Disastro a Hollywood

C’è un film del 2008, per altro dimenticabile, diretto da Barry Levinson e con Robert De Niro protagonista, il cui titolo italiano è Disastro a Hollywood. La pellicola ci fa immergere un po’ in quel caotico mondo, vivendo le terribili giornate di un produttore. Esatto, un produttore come i tanti che ruotano attorno ad Hollywood, tipo Harvey Weinstein.
Il Ben di De Niro è totalmente distante per usi e costumi da H. Weinstein (mettiamo nuovamente l’H davanti sennò il fratellino si offende), così come è totalmente differente il disastro, eppure non c’è un’espressione migliore per definire ciò che sta accadendo ora nello Star System.
Quello che si sta abbattendo su Hollywood è un Cataclisma con la “C” maiuscola, che sta letteralmente facendo crollare il castello di carte della Los Angeles patinata. Quella davanti e quella dietro la macchina da presa.
Per estensione poi, la vicenda Weinstein ha innestato un meccanismo che si sta allargando a macchia, travolgendo ogni tipo di realtà legata al mondo del cinema (ma non solo, in realtà), con continue notizie e rumors su veri o presunti abusi anche fuori gli States, arrivando in Europa e persino nel Belpaese. Chi se lo sarebbe mai aspettato, eh?!

Quello che preoccupa gli addetti ai lavori, ma anche tutti gli altri, è il fatto che la questione stia assumendo delle dimensioni spropositate che sembrano non avere confini. Il mondo di Hollywood ormai ha persino smesso di racimolare i pezzi, e resta ad osservare la costruzione crollare davanti a sé, favorendola persino con un terremoto di ipocrisia del più alto livello di scala Richter.

Chiarisco subito una cosa, onde evitare di espormi alla minima critica di chi potrebbe altrimenti travisare l’editoriale a livello contenutistico: quello che è accaduto, gli abusi perpetrati da uomini di “potere” è quanto di più deprecabile possa esistere e non merita giustificazione. Chi si approfitta di persone più deboli per via della propria posizione di vantaggio, sia essa fisica, gerarchica o di qualsiasi altra natura rappresenta il simbolo della vigliaccheria e fa emergere tutto il mio disgusto.
Ciò detto, un disgusto differente ma altrettanto deciso lo provo verso chi utilizza questa spirale di caos e polemica in un modo altrettanto meschino, con un finto buonismo che malcela un trionfo di ipocrisia che si spinge talmente in avanti da arrivare a distruggere persino ciò che di bello il mondo di Hollywood ha realizzato.
Davvero volete farci credere che fino a ieri non sapevate nulla di tutto ciò?
Veramente dobbiamo credere che Ridley Scott, la produzione, Sony, Lucky Red e compagnia cantante non sapessero nulla delle “abitudini” di Kevin Spacey fuori dal set? O peggio ancora -viste le ultime accuse – che fossero all’oscuro di tutto anche nella produzione di House of Cards? Dobbiamo far finta non aver ascoltato le parole di buona parte di quelli che circondavano Weinstein, e fingere che nessuno sapesse nulla della sua indole e dei suoi particolari modi di fare?

Quel delizioso mondo artefatto si mette nuovamente la maschera, come fa da sempre, come fece – ad esempio – negli anni ’50, quando nel rispetto delle regole e dell’etica del tempo si camuffava l’omosessualità di molti artisti, imponendogli matrimoni fasulli, regalandogli copertine in cui li si rendeva perfette icone dell’amore “tradizionale”. Quello che accadeva, nella maniera più vera ed assoluta, è apparso invece dinanzi agli occhi di chi li aveva chiusi con un menzognero bigottismo, grazie al libro di Scott Bowers e poi al documentario sulla sua vita, Scotty and the secret story of Hollywood, in cui il celebre gigolò mette nero su bianco tutti i fatti e le vicende che hanno coinvolto sentimentalmente le più grandi icone della settima arte, da Katharine Hepburn a Cary Grant, da Spencer Tracy a Lara Turner e molti altri ancora, per non dire quasi tutti.
Cosa c’è di male? Beh, nulla, se non il becero ed ipocrita comportamento di un’industria che continua a voler agire in un modo conservatore e, nella sua ottica, tradizionalista ed impeccabile, semplicemente mettendo un velo davanti a tutte quelle che considera magagne. E lo fa ancora una volta, come se tutto questo, Scott Bowers e i suoi numerosi colleghi, o ancora la vicenda Weinstein, fossero l’ennesima spinta inaspettata che li fa cadere dalle nuvole.

