetto per rendersi conto, a poca distanza dalla conclusione del ciclo di DLC del titolo dedicato a Bayek, di quanto bene abbia fatto Ubisoft col suo ultimo capitolo. Detto ciò, se il gioco in sé non ci dice poi molto, il lavoro di rimasterizzazione è invece ai massimi livelli, tanto che se non fosse per l’effettiva arretratezza dell’originale motore di gioco, parrebbe di trovarsi dinanzi ad un titolo dell’attuale gen. Non è un eufemismo, Rogue infatti si comporta benissimo sotto il punto di vista tecnico, e i limiti, le sbavature, i difetti di aliasing, sono dovuti non ad un’ipotetica pigrizia nello sviluppo della rimasterizzazione, ma ai limiti oggettivi del motore di gioco originale il che, ovviamente, può essere un difetto, ma fino ad un certo punto. Con un colpo d’occhio intrigante, e complice la possibilità più che certa che non abbiate mai giocato a questo episodio “dimenticato”, Rogue potrebbe essere un acquisito considerabile per la vostra collezione. Collezione è ovviamente la parola più corretta, perché con la sua identità di titolo “tramite” tra vecchia e nuova gen, era e resta un episodio confezionato ad uso e consumo dei fan.