Io sto con Golia. Ovvero, la nostra benedizione all’onnipotenza degli dei.

Film campioni di incassi, cantanti che riempiono gli stadi, libri con tirature milionarie. Sono tali perché li apprezziamo o li apprezziamo perché sono tali? Poco importa, quel che è certo è che ormai sono nell’Olimpo. E da lassù possono fare quel che vogliono: a noi va bene così. Abbiamo bisogno di dei e di eroi, con buona pace dei “piccoli”. O almeno questa è un’impressione di Stefano Bonfanti. Uno dei tanti “piccoli” che hanno dovuto fare i conti con gli dei.

Ricordate Davide e Golia? Ecco, immagino boati da stadio quando il piccoletto ha steso l’enorme creatura famelica con un solo colpo ma piazzato bene. O almeno cresciamo tutti nel mito di chi, nonostante la stazza ridotta e l’handicap di partenza, riesce a bruciare le tappe e piazzarsi più avanti rispetto a ben più promettenti candidati.
Ma, è davvero questo quello che ci piace?

Forse un po’ tutti sanno che, qualche settimana fa, i Subsonica sono diventati zimbello assoluto nel momento in cui hanno fatto notare la somiglianza di quattro note di una loro canzone a quelle di un nuovo capolavoro del Maestro Morricone.
Non sono un gran conoscitore della rock band torinese e, di contro, credo che l’illustre compositore cinematografico sia uno dei pochi ad avermi trascinato, eccitato e commosso semplicemente grazie alla sapiente miscela di armonie e melodie dei suoi brani.
Eppure c’è stato qualcosa non tanto nella diatriba in sé, quanto nello strascico più “social” che mi ha risvegliato antichi furori.

Chi ha seguito la vicenda avrà ricostruito che i rockettari sabaudi hanno notato la similitudine delle quattro note un po’ come se venissi a conoscenza di tre fratelli che si chiamano esattamente come i miei nipoti: le mie antenne si drizzano, a differenza di quelle dei più, e non riesco a fare a meno di farlo notare a tutti coloro che possano cogliere la coincidenza.
Ma, lesa maestà! Tutti gli scudi del web si sono levati, che non sia mai si voglia anche solo accostare da lontano il nome del Maestro al concetto di plagio.
Hai voglia di precisare, narrare, circostanziare. I Subsonica, al di là di ogni intento, si ritrovano loro malgrado ad aver evacuato ben lungi dal vaso, causa un’infausta ventata.

Per i più moderati argomentatori, poi, il territorio era minato: ogni considerazione equivaleva né più né meno a una scelta di campo a senso unico, non tanto per l’impietoso confronto fra le due carriere musicali – che, aspettando un altro po’, si sarebbe arricchito di una stella nel Walk of Fame per il Maestro Morricone – quanto per l’ardire della rock band nel volersi presumibilmente mettere a confronto. Perché si può sempre paragonare il diametro della Terra a quello del Sole, ma quando si tratta di mortali contro dei, l’accusa di sacrilegio è sempre dietro l’angolo.
Forse l’entrare in merito non mette al riparo neppure me da sospetti di alto tradimento, tuttavia la cosa mi sarebbe passata ben più inosservata se non avessi vissuto in prima persona queste dinamiche sociali.

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E vissute le ho vissute, sin dalle prime parodie a fumetti che ho realizzato. Inevitabile che, fra mille persone che colgono il senso satirico dello stravolgimento parodistico, ce ne sia una che s’indigna avanzando accuse di parassitismo, forse ignaro di quel bisogno sociale di “profanare” il “sacro” a cui risponde. Bisogno riconosciuto, per inciso, dalla legge stessa, che tutela la parodia come opera a se stante che non solo non viola il copyright del parodiato, ma può essere a sua volta difesa da eventuali plagi.
Peccato che questa concezione non sia – perdonatemi il gioco di parole – di pubblico dominio, tanto che a volte, fra i più fervidi sostenitori dell’opera parodiata, c’è qualcuno che va oltre la semplice e sdegnosa alzata di sopracciglio.

Già dai tempi de “Il Signore dei Porcelli” e di “Harry Porker” subimmo le invettive di chi si indignava per questo nuovo caso di mortali che osavano entrare nel territorio degli dei e, addirittura, qualche piccolo atto di vandalismo web. Più tranquilla la situazione con “Star Porks”, dato che la trilogia di Lucas era ormai avvezza a profanazioni e, avendo la più famosa la firma di Mel Brooks – già appartenente all’Olimpo – sono certo che molti cervelli erano andati in corto circuito in tempi non sospetti, cercando di capire se e quanto ci si possa toccare fra intoccabili.