In questo periodo si è molto dibattuto nei vari talk show di tutto il mondo circa la definizione e i confini del termine abuso. Di certo è alquanto complicato stabilirli. Restando all’Italia, citiamo Vittorio Sgarbi – ad esempio – che ha in qualche modo accusato Asia Argento di avere tirato fuori la dignità a scoppio ritardato, dopo circa 20 anni, e che non si tratta di un abuso quando da alcune attenzioni si ottengono vantaggi. Le affermazioni di Sgarbi non rappresentano una vera e propria mosca bianca, ma direi grigia, visto che la maggior parte degli addetti ai lavori si è schierata al fianco di Asia Argento e di chi ha vissuto vicende simili alla sua. Ora il punto non è tanto schierarsi o meno al fianco di una o dell’altra sponda, ma il perché lo si faccia. Ci si schiera per convinzione o per innaffiare quella già citata ed insolente ipocrisia? Dove erano tutti coloro che adesso sono in prima linea brandendo i vessilli del femminismo? E perché questa spirale d’odio non coinvolge quelli che hanno palesemente coperto le azioni di Weinstein e di tutti gli altri, dichiarando solo ora che sapevano delle loro malefatte?

Il perché è presto detto. Perché se possiamo, volendo, trovare obiezioni al discorso di Sgarbi o di chi ha posto domande simili, questo non accade per tutti gli altri omertosi. Dietro a Weinstein, ai suoi festini, ai suoi viaggi pagati e a tutto quel mondo splendente vi è una schiera di persone che ha trovato posto a sedere sulle comode poltrone di Hollywood, mettendo le radici e di conseguenza i paraocchi per assecondare i propri interessi. I più grandi falsi della storia solo loro.
Mi vengono i brividi solo a pensare ai discorsi ipocriti e disgustosi che emergeranno quest’anno alla tradizionale cerimonia degli Oscar, dove assisteremo senza dubbio alla parata della finzione, con in prima linea – come al solito – quelli che fino a ieri nella migliore delle ipotesi si giravano dall’altra parte.

È quello che purtroppo accade spesso in queste situazioni: chi prima era il fautore dell’omertà ora addita il singolo individuo che con i suoi atteggiamenti, volente o nolente, fino a ieri copriva e che adesso è diventato il nemico pubblico numero 1.
Lo si fa perché ci si deve pulire la faccia, troppo tempo nascosta dietro la maschera, prima di poter tornare ad indossarla di nuovo.

Ora si indica il bruto, l’orco, senza il quale siamo tutti al sicuro e possiamo dormire sogni tranquilli.
Abbiamo assistito a veri e proprio show che hanno messo alla berlina Weinstein e i suoi figliocci, e abbiamo letto titoli per le riviste di settore che ci hanno fatto venire i brividi, come “Game Over” apparso sul settimanale Variety, che rappresenta perfettamente il meccanismo sopra enunciato, del voler cercare di spazzar via il prima possibile il polverone, facendoci credere che il colpevole è stato smascherato e ora possiamo tornare alla vita di sempre.

Ma la vicenda forse più indecorosa è quella che si sta scatendo attorno all’attore Kevin Spacey.
Partendo dall’assunto che una cosa sono le molestie di Weinstein, altro è il comportamento pur orribile di Spacey (che resta comunque altamente deprecabile e da voltastomaco, ma non sotto forma di ricatto, da quel che sembra), distruggere la carriera di un’artista è qualcosa di altrettanto inqualificabile.
Quello che fino a ieri appariva come un’icona del mondo del cinema, l’incredibile Kayser Soze de I soliti sospetti, l’eccezionale Frank Underwood di House of Cards, nonché un doppio Premio Oscar oggi rappresenta il nulla. Cancellato. Finito.
Fatto fuori da tutti, anche da Sony che ha obbligato Ridley Scott a rigirare da capo le riprese del film Tutto il denaro del mondo, in cui Spacey aveva l’importante ruolo di J. Paul Getty Jr. , ora affidato a Cristopher Plummer, cercando di salvare una barca che è presumibilmente già affondata.

