Il re è morto, lunga vita al re!

Incomincia l’ennesimo film Marvel, e con lui ricomincia pure il circolo delle aspettative. Black Panther tratta un eroe solitario, fuori dal circolo dei super-vip, quindi teoricamente libero dai legacci di una continuity orizzontale ormai molto rigida. Inoltre, la Pantera Nera è portatrice di un impianto stilistico forte, fatto di cultura ed epica caratteristiche che regge sulle sue sole spalle: in poche parole, nell’universo fumettistico Marvel prima, e nell’UCM dopo, come T’challa non c’è nessuno.

Tuttavia, un po’ come successe per Doctor Strange, la pellicola di Ryan Coogler (già regista di Creed: Nato per combattere) cerca con tanta energia e determinazione un’identità propria, da trovarne più d’una al contempo, eppure senza approfondirne alcuna. È vero che il Wakanda è proprio questo, un’utopia con due anime che convivono impossibilmente: la ricchezza e la tradizione, la memoria e l’evoluzione. Infatti, così viene raffigurato, come una gigantesca bat-caverna dai confini nazionali, nascosta e abbellita da una pantera di pietra scolpita nella montagna.

Tuttavia, se a schermo questa difficile sovrapposizione (a dirla tutta, abbastanza straniante già nei fumetti) riesce con qualche piccolo inciampo, la scollatura si sente soprattutto nella direzione registica intrapresa. Paradossalmente, è proprio quando un film come Black Panther, che avrebbe estremamente bisogno di una visione peculiare, tutta per sé, si confronta con il bisogno imprenditoriale di allargare al massimo il proprio target distributivo, la fruizione ne risente massimamente.

Ormai il velo di Maya è caduto, tutti sappiamo più o meno cosa poterci o non poterci aspettare da un cinecomic: intrattenimento, solitamente leggero, servito su un letto di botte da orbi, condito da qualche risata. Ecco, approfondendo la metafora culinaria, nel piatto di chef Coogler ci sono tutti questi ingredienti, ma con dosaggi squilibrati, e al palato arriva più un assemblaggio che sapori di alta cucina.

Sono interessanti i temi trattati a livello più intimo: è possibile essere buoni E re, contemporaneamente? Il destino dei molti prevale sulla giustizia dei pochi? A questo però si sovrappone una trama di vendetta familiare che sfocia in una lotta civile percepita a livello burocratico, ma non popolare. Il Wakanda, insomma, cade nello stesso tranello dell’Asgard cinematografica dei vari Thor, diventa teatro di scontri al vertice senza lasciarci entrare davvero nella propria atmosfera e cultura, che pure tanto dovrebbero essere pronunciate.

La pellicola, inoltre, inizia con qualche singhiozzo pretestuale, come tutta la sequenza, stranamente somigliante a un film di James Bond (sia la preparazione di T’challa che la scena nel casinò) che orbita attorno all’Ulysses Klaw di Andy Serkis. Tutto ciò, prima che il ruolo di antagonista passi da lui al Killmonger di Michael B. Jordan: anche quest’ultimo, pur essendo vagamente più attivo nei primi due atti del villain Marvel medio, trasforma motivazioni personali in obiettivi mondiali in maniera frettolosa e non troppo chiara. Non splende nemmeno l’interpretazione un po’ asettica del protagonista, Chadwick Boseman, incorniciato però da due grintose Lupita Nyong’o e Danai Gurira. Chiudono il cerchio un Martin Freeman bravo come al solito, ma in modalità risparmio batteria, e un Forest Whitaker appena pervenuto. Da notare, purtroppo in negativo, anche il doppiaggio italiano, abbastanza penalizzante.

A qualche piccolo imbarazzo di montaggio, comunque, fanno da contrappeso un paio di buoni tocchi di regia (un esempio senza spoiler? Il trono inquadrato a rovescio), che lasciano intravedere quell’impronta artigliata che tanto, almeno noi, avremmo desiderato. Le parti action, inoltre, sono ben realizzate, battaglia finale compresa, e accennano persino un paio di brevi piani-sequenza. È questo, oltre all’ottima soundtrack firmata da Kendrick Lamar, che, in fin dei conti, fa strappare al film la sufficienza. Mentre noi, dopo un paio di scene post-credit piuttosto anonime, veniamo appena appena titillati in attesa del grosso pasto di maggio, con gli Avengers dei fratelli Russo cui Coogler strizza un po’ l’occhio. Ahinoi, forse anche troppo.

Verdetto

Black Panther, non senza un’acuta nota di delusione, si rivela un cinecomic Marvel molto nella norma. Temi interessanti, spunto di conflitto per gli eroi protagonisti, quali ad esempio la fedeltà al proprio popolo contro quella al proprio sangue o ai propri sentimenti, trovano fin troppo poco spazio, appiattiti su una trama che unisce istanze universali nebulose ad altre, personali e di vendetta. La confusione che ne deriva si riflette anche su una regia indecisa, che sembra avere del potenziale ma applicarsi poco, o meglio, non sapere bene dove e come applicarsi. Un cast di attori efficaci impegnato in parecchia azione, ma anche in parecchie chiacchiere, salva il film assieme a una convincente colonna sonora. Ma dal futuro, e non parliamo di assemble movie ma di film standalone come Captain Marvel, vogliamo e dobbiamo aspettarci di più.