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Ma un caso specifico mi torna alla memoria e mi riapre vecchie ferite.
Settembre di un bel po’ di anni fa, brusio generale di eccitazione per l’uscita della versione cinematografica di un seguitissimo show televisivo, e anch’io ero in fervida attesa. Stavamo lavorando a una parodia supereroistica, che avrebbe visto la luce da lì a un paio di mesi ma il titolo previsto ci era stato bruciato dal fatto che veniva già usato, come gioco di parole, nella versione in lingua originale del film in questione.

Per quanto i concetti fossero diversi, il nome del supereroe suino che avremmo utilizzato veniva chiaramente proclamato in quella che sarebbe stata la battuta di punta di tutto il film, rimbalzata nei trailer cinematografici e nelle pubblicità di tutto l’indotto.
Pazienza, dicemmo: troveremo un’alternativa. D’altronde va detto: chi vive di proprietà intellettuale, non può certo andare a rubare quella altrui. E poi, gli dei non vanno sfidati.

L’aneddoto dell’editrice francese Albert René che fece causa a una software house che aveva usato la denominazione Mobilix, troppo simile ai nomi del suo ipertrofico gallo lanciatore di menhir, già di per sé ci aveva fatto capire che sui marchi non si scherza. Il fatto che l’Albert René poi quella causa l’avesse vinta davvero, ci aveva anche insegnato che proprio non c’è niente di cui scherzare.

Serietà per serietà, trovammo l’alternativa al titolo, sempre sulla falsariga ma sufficientemente diversa da farci pensare che in questa sporca città ci fosse spazio per entrambi. Tanto per il piccolo e sconosciuto Davide, quanto per il celebre e figo Golia, al quale io stesso ero molto affezionato.

Però il sollievo durò poco. Forse perché poco comprensibile all’italico intelletto medio, il gioco di parole che ci aveva soffiato il titolo, venne adattato in sala di doppiaggio. Andando a coincidere appunto con… indovinate un po’? Beh, sì, la nostra salomonica alternativa. D’altronde l’uscita del nostro fumetto era ancora lontana nel futuro, quindi il buon Golia non poteva esser biasimato per aver calpestato dei piedi che non erano ancora lì. Bruciata anche l’alternativa, ci restò solo da imprecare e rassegnarci a un titolo ben più fiacco, con brutte ripercussioni sulle vendite di quella che invece era forse una delle nostre parodie più riuscite all’epoca.

Ma il destino era in agguato. Il caso volle che, sempre nella scena di punta del blockbusterone, fosse preso di mira un altro personaggio da noi già parodiato, e ben tre anni prima. Poco male, perché il suo nome nella versione in lingua originale non aveva niente a che fare col nostro titolo.
Se non che, ai nostri doppiatori italiani – che, sia ben chiaro, generalmente reputo dei mostri di professionalità e di bravura – venne “naturale” adattare quel nome al gusto e alla comprensione dell’italico pubblico.
Sì, avete intuito bene. Neanche un giro su Google per vedere che quel posto era già occupato. Nella versione italiana, la sequenza più famosa di quel kolossal in uscita avrebbe menzionato pari pari un nostro titolo ma, ovviamente, impadronendosene.

Pensate che due anni prima avevamo lanciato una serie di personaggi per una nota azienda internazionale e ci stupimmo di tutto lo scrupolo dei loro legali per evitare che i loro nomi andassero a coincidere, anche solo in parte, con marchi o denominazioni già esistenti. Parallelismi che mi sembravano ai limiti del ridicolo ma se, ad esempio, il lemma “Star” fosse già associato ai dadi da brodo, andava evitato anche ogni più lontano composto.
Qui mi stupì il contrario, sia per il risultato a noi nefasto, sia anche per l’atteggiamento che sottintendeva: “siamo dei, che ci frega a noi di calpestare i piedi ai mortali?”
E la loro divinità era fuori dubbio, per carità. Decani del doppiaggio e grandissimi artisti, mai messo in discussione.

Solo mi chiedo perché, allora, qualche anno prima mi scrisse Leo Ortolani per chiedermi come recuperare una copia de “Il Signore dei Porcelli” dato che stava anche lui scrivendo una parodia e voleva evitare sovrapposizioni. Lui che, con una delle sue storie più in sordina, già faceva tirature a trenta volte delle nostre. Dunque la correttezza e la serietà sono solo prerogative degli ex-geologi?

