Non chiamatelo DLC

Che il mercato dei titoli tripla A stia cambiando non lo diciamo noi, ma i fatti. Il sistema di vendita digitale si è evoluto, la scontistica è all’ordine del giorno, ed i titoli stanno riassestando la loro filosofia per seguire un trend di produzione un po’ più massivo. Qui vi pregherei di fermarvi subito. Perché spesso, anzi quasi sempre, la produzione di uscite concatenate e relative un solo marchio può portare allo scontento. Del resto non è un caso se una saga come quella di Assassin’s Creed, dopo una lunga serie di uscite annuali, abbia dovuto darsi una regolata per prendere un sospiro di sollievo e rinquadrare il tiro. Quello che vi stiamo dicendo, tuttavia, non riguarda questo tipo di produzione, ma un lavoro più fine e ponderato che, di recente, ha conclamato il successo di una serie la quale, a ben vedere, non aveva bisogno di conferme: Uncharted. L’eredità Perduta, ovvero il recentissimo spin off con protagonista la conturbante Chloe, pure si è mosso in questa direzione, ovvero quella della creazione di titoli più piccoli e dunque economici sotto il profilo della vendita al pubblico, ma con alle spalle tutta la competenza, la bontà e, se vogliamo, “la pretesa” dei fratelli maggiori.

Una volta, su PC, titoli così li si chiamava “espansioni” e funzionavano ieri come oggi (non ultimo esempio la bellissima uscita di Xcom 2: War of the Chosen). Su console la questione è un attimo diversa e, a dirla tutta, quella delle espansioni/spin off, pur non essendo una novità, fa il giro e finisce per essere comunque un’innovazione. Non tanto nella sua essenza, ma nella sua filosofia di sviluppo e vendita, impattando in modo estremamente positivo tanto sul giocatore, quanto sul suo portafogli.
Perdonate la lunga premessa, ma adesso avete davvero tutti gli strumenti che vi occorrono per capire, da soli, il perché Dishonored: La Morte dell’Esterno sia un gioco che spacca.
Sviluppato come un capitolo principale, venduto come un DLC, concepito per sorprendere.

Il pugnale di Dunwall

Ambientato pochi mesi dopo gli eventi di Dishonored 2, La Morte dell’Esterno mette da parte Corvo e Emily per concentrarsi su di un altro amatissimo personaggio del suo universo narrativo: Billie Lurk, presenza a dir poco imprescindibile di gran parte degli eventi dei due episodi principali, DLC compresi. Addestrata in gioventù da Daud, il Pugnale di Dunwall artefice della morte della precedente imperatrice, Billie vive una vita tranquilla e in sordina sulla sua nave, la Dreadful Whale, ancorata ancora nei pressi di Karnaca. Dopo gli eventi del secondo capitolo la città ha ritrovato il suo status quo, sebbene viva ancora di tumulti e di molteplici racconti. Tormentata da un sogno ricorrente, Billie scoprirà che proprio a Karnaca si trova Daud, ormai avanti con gli anni e imprigionato, non si sa perché, da una locale setta di banditi, gli Orbi, che per motivi oscuri sembrerebbero affascinati dall’Oblio, tanto da venerare il suo più celebre abitatore: l’Esterno.

Liberato Daud proprio nella prima delle cinque missioni di gioco (atta, più che altro, a riprendere confidenza con i controlli), scopriremo che il nostro mentore è ormai prossimo ai suoi ultimi giorni di vita, e proprio in questi ha imposto a se stesso un’ultima folle missione: uccidere l’Esterno. Ritenuto il seme della discordia che ha fatto fiorire i mali del mondo, complice volontario di ogni declinazione del male umano, Daud crede che uccidere l’Esterno possa in qualche modo redimerne l’animo, cercando in questo pensiero il conforto che gli occorre prima di affrontare l’Oblio dove, alla morte, il suo spirito di perderà. Stanco nel corpo ma non nella mente, Daud, chiede a Billie di unire le forze per un’ultima volta, così da far fuori l’Esterno – a tutti gli effetti una divinità – per mezzo dello stesso pugnale rituale che, oltre 4.000 anni prima, lo ha generato e che parrebbe essere nascosto tra le mura di Karnaca.

