Vita da Souls Player

Devo ammetterlo, dovessi scegliere un titolo videoludico in grado di sorprendermi per ogni piccolo particolare, per ogni oggetto trovato oppure su cosa si cela dietro ogni porta chiusa, mi verrebbe automatico pensare al primo Dark Souls. In particolare penserei alla mia prima volta, al mio primo approccio ad un modo di concepire il videogame completamente diverso. Dark Souls è, per come la vedo io, la quintessenza del media videoludico, almeno come la s’intendeva una volta. Ma prima vi avviso, se non avete mai provato con mano Dark Souls (o un qualunque Soulslike), potreste non carpire del tutto lo spirito dell’articolo e soprattutto rischiereste di rovinarvi un gioco che fa dei dettagli e del “non detto” la sua intera trama. Tutto a vostro rischio insomma, cercherò di essere quanto più chiaro possibile, scendendo anche nei dettagli per chi non è avvezzo al titolo, ma sopratutto il discorso è diretto a quelli che ricordano con una lacrimuccia la sofferenza e lo spaesamento della prima volta nei Souls.

Il mio primo approccio alla serie, in un certo senso, avvenne con un titolo per PS1 che non c’entrava nulla ufficialmente, ma che già all’epoca si accostava ai Soulslike, sto parlando dell’ormai vetusto Nightmare Creatures, action frenetico dall’elevata difficoltà, che presentava in un certo modo i temi gotico/decadenti ripresi dai Souls, soprattutto da Bloodborne per ciò che riguarda l’ambientazione. In seguito fu King’s Field, un dungeon crawler in prima persona funestato da terribili scelte di doppiaggio, a gettare letteralmente le fondamenta di “soulsiana memoria” nella mente degli sviluppatori di From Software, soprattutto in quella di un certo Hidetaka Miyazaki, un giovane sviluppatore che muoveva i primi passi lavorando alla serie mecha degli Armored Core. Ed è proprio Miyazaki stesso a partorire il capostipite della serie, Demon’s Souls, ghiottissima esclusiva PS3 che giocai approfonditamente solo tempo dopo, stiamo parlando del titolo che è in tutto e per tutto l’ossatura della serie. Il mio viaggio nella saga di From iniziò però con il suo seguito indiretto: Dark Souls.

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La prima volta fa sempre un po’ male

Dark Souls giunse nella mia “carriera” di videogiocatore come un fulmine a ciel sereno. Motivo principale era il fatto che lo iniziai quando veniva considerato gioco di nicchia, dal sapore un po’ indie, visti gli evidenti svarioni tecnici e un framerate sbarazzino (elementi da cui la serie è tutt’ora restia ad allontanarsi). Insomma, cominciai questo viaggio senza aspettative, non c’era hype che montava, non c’era bramosia, solo onesta curiosità. Curiosità che si trasformò in puro distillato di terrore e perdizione fin dalle primissime battute di gioco, fin dalla creazione del personaggio, con le statistiche da distribuire, l’equipaggiamento con cui iniziare l’avventura e soprattutto il dono iniziale. In un mondo di videogiochi che hanno tutorial più lunghi e complessi della trama principale, di checkpoint ogni mezzo metro, di difficoltà selezionabili, Dark Souls mi gettò senza tanti complimenti in una cella lorda e buia dopo un prologo scarno che spiegava il background dell’ambientazione. Mi ritrovai solo al buio, con  il mio personaggio orribilmente sfigurato dalla misteriosa maledizione di non morte che lo affligge e un pendaglio dal dubbio utilizzo. Sarà magico, pensai scegliendolo dall’editor. Non ero cosciente che in realtà si trattava della prima lezione dei Souls: non dar niente per scontato. Come tutti sappiamo, per stessa ammissione del creatore dell’opera, e parliamo del giovane Miyazaki di cui sopra, che nel frattempo è diventato presidente di From Software, che quel pendaglio non serviva a nulla di concreto nel gioco, era un oggetto dall’importanza soggettiva, ogni giocatore decideva di dargliela a modo suo. Proprio come riportato nella descrizione dell’inventario. Seconda lezione dei Souls: le descrizioni e i dettagli sono il cuore dello storytelling. Niente cutscenes da mezz’ora, spiegoni ridondanti o discorsi pomposi, solo brevi stralci di descrizione, che lasciavano al giocatore l’onere (e l’onore) di unire le varie parti del puzzle e risalire alla trama. Lo capii a mie spese, quando iniziai a gironzolare senza meta per un edificio diroccato (come lo è l’80% del mondo di gioco), quando d’un tratto mi ritrovai di fronte ad un demone gigantesco. Lì per lì mi ritrovai contrariato dell’accaduto, il mostro mi uccise praticamente sfiorandomi.

