“Un film che narra la violenza senza mai mostrarla”

Sono le 00:39 del 20 Luglio 2012, quando la polizia di Aurora riceve le prime segnalazioni riguardanti un uomo bianco armato, di 25 anni, che nel cinema Century 16 Movie Theater, adiacente il centro commerciale della cittadina statunitense, ha aperto il fuoco sul pubblico accorso in sala per la prima de Il Cavaliere Oscuro – Il ritorno.
Quell’uomo ha il nome di James Aegan Holmes, e verrà arrestato alle 00:45 nel retro dell’edificio, arrendendosi senza opporre resistenza, dopo aver ucciso 12 persone ed averne ferite altre 58.

Vorremmo che tutto ciò fosse semplicemente la trama di un film, ma purtroppo non è così.
Questo terribile fatto di cronaca ci viene raccontato, a distanza di qualche anno, in maniera estremamente particolare, dal regista americano Tim Sutton nella sua ultima fatica: Dark Night.


Il film ad un primo sguardo può ricordare i lavori di Gus Van Sant, ma sostanzialmente è qualcosa di diverso, è qualcosa di più, che non vuole vivere mai l’azione, una creatura che vuole semplicemente osservare.
Sutton, autore di altre pellicole estremamente intime ed introspettive come Pavilion e Memphis, ci dona un prodotto che, leggendo il tema trattato, mai ci saremmo aspettati di vedere.
Dark Night è un film delicato, estremamente complesso nella sua semplicità, un’opera che ci mostra il quotidiano vivere delle persone che andranno ad occupare i posti nella sala cinematografica, analizzando esseri umani svuotati, privi di empatia, consumati dal quieto vivere della cittadina americana.
Desolate esistenze che si autoconsumano giorno dopo giorno, sino ad arrivare al momento X.
Ciò che ci sorprende maggiormente della creatura di Sutton è il fatto di essere un film forte, d’impatto, ricco di violenza seppur quest’ultima non compaia mai.
Il regista di mostra una violenza diversa, inedita, quella che si cela nella routine di ogni persona sotto vari aspetti, in una moltitudine di sfaccettature.


Dark Night, durante tutti e 130 minuti di proiezione, non si scompone mai, non utilizza artifizi di vario tipo per far aumentare la tensione dello spettatore, non vuole enfatizzare nulla: narra e basta. Perché è tramite la semplice, seppur banale, narrazione che il messaggio arriva.
Lo spettatore seduto sulla poltrona o sul proprio divano, acquisisce la concezione che le figure sullo schermo sono esseri eterei privi di sostanza, fondati sulla singola forma, uomini verso i quali è impossibile immedesimarsi.
Ma non è così.
Sutton ci mette di fronte alla sostanza composta prevalentemente dalla violenza vera, pura, apparentemente celata, ma che ci minaccia costantemente.
Una violenza non necessariamente esterna, ma insita anche nelle nostre dimore, nella nostra persona.
Un viaggio crudo, un’analisi che riesce ad arrivare in maniera impeccabile grazie alla fotografia delicata e triste, quasi intangibile, dell’artista Hélène Louvart, il quale ci mostra un mondo vero, spoglio, desolante, incapace di poter donare vita ai personaggi sullo schermo, i quali si limitano ad esistere anziché vivere. 
L’esistenza anonima dei protagonisti, o forse, a questo punto, comparse, dell’opera è accompagnata dalla musica di Maica Armata (la quale ricorda molto The XX) che si ripete in un costante, delicato e malinconico leitmotiv.

Una narrazione che vuole attaccare, seppur senza utilizzare la forza, una denuncia costante della violenza insita nella nostra quotidianità, presente nelle nostre vite, della cui esistenza noi siamo consapevoli ma al contempo non in grado di poterla vedere.
Dark night è un’opera fluida, una macrosequenza che ha uno stacco solo nell’attimo che precede la tragedia, una narrazione della quiete prima della tempesta, una quiete che, però, è prolungata, costante ed interessa tutta la vita delle persone.

Ovviamente questa nostra analisi si fonda su un gigantesco atto di interiorizzazione, e non biasimiamo coloro i quali decideranno di interrompere la proiezione di una pellicola estremamente complessa nella sua semplicità, un racconto pesante e che fa nascere un profondo senso di disagio nel nostro animo.
Probabilmente, dopo la visione di questa pellicola, riusciremo a dire, anche provocatoriamente, che il crimine viene perpetrato non solo dai criminali, ma da tutti noi quotidianamente.


Verdetto:


Con Dark Night Sutton analizza solo la superficie della vita delle vittime e dell’assassino.
Il film ci mostra costantemente qualcosa, senza evidenziare realmente nulla, quasi a volerci dare un semplice indizio per farci arrivare alla conclusione di ciò che stiamo osservando.
Un racconto sul male, perfettamente accompagnato e coadiuvato da una colonna sonora cucita su misura della vita delle persone, e da una fotografia povera, spoglia, triste, capace di avere un grandissimo impatto.
Un male che attanaglia il vivere passivo di tutti quanti i personaggi, in particolar modo il giovane assassino Holmes, che però ci mette a disagio tanto quanto altre figure che finiscono per essere vittime, in un vortice di banali eventi che ci fa capire che preda e cacciatore (se non sapessimo la veridicità di tali avvenimenti) non sono tanto diversi l’uno dall’altro.
Sutton riesce ad arrivare in un modo o nell’altro, offrendoci un’opera che si destruttura da sola, riducendo le battute all’osso (20 o forse 30 durante tutto il film), eliminando o, in base ai punti di vista, ampliando il lato artistico a favore di una critica mai velata.

Leonardo Diofebo
Classe '95, nato a Roma dove si laurea in scienze della comunicazione. Cresciuto tra le pellicole di Tim Burton e Martin Scorsese, passa la vita recensendo serie TV e film, sia sul web che dietro un microfono. Dopo la magistrale in giornalismo proverà a evocare un Grande Antico per incontrare uno dei suoi idoli: H. P. Lovecraft.