La Morte dell’Esterno è un esperimento affascinante. Non fosse per la scrittura non sempre avvinghiante del plot, il lavoro di fino fatto da Arkane per la costruzione dell’universo narrativo riesce a imprimere sul giocatore un fascino quasi voyeuristico, ma questa non è una novità. La sorpresa è, casomai, quanto la rifinitura narrativa tipica della serie non sia stata affatto messa da parte per questo episodio, conferendo al DLC tutta la dignità e la profondità, ludica e narrativa, dei capitoli principali.
Cirya Alta, quartiere benestante di Karnaca in cui è ambientato il più del gioco, è un crogiolo di cambiamenti politici e sociali. Signorotti locali vivono il giogo della nuova elite aristocratica. La nuova banda di lestofanti si aggira per le strade estorcendo denaro ai deboli. L’abbazia dell’Uomo Comune analizza con meticolosa arroganza i resti del culto delle streghe che noi stessi (nel secondo capitolo) abbiamo contribuito a distruggere. Karnaca, insomma, vive; nel senso più puro del termine. L’avvicendamento politico e sociale che è sempre stato una costola della trama della serie è più forte che mai e fa rivivere al giocatore il lascito delle scelte che egli stesso, in altre vesti, ha compiuto nel capitolo precedente. Il tutto si traduce in un fascino quasi carnale verso tutto ciò che non è la trama liscia del gioco, ma tutti i suoi contorni, i suoi aspetti, le sue sfumature, che si annidano nei vicoli, tra cadaveri e documenti, nascosti in segreti impronunciabili in case vecchie, o sotto chiavi di casseforti sicure, pattugliate senza sosta nella mastodontica banca locale. Come per i capitoli precedenti, e prima ancora per i tre cortometraggi che fecero da preambolo al primo (I racconti di Dunwall), Arkane ha messo su una serie di legami narrativi che il giocatore potrà liberamente scoprire durante le sue missioni, tanto per appagare la propria curiosità verso il mondo di gioco, o semplicemente per trovare aspetti nascosti delle stesse missioni principali che, complice un level design da manuale, propongono una mezza infinità di soluzioni d’approccio, che quasi mai si attestano sul semplice dualismo stealth/carica a testa bassa.

Da questo punto di vista il level design è semplicemente eccelso, ed anzi pur non presentando situazioni (letteralmente) da capogiro come per la bellissima villa di Jindosh del secondo capitolo, riesce comunque a mettersi in forma, nella misura in cui permette al giocatore un numero maggiore di scelte per la risoluzione delle situazioni di gioco. Un esempio sono proprio le missioni principali, che oltre alle tipiche strade alternative per raggiungere il proprio obiettivo, offrono una serie di approcci di contorno cosicché, magari, sulla nostra strada si trovino meno guardie, si possano trovare più segreti, si possa guadagnare più denaro, o semplicemente si possa accedere al livello successivo da un punto più comodo, sovvertendo dunque il modo in cui la mappa andrà poi esplorata. Si tratta, ideologicamente, di trovate semplici ma i cui effetti sull’azione e sul gameplay sono tanto profondi da lasciare piacevolmente sorpresi oltre, ovviamente, a garantire all’intera esperienza una buona rigiocabilità. Appena 5 saranno le ore che il gioco potrebbe impegnarvi semmai decideste di tirare dritti, ma per ovviare a ciò il team ha sapientemente cambiato certe regole della progressione sicché divagare alla ricerca di segreti e denaro può diventare (e lo sarà) una parte importante della vostra nuova esperienza a Karnaca.