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Terza lezione dei Souls: morire non è negativo come sembra. Scudi attivi o salute che si ricarica da sola, semi invincibilità, possibilità di mettere in pausa il gioco e cambiare equipaggiamento e armi in tutta comodità. Non c’è niente di tutto questo in Dark Souls. Si muore, ma si ritorna in vita nei pressi di un checkpoint nella mappa, a causa della non morte. Meccanica utile a capire dove si sbaglia e riprovare. In quel frangente non notai che non era la migliore idea attaccare un energumeno armato di martello ed alto quanto un palazzo, con un po’ più di sangue freddo si poteva infatti intravedere una piccola porta, che ci avrebbe tirato fuori dai guai, elemento che alla prima occhiata era passata inosservata. Ora, ho raccontato quelli che sono i primi dieci minuti di gioco, a grandi linee, per far capire che Dark Souls è un’opera che si discosta da qualsiasi altro videogame uscito in precedenza. I cliché del media non funzionano nelle terre di Lordran (dov’è ambientata l’opera), ci si ritrova in una costante lotta nel disabituarsi dalle convinzioni che una logica di mercato dove la pappa pronta la fa da padrone. Si è soli, sperduti. Proprio come ci si sentirebbe se ci si ritrovasse catapultati in posti che non si conoscono. All’epoca in cui lo giocai ricordo che non esistevano guide o aiuti, si era un po’ tutti sulla stessa barca, con la voglia di scoprire un mondo vasto e variegato, ma anche con il timore di qualcosa di oscuro e ostile pronto ad ucciderci o peggio. Scoprii dell’esistenza di stanze segrete totalmente a caso, colpendo per sbaglio un muro, questo scomparì magicamente, mostrando uno scrigno dietro di esso. Dark Souls insegna a chi vuole ascoltare.

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Impegno e soddisfazione

Un po’ per iniziale smarrimento verso meccaniche e modi di intendere il media persi nel tempo, un po’ per questioni di marketing alimentate dalla stessa From Software Dark Souls veniva visto come un gioco difficile, frustrante addirittura. Diciamo che se si cerca il gioco spensierato con cui passare quell’oretta in relax dopo una giornata di lavoro, è bene stare lontano dalla serie. Come ho detto però, l’opera cerca di istruire il giocatore, nonostante lo getti nella mischia fin da subito. Riuscendo a metabolizzare le varie lezioni che il gioco tenta di portare, ci si muove in scioltezza. Altrimenti si muore. E tanto. Non mi sento di definire “difficoltà” questo tipo di scelta, quanto piuttosto “impegno” da donare al viaggio che l’opera racconta. Perfino un corridoio vuoto diventa una sfida contro sé stessi. Perché se si muore per una freccia sparata improvvisamente da un buco in un muro non si tratta di difficoltà frustrante. Semplicemente, non si ha prestato abbastanza attenzione alla mattonella rialzata nel pavimento, che ha azionato la trappola. Frustrazione sì, ma giusta e solo contro sé stessi. La coerenza nel mondo di gioco parte da tanti microdettagli, fino a formare macroscenari ludici. Un’ennesima lezione che il gioco impartisce, sia al giocatore che a chi sviluppa videogiochi. Ogni texture, ogni modello, (quasi) ogni poligono si trovano al proprio posto per un motivo ben preciso, il tutto dettato dalla magistrale regia di Miyazaki.

