13 buone ragioni per farla finita. O no? (SECONDA PARTE)

Forse si stanno un po’ raffreddando gli animi su quell’ode al farla finita e alle audiocassette che è Thirteen Reasons Why, seppure il tema di base sia stato riproposto dall’ondata di analfabetismo funzionale marcata Blue Whale ma, sull’onda lunga, Stefano Bonfanti riflette sui motivi per i quali mollare baracca e burattini e ritirarsi a vita privata.
Le prime four reasons nella precedente column, oggi arriviamo a eight. And counting.

5) Da grande farò il gregario.

Lo so, a volte sono davvero fastidioso, ma ho le mie manie. Fra queste, l’evidentemente assurda convinzione che l’aspirazione somma di un artista sia quella di lasciare una traccia personale nel panorama anziché accodarsi ad altri – seppure illustri – su strade già tracciate. Lasciai di stucco il mio interlocutore quando, ai miei esordi, mi si complimentò tanto sui miei lavori quanto sulla pervicacia volendomi lusingare con “arriverai a disegnare Tex”. Dal cuore, senza pensarci troppo, esclamai “speriamo di no!”
Un amico più navigato e con più savoir faire di quell’imberbe me, si precipitò a circostanziare le mie parole, per ridurre il sacrilegio di fronte a un paio di occhi spalancati. Sì, è vero che mi sono più congeniali altri generi, ma il fatto resta che esordire con progetti personali per poi approdare a diventare un interprete di personaggi altrui mi sembrava un percorso al contrario.
Io però faccio poco testo: da uomo invisibile del parco autori nazionale, molti sarebbero pronti a vedermi volpe di fronte all’uva e mi lascerebbero cuocere nel brodo delle mie fisime. Il guaio è che vedo nomi di tutto rispetto, diventati quasi sacri con progetti personali apprezzatissimi, ben pronti a mollare tutto pur di entrare nel branco dei lavoratori al soldo delle multinazionali degli uomini in calzamaglia. In pratica smetto di essere Prometeo che ruba il fuoco agli dei pur di entrare a far parte della loro corte.
Se quella è davvero la stazione di arrivo, mi sa che ho sbagliato treno.

6) Le “prese in giro”.

Nel lontano 2003, al suo quinto volume, la nostra saga di Zannablù imbocca la strada della parodia con “Il Signore dei Porcelli”. Non nasceva come appuntamento fisso, non intendeva essere la prima della serie, ma era solo una sorta di atto d’amore verso l’opera di Tolkien. Fatto è che ci trovammo di fronte a un inaspettato fenomeno che, nel corso anche degli anni successivi, è stato ristampato un sacco di volte e ha raggiunto una tiratura complessiva a cinque cifre. Nel fumetto indipendente, specie all’epoca, non era cosa da poco.
E sempre senza sistematicità, seguì Harry Porker, foriero di gioie, dolori e ancora gioie. Poi Star Porks. Si delineava una sorta di modus operandi, lo so, ma ogni volume aveva una storia a sé, spesso dietro l’impulso dei lettori stessi che, inebriati da una ne chiedevano a gran voce altre. Senza contare che, fra l’uno e l’altro, usciva sempre una storia a soggetto del tutto originale (giusto per intendersi, poi anche la parodia è un’opera originale, a meno che dietro alla classificazione non si celi indebitamente un’opera di puro scimmiottamento).
Ma la condanna in contropartita a questo fortunato filone, salutato con entusiasmo tanto dai lettori habitué quanto dai novizi, è sentirsi talvolta apostrofare senza mezzi termini come quelli che “fanno solo prese in giro”. Da dove comincio, dall’equiparazione di un genere letterario allo scherno fine a se stesso o dal buio completo su tutto il resto della nostra produzione? E, in merito a quest’ultima, mi viene da ridere amaro quando qualcuno si scervella a capire di cosa sia parodia un titolo che parodia non è.
In barba ai modi di dire, imbarcandomi su questo filone ho trovato qualcosa che tanto mi fortifica, quanto mi uccide.

column unicorni in molise giugno

7) Se non consumi, non produci.

