I was not caught, though many tried. I live among you, well-disguised.

Descrivere a parole True Detective, e quello che esso ha significato per chi lo ha visto (e magari se lo è goduto tutto d’un fiato) è complesso e, una volta tanto, non è una frase fatta da ficcare all’inizio di un pezzo perché non si sa bene che cazzo scrivere. La serie di Pizzolatto, con la sua coralità, la sua regia, la sua fotografia ed il suo metalinguaggio, fatto di filosofia e riferimenti tutt’altro che pacchiani alla letteratura, ha costruito un qualcosa che può essere ammirato, compreso e digerito solo per mezzo della fruizione diretta. Per le stesse eccezionali doti ci è stato chiaro sin da subito che replicarne l’alchimia, anche giocando in casa, sarebbe stato impossibile. E infatti guardando la prima puntata di True Detective 2 è evidente sin da subito che qualcosa che si era percepito, apprezzato e assimilato è qui assente. Intendiamoci, non per effettive mancanze della produzione ma proprio perché questa è, pur essendo True Detective, altra roba.

Qualcuno dirà che forse era meglio chiuderla con la prima stagione e lasciare il serial consacrato, seppur nella sua brevità, negli annali della televisione, ma non saremmo d’accordo e vale la pena chiarirvelo andando per ordine. Abbandonato l’esoterismo dei bayu della Louisiana, True Detective 2 si sposta nell’assolata California in cui, come vene di cemento, si intrecciano le highway americane. Eppure non si è mai in dubbio sul fatto che questo sia lo stesso universo di Martin e Rust, non solo per un certo gusto nella colorazione e nella composizione delle scene, ma anche per lo stesso carattere con cui la narrazione affronta determinate tematiche, una su tutte, “l’umanità” nelle sue forme più terrene e disinibite, spesso impunemente crudeli.

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A ben vedere questa nuova stagione di True Detective si indebita da subito con la prima, cercando di richiamarne alcune inquadrature e meccaniche narrative salvo poi sovvertire le sue stesse regole e costruendo un qualcosa di inedito (per il serial s’intende) e che forse mal si sposa con l’idea che il pubblico ha della serie, non per oggettivi demeriti (anche se qualcosa che non funziona c’è), ma piuttosto per il quasi obbligatorio paragone con la stagione 1 a cui, come detto, non vale tuttavia la pena raffrontarsi. Su tutto non abbiano più due protagonisti, ma ben quattro: il detective dell’immaginaria città di Vinci, Ray Velcoro, interpretato da un Colin Farrell in grandissimo spolvero. Frank Semyon (Vince Vaughn), un malavitoso ormai parte integrante del sistema politico locale. Antigone Bezzerrides, poliziotta tutta d’un pezzo alle calcagna della sua “stravagante” sorella Athena (e permetteteci una parentesi: chiamare una poliziotta “Antigone Bezzerides” è qualcosa di dannatamente stiloso… e se non capite il perché googolate) e infine l’agente della stradale Paul Woodrough (Taylor Kitsch), ex soldato con evidenti problemi relativi al suo passato bellico e invischiato in un’inchiesta disciplinare. Il leitmotiv dell’episodio, che è poi il fulcro dell’incontro del cast, è la misteriosa scomparsa di un certo Benjamin Caspere, un personaggio che per qualche motivo tutti stanno cercando, compreso Semyon, con cui Caspere sta lavorando per la costruzione di una rete ferroviaria miliardaria.

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La narrazione, spesso lenta, ma quasi mai tediosa (come da tradizione per questa serie) prosegue liscia per la sua ora di show, facendo da primo collante per le varie motivazioni che, come cicatrici, si nascondono sotto l’apparenza dei personaggi per metterne, prima o poi a nudo, i segreti più torbidi. Quest’ambizione, già evidente per alcuni (come Woodrough) è un po’ il marchio di True Detective 2 anche se ammettiamo che lo scontro di idee dei protagonisti originali qui un po’ manca e, per ora, ogni intrigo è lasciato ai singoli che non possono avere a che fare che con sé stessi, evidenziando così meriti e demeriti di un cast spesso disomogeneo e zoppicante.
In questo primo episodio il primo vero protagonista è stato forse il Ray Velcoro di Farrell, a cui si è scelto di dedicare un po’ di spazio in più, ma per il resto l’intreccio è decisamente equilibrato nel dare spazio a tutti, cominciando pian piano a martellare lo spettatore con cambi di prospettiva sempre più rapidi, fino a raggiungere il climax finale in cui praticamente tutti i personaggi si incontrano. Registicamente parlando, sono moltissimi i riferimenti che Lin adopera come memento della prima stagione, ma si tratta fondamentalmente di esercizi di stile, riusciti ma non essenziali. Quel che più intriga di True Detective 2 è quella caratterizzazione dei personaggi che li porta a non configurarsi, agli occhi dello spettatore, in modo nitido. Nel mondo di True Detective i confini sono labili e, fondamentalmente anche senza un sottesto dichiaratamente esoterico, il mondo non è come sembra. Con questa seconda stagione la tematica del serial è sempre più chiara: è il male, qui in matrice diversa ma comunque terribile, che tiene le redini del mondo. Il male, nelle sue forme fisiche, sentimentali e più conturbantemente carnali è il tema del serial ed è ora palese più che mai.