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Altro elemento cardine di Dark Souls è il design, e in particolar modo il level design, fiore all’occhiello del titolo mai più raggiunto dai successori. La mappa di gioco s’interseca su sé stessa, ogni luogo che si può scorgere all’orizzonte è raggiungibile in maniera coerente da un punto di vista strutturale. Fin dall’inizio del gioco è possibile raggiungere quasi ogni posto della mappa, a patto di avere a che fare con creature spaventose di livello altissimo. Impegnativo sì, ma è possibile. La scelta, seppur scriteriata, di raggiungere scenari pensati per le battute finali del gioco è tutta in mano al giocatore. Considerato anche che magari, se si ha il coraggio di affrontare una catacomba piena di scheletri, si potrebbe trovare qualche oggetto, una scorciatoia che permette di raggiungere posti in modo più semplice e veloce o perfino un venditore nascosto in grado di forgiare armi ed equipaggiamenti migliori. Ennesima lezione del titolo: nello stesso modo in cui punisce gli sbadati, Dark Souls premia i più attenti e i più audaci.

L’importanza dell’essere videogiocatori

Se si tengono a mente tutte queste lezioni che il gioco ci porta a comprendere a caro prezzo sulla nostra pelle, ci si ritrova catapultati in un mondo fatato ma decadente, così lontano da tutto ciò di conosciuto nel mondo dei videogiochi che non può che fare breccia nel cuore. Ritrovarsi quasi per caso nel Giardino di Radiceoscura, o tra le fiamme e gli abomini di Lost Izalith è un’esperienza che ti colpisce, pad alla mano, come un treno in corsa. Così come trovarsi nel Firelink Shrine, vero e proprio hub di gioco, che funge da snodo per raggiungere le varie parti del mondo di gioco.

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Con la musica calma e malinconica, una tranquillità difficilmente ritrovabile negl’altri ambienti di gioco, abitato dai PNG che man mano incontreremo nelle nostre disavventure nella terra maledetta di Lordran. Si perché Dark Souls racconta soprattutto una storia, la storia di un regno ormai decaduto, un tempo abitato da entità potenti ma fallaci e superbe, ed ora da reietti, furfanti e cavalieri in cerca di riscatto. Tutte storie che s’intersecano alla nostra, raccontate da dialoghi scarni, descrizioni da leggere e dettagli da intuire da soli. Gli spiragli di luce in questa storia sono pochi, pochissimi e molti dipendono dalle nostre azioni. Così gli altrettanti luoghi più o meno segreti che possiamo visitare. Ed arriviamo con questo argomento proprio ad uno dei punti più emozionanti che abbia mai provato avendo a che fare con un media d’intrattenimento, che sia un libro, un film o qualsiasi altra cosa. La scoperta del Lago di Cenere. Veramente possibile solo nel media del videogioco, il senso di scoperta in tal caso per quanto mi riguarda fu qualcosa  che mi è difficile spiegare a parole. Chi conosce il gioco sa di cosa parlo, per chi non ne ha la più pallida idea, una breve spiegazione. Nell’universo di gioco i draghi sono estinti, uccisi dagli esseri che hanno costruito le città ormai in rovina che calchiamo per tutto il gioco. Ora, come ho detto precedentemente, esplorando la mappa di gioco è possibile trovare stanze segrete dietro muri che svaniscono nel nulla se colpiti con le nostre armi, stanze che nascondono forzieri o comunque oggetti secondari. In questo caso, dopo averne trovata una con un forziere dentro cercai di esplorare la piccola stanza nascosta, come facevo di solito. All’interno di questa stanza era possibile trovarne un’altra dietro un altro muro. E questa seconda stanza portava ad una vera e propria zona nuova di gioco, un groviglio di radici che portavano al sottosuolo, fino ad arrivare ad una strana spiaggia circondata da un mare infinito.

