Prima della “Women’s Revolution”.

Unire a uno degli ambienti più sessisti del mondo, quello del professional wrestling, una storia di rivalsa femminile: contro la società, contro la famiglia, contro le circostanze avverse. Contraddizione forte, che va a braccetto con quello che è Glow, sceneggiato Netflix creato da Liz Flahive e Carly Mensch.

Il sessismo nel wrestling è cosa nota. E non si parla solo di quello “on screen”, ma anche di quanto alcune lottatrici siano state costrette a sopportare, nel corso dei loro anni di carriera, per riuscire a emergere in un ambiente dominato dagli uomini. E qui gli aneddoti negativi si sprecano: da ragazze messe fuori dagli schermi televisivi a scapito del talento in quanto considerate poco attraenti, fino a lottatrici costrette a “pagare” per potersi allenare ed entrare nel settore.

Oggi nel wrestling va di moda un concetto: quello di “women’s revolution”. Per i neofiti e i non appassionati di questo sport spettacolo, si tratta di un cambiamento, almeno a parole, dell’atteggiamento nei confronti delle lottatrici nell’ambiente. La WWE, principale major americana, dopo vent’anni di storyline rappresentate da modelle prestate al wrestling, ha scelto di concedere il proprio ring a lottatrici formate per essere tali, accantonando anche il termine sessista “Divas” con cui venivano definite fino a pochi anni fa. Un tentativo, ancora lungi dall’essere riuscito, di terminare un lunghissimo periodo di discriminazioni di genere.

Dobbiamo considerare che già negli anni ‘80, nel bel mezzo di quella che agli appassionati è nota come “Era gimmick”, c’era stato un primo tentativo di porre le donne al centro del prodotto. Di dimostrare che possono regalare al pubblico uno spettacolo degno di nota. All’epoca la sola idea che una donna potesse lottare in TV, al pari di Hulk Hogan e Iron Sheik, sembrava folle.

Ed è di questo che Glow narra, dell’abbattimento di questa barriera. Ci viene mostrata, in maniera abbastanza libera, di uno dei primi tentativi americani di proporre una federazione completamente femminile. La G.L.O.W. (Gorgeus Ladies Of Wrestling) fu una promotion di wrestling che, tra alti e bassi, rimase in corsa dal 1986 fino a inizio anni ’90 (con un revival nel 2001). Il taglio, rispetto ad altri prodotti di settore, era “più televisivo”, con gli episodi prodotti in serie, e tra le sue fila sono state lanciate alcune lottatrici che hanno poi avuto un certo impatto sul panorama del wrestling americano (tra tutte ricordiamo Lisa Moretti, in arte Ivory, la quale diverrà anche campionessa WWE).

Per cercare di capire come fosse visto il wrestling femminile negli anni ‘80, basta prendere le parole di uno dei personaggi di Glow: “Le donne che combattono sono come i nani: una parodia”. Citazione non testuale, ma che fa ben capire cosa volesse dire affrontare quell’industria proponendo un prodotto del genere (anzi, di genere) in quel periodo. Un balzo della fede.

Botte agli stereotipi.

Siamo nel 1985 e Ruth (Alison Brie), una giovane attrice di Los Angeles, cerca di emergere nel mondo dello spettacolo e coltivare la passione per la recitazione, nonostante sia costantemente in bolletta e alla ricerca di un ruolo che le permetta di sbarcare il lunario. Ma, soprattutto, di un ruolo che non sia quello di una semplice segretaria.

Dopo l’ennesima audizione andata male, Ruth viene a conoscenza di un casting per donne “non convenzionali”. A dirigere il tutto è Sam Sylvia (Marc Maron) regista di B-Movie che, foraggiato dal denaro di Sebastian “Bash” Howard, cercherà di mettere su una compagnia di wrestling femminile, trasformando delle semplici attrici in lottatrici. Impresa non da poco, considerato che dopo pochi giorni Sam deciderà di licenziare il lottatore scelto come consulente e di fare di testa sua. Nel frattempo, Ruth è ai ferri corti con l’amica di sempre Debbie (Betty Glipin), anche lei attrice, per essere andata a letto col marito. Stranamente è proprio la rissa che scatterà tra le due sul ring a ispirare Sam, che inizierà a farsi coinvolgere da questo progetto, a prima vista decisamente scalcinato.

Per essere uno show che parla soprattutto di wrestling, la cosa sorprendente è che il lottato passa assolutamente in secondo piano rispetto alle storie personali delle protagoniste. Raccontare la nascita della G.L.O.W. è così un valido pretesto per rispolverare l’ambiente degli anni ’ 80, quando Ronnie Reagan era al potere, il nemico erano sovietici e, nonostante gli sforzi di Jane Fonda, quando il femminismo affrontava ancora una lotta per emergere come scelta di vita. Scegliere di praticare wrestling e cercare di farne un motivo di rivalsa, quando l’attività è vista ed è tuttora considerata qualcosa di stupido, sembra impossibile.

Liberarsi da uno stereotipo partecipando a qualcosa che è la fiera degli stereotipi per antonomasia? Assurdo, ma con Glow si può.

