Il senso del mio scrivere

Proprio di recente, ho ricevuto sul mio profilo di Ask.fm una domanda relativa al mio modo di creare storie. La domanda era proprio “in che modo crei una storia?”. Credo che spiegare qual è il processo creativo che c’è dietro la genesi di tutte le mie storie sia un modo interessante di fare il punto sulla situazione generale della narrativa italiana. Chiaramente, dal mio punto di vista.

Innanzitutto, devo avere qualcosa da dire. Sembra una banalità, ma non lo è affatto, anzi probabilmente è il perno attorno al quale ruota tutto il discorso.

Vi racconterò un aneddoto, per introdurre l’argomento: una volta ero seduto in pizzeria con alcuni amici, tra cui anche un paio di scrittori. A dir la verità, non sapevo che lo fossero, e probabilmente non lo erano perché i loro romanzi, benché in fase avanzata di scrittura, erano ancora incompleti e al momento attuale non so nemmeno se li abbiano terminati o se li abbiano pubblicati o meno. Questi due amici parlottavano fra loro delle loro opere. Narrativa fantasy. Li ascoltavo con malcelato interesse. Poi, dopo un po’ che non parlavano di altro se non di elfi, nani, regni inventati e misteri da risolvere, mi decisi a fare loro la domanda che mi girava in testa dall’inizio: «Ma di cosa parlano i vostri libri?». Da uno dei due ricevetti una risposta interessante: mi disse che il suo libro parlava dei timori e delle paure di un eroe che era costretto, dal suo ruolo, ad affrontare un nemico imbattibile, certo che sarebbe morto nel tentativo. Mi piacque. L’altro mi disse invece: «Nel mio libro ci sono i nani, che sono schiavi e vivono nel sottosuolo, e gli elfi che…»

Lo interruppi subito. «No, no… intendevo dire, di cosa parla il libro.»

Lui mi fissò per qualche secondo come se non avesse capito il senso della domanda, poi riprese: «Ci sono i nani, che vivono nel sottosuolo, e poi ci sono gli elfi…»

Ci misi un po’ a fargli capire che cosa intendevo con “di cosa parla il libro”. Alla fine mi rispose: «Parla di amicizia, dell’onore, di avventura, di sapersela cavare…» e poi, in un lampo di sincerità aggiunse «E comunque io volevo solo raccontare una storia, una bella storia, di quelle che ti fanno entusiasmare, divertire, emozionare… niente di più.»

Ecco. Niente di più. Il mio personale consiglio di autore a tutti gli esordienti scrittori o sedicenti tali, è che se dovete alzare la penna per scrivere “perché ho voglia di scrivere”, allora fareste meglio a lasciar stare. Certo, magari la vostra prosa è eccezionale, magari avete una fantasia sconfinata e descriverete scene meravigliose, magari avete in testa una storia così originale che dovete proprio scriverla. Ebbene, no, non ne vale la pena. Se non avete niente da dire, non dite. E sapete perché? Perché c’è già così tanta letteratura in giro, che sicuramente qualcuno scrive meglio di voi, inventa meglio di voi e l’ha già fatto. Non c’è bisogno di altri libri che gravino gli scaffali senza dire nulla a chi li legge. Scrivere “per divertire, per emozionare, per raccontare” vuol dire semplicemente scrivere. Niente di più. Scrivete se avete qualcosa da dire, da comunicare a chi legge, se intendete comunicare qualcosa. Qualsiasi cosa. Che sia una visione del mondo, una riflessione illuminante, un punto di vista fuori dal coro su un aspetto dell’umanità, della vita, delle persone, una domanda che vi gira in testa (le risposte, per favore, tenetevele). Non è una morale, non dovete insegnare niente, dovete comunicare, trasmettere.

Fate attenzione, perché la vostra opera, a lungo andare, sarà connotata, valorizzata e caratterizzata non da quello che racconta, ma da quello che dice. Se fra cinquanta o cento anni leggeranno ancora il vostro libro, non sarà perché parla di nani, di navi volanti o di fiumi che scorrono al contrario: lo leggeranno ancora se (e solo se) troveranno quello che volevate dire interessante, valido, di valore, maturo.

Oh, poi magari siete di quelli che “sticazzi ho voglia di scrivere e scrivo”. Nessun problema, non siete i soli, basta fare un giro in libreria per scoprire quanti ce ne sono. Ma io, questo problema, me lo pongo. Quindi torniamo alla domanda iniziale: com’è che nascono le mie storie? Nascono innanzitutto da un’esigenza comunicativa, e cioè da una luce iniziale che è quello che voglio trasmettere al lettore, quello che io chiamo messaggio. Attorno a quell’intenzione, costruisco la storia. La storia può essere qualsiasi cosa, fantascienza, dramma casalingo, fantasy, giallo. Ho una predilezione per il fantastico, ma questa è una cosa personale (e forse un’altra volta vi spiegherò perché). La storia conduce ai personaggi, che creo in funzione del loro ruolo all’interno dell’intreccio. E poi tutto il resto, cioè i dettagli storici, geografici, politici… quello che è necessario, quello che serve, nulla di più.

E se quando il lettore chiude un mio racconto si ferma a riflettere anche solo due secondi su quello che ha appena letto, il mio obiettivo è raggiunto.

A cura di Luigi Bigio Cecchi