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Letteralmente una nuova zona di gioco, con mostri mai visti e la sorpresa più grande: un drago ancora in vita. Ricordo con precisione che il senso di smarrimento lasciò il posto ad una soddisfazione che faceva girare la testa. Un luogo segreto, così importante per la storia del gioco e allo stesso tempo così introvabile che si poteva benissimo finire più volte il gioco senza conoscerne l’esistenza. Un’evento che esiste solo in funzione del videogioco come media, in quanto impossibile da riprodurre in un libro o un’opera cinematografica. Questo è il vero catalizzatore che può spingere ad osservare i videogiochi oltre la semplice patina di “mezzo d’intrattenimento”, a carpirne la vera forza d’espressione. Così come un film di Lynch non potrà mai funzionare se venisse trascritto su carta stampata, così Dark Souls non potrebbe essere ciò che è se non possedesse la scelta, l’interattività e la reattività diretta che solo il videogioco è in grado di offrire.

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Un altro esperimento possibile solo tramite il videogame riguarda il comparto multiplayer. Il sistema d’invasione e/o di evocazione amplifica terribilmente la sensazione di spaesamento. Ricordo ad esempio con terrore la prima volta invasione che ricevetti, al Borgo dei non morti. Come è ben noto, tramite determinati oggetti è possibile invadere letteralmente la partita di un giocatore casuale per ucciderlo, come allo stesso tempo è possibile posizionare nella mappa dei sigilli che se toccati dagli altri giocatori consentirà loro di evocarci sempre nella loro partita, ma in questo caso per combattere insieme le mostruosità che il gioco ci propina. Il tutto avviene in modo casuale, non esiste matchmaking né alcun tipo di sistema per comunicare, se non con delle animazioni prestabilite o con messaggi simili a quelli di evocazione che è possibile lasciare in giro. Sono consapevole che molte persone odino questo sistema, e ammetto che sono d’accordo. In un gioco che lascia la libertà al giocatore sarebbe stato bello anche avere libertà nel decidere con chi giocare. Ma nonostante ciò, si tratta di un esperimento ben riuscito, ritrovarsi a festeggiare con un perfetto sconosciuto per aver sconfitto un boss, o di contro tenersi sulla difensiva nascondendosi in attesa dell’invasore nella nostra partita, signorilmente attenderlo con un inchino prima del duello, o invadere in gruppo (fino a tre persone) un’altra partita per attaccare selvaggiamente un povero giocatore ospitante, sono situazioni che meritano di essere provate almeno una volta da videogiocatori, proprio perché irreplicabili in qualsiasi altro modo. Siamo, per quanto mi riguarda di fronte ad uno dei massimi esponenti di ciò che dev’essere il videogioco, magari non in termini puramente tecnici, quanto piuttosto di sceneggiatura e cura nel dettaglio. Cosa che purtroppo Dark Souls II non ha potuto raggiungere, diventando quasi uno scimmiottamento delle meccaniche e dello storytelling del primo, a differenza del successore spirituale Bloodborne che, nonostante  non sia esente da difetti e da qualche buco un po’ troppo fumoso di trama, riesce a riportare lo stesso feeling elegante ma crudele del primo Dark Souls. Non ci resta allora che aspettare il terzo capitolo in uscita a breve (qui la nostra recensione) sperando di tornare a vivere quell’emozione nel riscoprire un modo di pensare (ma non programmare, purtroppo FromSoftware necessità urgentemente di tecnici di qualità a riguardo) il videogame, che può solo che fare scuola a buona parte del restante mercato, e perché no, stravolgerlo del tutto.

Gianluca Boi
Recensore seriale, blogger, giocatore di ruolo decennale, hardcore gamer, groupie di Alan Moore. Amante dei Souls, di Castlevania e di Banjo-Kazooie e fanboy di Jet Set Radio. Ha visto Matrix almeno 42 volte, segue il wrestling ed è fissato con lo studio della musica tutta, con una piccola predilezione per gli Ulver, i Fair To Midland e le OST. Nasconde purtroppo un terribile segreto: non sa proprio come leggere gli orologi con le lancette (non scherzo).