Vil denaro

La prima e fondamentale differenza è la progressione imposta per Billie, che al contrario di Corvo e Emily non potrà contare su un progressivo sistema di miglioramento delle proprie abilità. Le abilità di Billie non derivano dal marchio dell’Esterno, ma da una forma diversa di potere che le rende, di fatto, immutabili. Una volta ottenute le tre abilità all’inizio del gioco, queste non potranno essere migliorate spendendo punti o simili, ma andranno invece integrate per mezzo degli arcinoti amuleti d’osso, accessori equipaggiabili che vi doneranno molteplici abilità passive. Gli amuleti vanno reperiti o creati, e una volta equipaggiati ci permetteranno tanto di aumentare la nostra salute, quanto di conferire alle nostre abilità delle caratteristiche secondarie, talune più banali (come una carica di utilizzo in più ad esempio), altre più complesse e tutte da sperimentare. A costola degli amuleti d’osso, premessa una rosa interessante di gadget vari, molti dei quali già noti a chi ha bazzicato le strade di Karnaca, ci saranno poi gli acquisti presso i locali mercati neri, dove potremo integrare alcuni talenti fisici di Billie ed alcuni potenziamenti delle armi. Sparisce poi anche la pozione per il mana, che andrà adesso a ricaricarsi da solo dopo l’utilizzo, conferendo all’azione forse un profilo più semplice, ma comunque non meno ponderato che in passato anche grazie a ronde di guardie che, rispetto alle origini, tendono ad essere più massicce e sempre sul piede di guerra.

Ora, se vi sono chiare le modifiche rispetto alle origini, avrete anche capito che non c’è più una progressione del personaggio dettata dall’esperienza, ma da qualcosa di più materiale e “cinico”: il denaro. Dipendendo dal mercato nero e dagli amuleti, un aspetto importante del gioco sarà quello di reperire tanto denaro da spendere all’occorrenza. Il che, assieme al costante bisogno di recuperare nuovi frammenti d’osso, significa che l’esplorazione degli ambienti è certamente più doverosa che in passato. A supporto di ciò Arkane ha poi ben pensato di introdurre una graditissima novità, i Contratti, ovvero missioni secondarie, generalmente reperibili al mercato nero, con cui ottenere più denaro o specifici amuleti d’osso. I contratti sono numerosi, di norma almeno 4 per livello (e parliamo solo di quelli che il gioco vi offrirà spontaneamente) ed aggiungono talvolta delle sfide molto intriganti e impegnative, spesso ottime come antipasto per la missione principale, talvolta da intramezzare alla stessa, specie quando la loro posizione coincide con la meta e con i luoghi di gioco in cui ci verrà espressamente chiesto di andare per motivi di trama. Con queste “furbizie”, per altro mai azzoppanti per il gameplay, ed anzi pertinenti e ottimamente integrate, ecco che le 5 ore di base diverranno almeno 10, se non superiori per i puristi che, memori dell’eredità di Thief che il gioco notoriamente abbraccia, decideranno di optare per un approccio silenzioso e non letale rendendo La Morte dell’Esterno un titolo forse breve, ma intenso, piacevole e molto più vario di quanto ci si sarebbe potuto attendere da un titolo “budget”.

Se guardi l’Oblio…

Per ciò che concerne i poteri, Billie potrà contare, come detto, solo su tre di essi derivanti dall’Oblio, più una quarta abilità propria del personaggio, ossia quella di poter parlare con i ratti.

Per quanto stravagante, parlare con i ratti ci permetterà spesso di scoprire segreti o indizi sulle missioni e sebbene non si rivelino sempre utili, i topi di Karnaca possono dare ben più di una soddisfazione. Venendo però al fulcro dei poteri dell’Oblio, è piacevole notare come solo uno di essi sia effettivamente un emulo di quelli che sono stati i poteri di Corvo, ossia “Dislocazione”, versione alternativa di quella che fu la celebre “Traslazione”. La differenza è che anziché godere di un teletrasporto istantaneo verso un punto selezionato, la Dislocazione offre la possibilità di creare un punto di teletrasporto che, premesso sia presente nel campo visivo, permette poi di traslare con una seconda pressione del grilletto dedicato alle abilità. Il sistema è subdolo, perché sembrerebbe nulla più che una “rimeccanizzazione” dell’originale, quando in realtà consente molti nuovi trucchi di gameplay, complessi e funzionali, il cui più evidente e coatto è quello di teletrasportarsi “all’interno” di un essere vivente per farlo esplodere. Un esempio, ma credeteci ci sono molte possibilità che, semplicemente, non erano alla portata dell’abilità precedente e questo ovviamente è un bene.