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Ma ci sono problemi in questa seconda stagione che, come detto, anche dimenticando le performance di Harrelson e McConaughey, sono e restano evidenti. Il dislivello nelle performance del cast è a volte disarmante. Il primo e fondamentale problema è forse Vince Vaughn i cui evidenti sforzi recitativi non riescono comunque a creare un qualcosa di degno o memorabile. Vero è che è ancora presto per esprimere un giudizio ma queste dinamiche, unite al secondo problema, ossia certe scelte del copione, evidenziano ancora di più la distanza tra la prima e la seconda stagione. Alcune battute sono palesemente fuori luogo e cercano, seppur con tematiche diverse, di fare il verso a quella che era la profondità del personaggio di Rust, laddove non si parla necessariamente di una profondità intellettuale, ma di quella volontà di dare al personaggio una qualche forma, annessa ad una “filosofia” che inquadri e che attizzi lo spettatore.

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Certe scelte, soprattutto nel personaggio di Vaughn, sono ridicole e mal si sposano con un carisma che non è proprio né dell’attore, né del personaggio, ancora troppo “anonimo” per potersene uscire con delle frasi da finto bad ass. Al di là di Farrell, quanto mai calato nella sua parte di sbirro corrotto tutto d’un pezzo, a fare la parte del leone è, in modo inatteso, il cast femminile, composto da Rachel McAdams e da Kelly Reilly (Jordan, la moglie di Frank). Due donne decisamente cazzute, una per un motivo, una per un altro, che riescono a tenere bene la scena ed a calarsi in modo credibile e dignitoso nella parte.
In sintesi il debutto, e l’annesso mistero sulla morte di Caspere, novella Laura Palmer in occhiali da sole, ci sono sembrati abbastanza lodevoli, seppur non privi di magagne. La visione di questa Season premiere ci ha inoltre convinti sempre di più della necessità, quanto meno doverosa, di fruire di questa seconda stagione completamente dimentichi del lavoro fatto con il lancio del serial. Vedremo se magari con il tempo questo parere si andrà modificando (come no), ma quel che conta adesso è godere di True Detective 2 senza alcun confronto e senza alcun paragone con il precedente cast. Solo così si può godere appieno di quello che è un serial che, seppur con le sue pecche, è comunque almeno una mezza spanna sopra il resto della marmaglia televisiva. Per il resto incrociamo le dita…

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Cosa ci è piaciuto?

Lo stile affascinante tipico di True Detective è rimasto immutato nonostante il pesante cambio di location (e in parte anche di tematiche). La crepuscolare Vinci, e la California intera, trapassata da vene di cemento, sono una location dignitosa che lascia bene il posto alla cupa e torbida Louisiana della prima stagione.

 Cosa non ci è piaciuto?

Il cast è variegato, ma non sempre efficiente. Vince Vaughn in particolare ci è sembrato davvero inadatto al ruolo assegnatogli, e certe incertezze nella scrittura del copione (incredibilmente, poi, quasi tutte proprio nelle parti di Vaughn), non fanno che accentuare il disagio.

Lo continueremo a vedere?

Decisamente Sì! Vero è che si ha quasi l’impressione che questo non sia True Detective, ma ci sono comunque delle basi affinché questa seconda stagione si consolidi in qualcosa di appagante e piacevole. Manca un po’ quell’esperienza narrativa e visiva vagamente “a la Se7en” che tanto ci era piaciuta della prima stagione, e manca tutta quella stravagante ma intrigante filosofia “a la Rust”, ma per ora, con un solo episodio alle spalle, possiamo prenderci il lusso della fiducia.