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Ma tant’è, si potrebbe dire. Great minds think alike, si potrebbe dire.
Peccato che Golia, il blockbusterone, si sarebbe di lì a poco imposto nelle sale cinematografiche dello stivale mentre solo una sparuta manciata di migliaia di lettori avrebbe ricordato che quel grazioso calembour era già un nostro titolo. Per tutti gli altri, che comprensibilmente non avrebbero neanche guardato il colophon per vedere la data di uscita del libro, saremmo stati noi i cialtroni che “hanno copiato”.

Il destino era segnato e come si è evoluta poi la situazione, fra alterne vicende, va al di là di ciò che voglio dire qui. Il punto è invece la situazione di “cornuto e mazziato” che ho vissuto in quel frangente. Forte di cognizione della nostra presunta naturale predilezione per il piccolo Davide sul grosso Golia, ho osato usare i miei minuscoli canali per provare a stabilire un piccolo primato: ricordate il nostro titolo? Ecco, se spargete la voce che già c’è da tempo, ci evitate la brutta figura di quei “plagiatori al contrario” che il fato inevitabilmente ci riserva.

Apriti cielo. Credo di aver accumulato in quel frangente una varietà di insulti più ampia di ogni volta in cui ho bruciato la precedenza a qualcuno per strada. Per la maggiore, andava l’idea del parassita, che si approfittava della visibilità del colosso per esserne trainato, quand’anche già non si sottintendesse un’ancor più censurabile caccia a dei vantaggi pecuniari. Poi c’era chi entrava in merito su come non ci si dovesse attaccare a un calembour, lasciando trapelare un concetto di “pubblico dominio” obbligatorio, con buona pace di tutta la disciplina dei marchi e della proprietà intellettuale.
Corollario naturale di quella concezione dovrebbe essere il diritto al prodotto tarocco, ma chissà come mai si è disposti a sborsare capitali in un capo firmato e non ci si accontenta di una crosta, pure se identica a un capolavoro.

Ecco com’è che l’affaire Subsonica-Morricone mi ha risvegliato dei vissuti che avrei preferito lasciare all’oblio, tornando a illudermi che il pubblico sia in grado di accettare quel famoso colpo di fionda che stese il gigante biblico.
Niente da fare: Davide è piccolo, sì, ma perché è una zecca. E il celebre e figo Golia fa bene a scacciarlo con un colpo di zampa.
Capito il punto? Siamo un pubblico di idolatri. Quello che ci viene calato dall’alto è la manna, quello che emerge dal basso è la gramigna. E se un suddito osa rivendicare una qualche sorta di diritto individuale, siamo sempre pronti a gridare alla lesa maestà.

Ogni distinguo che si potrebbe fare è facile che venga subissato dal lancio di pomodori, anche se è preceduto da attestazioni di stima e genuflessioni verso il Sacro plagiatore, dichiarando che la Sua inarrestabile verve creativa è finita per motivi di puro caso a coincidere con la nostra umile proprietà intellettuale, e che un’Entità Superiore del genere mai e poi mai avrà bisogno di imitare scientemente delle nullità come noi.

Quindi, dai, confessiamolo. Non ci piace il popolo, non ci piace l’individuo. Ci piacciono gli dei e ci piace che fra loro e l’uomo comune ci sia un abisso. Forse perché sarebbe eccitante pensare alle nostre vite una volta scavalcato quell’abisso, o forse perché semplicemente nel nostro DNA sta scritto che non riusciamo a vivere senza qualcuno che ci guardi con disprezzo da lassù.

No, certo. Lo so che sono troppo impietoso e che la realtà non è questa. Ci siamo ancora noi che spesso preferiamo il piccolo e intenso dramma di cinematografia norvegese al record di incassi hollywoodiano, il ricercato brano indie-jazz all’earworm pop in alta rotazione o la ribollita della nonna al Big-Mac.
Però mi viene un dubbio. Che sia perché ci siamo auto-eletti dèi nel nostro ruolo di audience e ci sdegniamo del resto del pubblico caprone? Ohibò, forse è così.
E allora, daje Golia, schiaccia quel pidocchietto e continua a stupirci.

Stefano Bonfanti
Disegnatore, editore e scrittore di cose buffe. Laureato con lode in Economia in un attimo di smarrimento, si è gettato nel mondo delle nuvolette di carta con lo pseudonimo Dentiblù assieme al suo alter-ego al femminile Barbara Barbieri. Disegnatori ed editori, uniscono questa doppia natura nel loro Zannablù. Illustratori e creativi per il marketing, potrebbero aver progettato la sorpresina dell’ovetto al cioccolato che stai mangiando adesso.