A seguire troviamo “Somiglianza”, abilità con cui è possibile “prendere in prestito” il volto di un personaggio qualunque, a patto che questo sia vivo, e per una durata pari all’ammontare di mana disponibile. Naturalmente Somiglianza dà il meglio di sé durante le infiltrazioni, ma offre anche una serie di “bonus” che il gioco non specifica e che possono rivelarsi utili per risolvere qualche enigma (scoprite voi quale!). Infine “Preveggenza”, abilità con cui è possibile fermare il tempo per vagare liberamente per la mappa, sempre che non ci siano ostacoli. In questo status non si può interagire con personaggi o oggetti, non si possono attivare meccanismi o aprire porte, ma è possibile vedere, anche attraverso le pareti, la presenza di persone, macchine, oggetti, meccanismi e quant’altro e, all’occorrenza, marchiarne un numero definito che è ovviamente possibile aumentare per mezzo dei già citati amuleti d’osso. Il bello è che queste sole tre abilità riescono ad garantire un’ottima padronanza di ogni situazione complice, come detto, la qualità eccellente del level design, le cui soluzioni permettono al giocatore più e più stili, ed anche un certo adattamento in corso d’opera, qualora il vostro progetto di infiltrazione fallisca o, viceversa, dobbiate ripiegare sullo stealth a causa dell’ammontare esorbitante di forze nemiche. Il paradigma, così come lo è stato per i titoli precedenti, è quello di dare al giocatore un tavoliere nel quale la sperimentazione è sempre consigliabile ed in cui, allo stesso modo, è consigliabile ponderare l’azione basandosi sulla propria conoscenza del territorio e delle proprie abilità.

dishonored la morte dell'esterno recensione

Verdetto:

Dishonored: La Morte dell’Esterno non è un titolo rivoluzionario, e non aggiunge granché alle rodatissime meccaniche dei suoi predecessori, eppure è sviluppato con una perizia invidiabile, complice l’attenzione riservata da Arkane al suo universo di gioco, sempre più impreziosito da tutta una serie di situazioni di fondo che, come una tela, tengono insieme un universo narrativo ancora più ampio e articolato, le cui meccaniche sociali, politiche e culturali si ripercuotono sempre e comunque, in qualche modo, sul giocatore. Complici le piccole intuizioni e le nuove aggiunte, La Morte dell’Esterno è contemporaneamente un titolo che i fan non faticheranno a digerire, ma in egual misura un crogiolo di tante nuove possibilità, tale da avvinghiare, rapire, appagare in modo del tutto inatteso e sorprendente. Allo stesso modo è la dimostrazione di quanto l’universo di Dishonored sia ampio e sfaccettato, e di come sappia creare piccole storie funzionali e diegetiche, tutte al servizio non di un eroe come Corvo, ma dell’universo stesso, che ne esce così sempre più ricco e variegato, in evoluzione sotto lo sguardo costante del giocatore. In tal senso, l’unico neo o se, vogliamo, paradosso è dato proprio da quello stesso background narrativo, ormai così ampio e articolato da rendere questo titolo (a differenza ad esempio di Uncharted) stand alone più per motivi di vendita che per altro. Giocare completamente a digiuno degli eventi precedenti è possibile, ma forse semplicemente sciocco e sconsigliabile. In fondo la profondità dell’universo di Dishonored è da sempre un vanto di Arkane e, per quanto si sia cercato di dare un senso autonomo alla storia, la verità è che il viaggio di Billie è un altro tassello di un mosaico che senza i frammenti di contorno diventa quasi incomprensibile.