Se non leggi fumetti, non puoi farli”. È una raccomandazione generica di semplice buon senso? Ok, allora ci sta tutta. Impossibile che uno sia cuoco se si nutre solo con le flebo: la padronanza sugli ingredienti è fondamentale per un risultato decente.
Ma a volte, detta massima, sembra piuttosto scritta a fuoco su pietra dal Dio dei Fumetti e serve a escluderti dai giochi a meno che tu non sia un lettore compulsivo di tutto il panorama. Beh, di tutto il panorama “che conta”, diciamo, dato che in ogni settore ci sono le sue eminenze grigie che stabiliscono a monte ciò che è in e ciò che è out. Ma non sottilizziamo.
Il problema diventa quando non soltanto il fumetto è il tuo lavoro, ma anche quando il tuo lavoro ti assorbe buona parte delle ore di veglia. Può essere (e sottolineo “può”) che il poco tempo libero che ti resta, tu voglia consacrarlo come tale dedicandoti anche ad altro oltre che al magico mondo delle nuvolette. Certo, se fosse una religione, dovrebbe riempire ogni istante della tua vita e dargli senso. Se fosse una religione, non potresti dirti degno di praticarla se in alcuni momenti ti senti propenso a dimenticarla. Se fosse una religione, non basterebbe averne appreso a lungo e approfonditamente i principi ma bisognerebbe rinnovarne continuamente il culto.
E, se fosse una religione, ci sarebbe una gerarchia spirituale che decide se puoi farne parte o meno.
Oh, ma non lo è, intendiamoci. No no, non lo è. Però intanto è meglio se mi do un’autoflagellatina, per scrupolo. Non vorrei che i Sacerdoti del Sacro Fumo mi lanciassero una scomunica.

8) Il pelo sullo stomaco.

Prendete qualche scena che ha fatto la storia del cinema. Non so, poniamo “l’orrore! L’orrore!” di Marlon Brando in Apocalypse Now.
Sentitene l’intensità. Coglietene la critica sociale. Assaporate la complessità del personaggio. Respirate il significato di quel momento. Bene.
E ora ripensatela con Kermit la Rana al posto di Brando.
Ecco, dovevo pensarci subito che coi “funny animals” mi sarei scavato la fossa. Nonostante i fasti di Lupo Alberto, di cui adesso percepiamo solo una frazione della gloria che lo ha permeato nei decenni precedenti, direi che in linea di massima l’animaletto buffo e peloso ormai squalifica in toto ogni opera di cui faccia parte.
“Eh, ma Crumb, con Fritz the Cat, ha veicolato un immaginario erotico molto forte, quindi il funny animal non necessariamente è–”
“Zitto, tu non sei Crumb, tu fai i pupazzetti.”
Niente da dire, l’argomento ad hominem risolve sul nascere ogni controversia. E quindi è tutto scritto: il genere ti vincola e per questo lo vuoi rinnovare, ma non puoi rinnovarlo perché ti vincola.
Quando qualche lettore mi ha detto di apprezzare la satira sociale che metto nei miei fumetti, avevo le lacrime agli occhi. Possibile che si fosse accorto ci fosse, dietro alle paffute e pelose fattezze dei miei personaggi?
Quasi non ci credo più neanch’io.

column unicorni in molise giugno

Bene.
Vicino a due terzi delle mie thirteen reasons, mi comincio a chiedere se questa sorta di esercizio di stile mi porti davvero ad appendere la matita al chiodo o se, a differenza di Hannah Baker, vedrò lo spiraglio di luce alla fine del tunnel.
Ma intanto è un tunnel bello lungo.

Stefano Bonfanti
Disegnatore, editore e scrittore di cose buffe. Laureato con lode in Economia in un attimo di smarrimento, si è gettato nel mondo delle nuvolette di carta con lo pseudonimo Dentiblù assieme al suo alter-ego al femminile Barbara Barbieri. Disegnatori ed editori, uniscono questa doppia natura nel loro Zannablù. Illustratori e creativi per il marketing, potrebbero aver progettato la sorpresina dell’ovetto al cioccolato che stai mangiando adesso.