Nessuno lo vuole più tra i piedi, al pari di un reietto.
Questo è il simbolo della nostra società, quello che le masse fanno da sempre. Si avventano contro il primo colpevole che hanno davanti, al mostro, a colui che indubbiamente resta una persona verso la quale viene naturale provare repulsione ma non per questo è altrettanto lecito godere nell’assistere alla sua caduta e alla sua distruzione. Gioire della disfatta altrui è quanto di più brutto si possa fare, e del resto siamo abituati da secoli a tutto ciò. Siamo abituati ad applaudire al boia mascherato che taglia la testa al condannato, ed esultare per la sua morte.

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Ma a parte tutto, quello che veramente fatico a comprendere è: quale connessione c’è tra la censura dell’arte e la vita privata dell’artista? Perché mai l’una dovrebbe contagiare l’altra? Se così fosse avremmo dovuto cancellare dal mondo una quantità infinita di opere, di ogni tipo, dei più grandi artisti. Eppure così non è stato, perché le due cose viaggiano su binari totalmente differenti, allo stesso modo in cui un detenuto che sconta la sua pena può essere autore della più grande creazione artistica del mondo. Avete apprezzato Cesare deve morire dei fratelli Taviani, giusto? O dovremmo cancellare anche quello e far sparire le pellicole perché chissà di quali reati si sono macchiati i detenuti che hanno preso parte al film?
Oppure potremmo più semplicemente parlare di Roman Polanski, condannato per aver avuto un rapporto con una minorenne. Si possono e si devono fare tutti i commenti negativi possibili sulla sua persona, ognuno – nel rispetto della legge – può dire la sua in merito al comportamento dell’uomo, ma non per questo gli è stata negata la possibilità di realizzare film. Per fortuna, aggiungo io, perché altrimenti non avremmo potuto vedere nel 2011 quella piccola perla della cinematografia quale è Carnage.

E invece adesso no. Chi ha sbagliato moralmente, deve pagare anche dal punto di vista professionale. Gli si deve distruggere la carriera, deve finire nel dimenticatoio per sempre. Perché è così che deve andare, perché il mostro deve essere fatto a pezzi da un mostro più grande ed affamato, che ha bisogno di mangiare di continuo per non arrestare il progredire della razza umana; e quel mostro si chiama Ipocrisia.

Tiziano Costantini
Nato e cresciuto a Roma, sono il Vice Direttore di Stay Nerd, di cui faccio parte quasi dalla sua fondazione. Sono giornalista pubblicista dal 2009 e mi sono laureato in Lettere moderne nel 2011, resistendo alla tentazione di fare come Brad Pitt e abbandonare tutto a pochi esami dalla fine, per andare a fare l'uomo-sandwich a Los Angeles. È anche il motivo per cui non ho avuto la sua stessa carriera. Ho iniziato a fare della passione per la scrittura una professione già dai tempi dell'Università, passando da riviste online, a lavorare per redazioni ministeriali, fino a qui: Stay Nerd. Da poco tempo mi occupo anche della comunicazione di un Dipartimento ASL. Oltre al cinema e a Scarlett Johansson, amo il calcio, l'Inghilterra, la musica britpop, Christopher Nolan, la malinconia dei film coreani (ma pure la malinconia e basta), i Castelli Romani, Francesco Totti, la pizza e soprattutto la carbonara. I miei film preferiti sono: C'era una volta in America, La dolce vita, Inception, Dunkirk, The Prestige, Time di Kim Ki-Duk, Fight Club, Papillon (quello vero), Arancia Meccanica, Coffee and cigarettes, e adesso smetto sennò non mi fermo più. Nel tempo libero sono il sosia ufficiale di Ryan Gosling, grazie ad una somiglianza che continuano inspiegabilmente a vedere tutti tranne mia madre e le mie ex ragazze. Per fortuna mia moglie sì, ma credo soltanto perché voglia assecondare la mia pazzia.