La serie, dopo i primi episodi che ruotano attorno alla figura di Ruth, inizia poco alla volta ad allargare il campo, diventando sempre più un progetto corale. Alla sua storia e a quella di Debbie, convinta di malavoglia a far parte del “roster” di Glow, si uniscono così quelle di Britney, figlia d’arte proveniente da una famiglia di grandissimi wrestler, che vorrebbe dedicarsi a questo sport con passione ma che non può per la disapprovazione del padre; Cherry, attrice di film blaxploitation e un tempo amante del regista, e ora alla ricerca di nuovi ruoli; la donna lupo Sheila. Alle ragazze si aggiunge poi il regista Sam, alcolizzato, drogato e disilluso, convinto a partecipare a questo progetto in attesa di potersi dedicare a quel film che ha in mente da tutta la vita.

Insomma, ognuna delle donne che prendono parte agli allenamenti per diventare stelle di Glow ha il suo motivo per salire sul ring. C’è chi vuole sentirsi libera, chi cerca di rilanciarsi, chi vuole solo pagare le bollette. O chi lo fa per “sentirsi padrona di sé stessa” non come qualcosa a disposizione di figli e marito.

La cosa sorprendente in Glow è la capacità di riuscire a unire temi importanti, spesso trattati in maniera cruda e brutale, un sottile sarcasmo e una buona dose di humor nero, senza mai diventare una parodia. Il rischio di cadere nel grottesco, quando c’è di mezzo il wrestling, è un attimo (hello, Vince!).

I personaggi rappresentati dalle donne del roster sono squisitamente “campy”, esagerati al punto da sembrare stupidi, ma sono quasi un modo di esorcizzare gli stereotipi con cui loro stesse vengono rappresentate. Sentirsi liberi portando sullo schermo il personaggio della “mamma americana alla torta di mele”, oppure lo spettro reaganiano della donna che si fa mantenere dallo stato sociale, o ancora esorcizzare il demone della Guerra Fredda con una esagerata parodia della donna sovietica è un’impresa non da poco, in cui Glow riesce. Spesso con un bel dito stampato in faccia al politically correct, cercando volutamente la provocazione nel rappresentare una scena, senza avere riguardo per argomenti scottanti come l’aborto, l’adulterio e la discriminazione, razziale e sessuale.

Glow si mantiene sempre anticonvenzionale e fuori dagli schemi. Alla locandina e alla sigla colorata si contrappone una fotografia molto più fredda, con colori spenti e poco vivaci che fanno da sfondo a un ambiente grigio, quotidiano. Il tutto senza rinunciare a ricostruire gli anni ‘80: c’è l’aerobica, ci sono i robot, ci sono persino gli scaldamuscoli e Reagan. E, sì, ci sono anche le musiche e i film.

Glow n’ Wrestling.

Arrivati a questo punto non abbiamo ancora parlato di come sia stato affrontato il grande convitato di pietra dello show, il pro-wrestling.

La cosa che i fan di questo sport-entertaiment apprezzeranno è la ricostruzione di tutto quello che c’è dietro a questo tipo di attività. Botte? Sicuro. Ma, soprattutto, una narrazione. E costruzione, sacrifici e fatica.

Uno dei filoni che si aprono in Glow è la lotta e la mediazione che corre tra Bash, il produttore appassionato da sempre di questa disciplina, e Sam, un neofita per il campo, che vorrebbe portare all’interno dello spettacolo la sua visione del cinema e del mondo.

Sono gli anni della “Rock n’ Wrestling”, quando la WWF di Vince McMahon sta sbaragliando la concorrenza, la storica Jim Crockette Promotion viene ceduta a Ted Turner che ne farà la rivale WCW, e Hulk Hogan e Ric Flair sono il simbolo del wrestling nord Americano. Sono quindi anni di grandissima trasformazione, in cui il wrestling smette di essere uno sport e diventa sempre più spettacolo, con luci, musiche e fuochi d’artificio, una divisione sempre più netta tra buoni e cattivi e personaggi stereotipati e coloratissimi.

Anni, quelli del “dì le tue preghiere e prendi le vitamine”, che Glow riesce a rievocare benissimo, non per la scelta di mostrare Hulk Hogan di sfuggita in un televisore, ma per la capacità di mostrare il lato nascosto di una disciplina che si stava facendo un nome in quel periodo. Basta pochissimo: una scena in un palazzetto, il racconto di un match imbastito alla meno peggio, il ring nel cortile di casa di una famiglia che porta avanti una tradizione.

Assistiamo così allo scontro intellettuale tra Bash, il quale vorrebbe per Glow quello che Vinnie Mac ha realizzato per Superstars of Wrestling, e Sam, il quale vorrebbe soprattutto raccontare una storia, elaborando e curando una trama che potrebbe essere fin troppo complessa per lo spettatore medio. L’unione delle loro idee porterà alla nascita di una serie di personaggi che si riveleranno, al contempo, stereotipo e satira della realtà contemporanea.

I fan di wrestling riusciranno a godersi uno spettacolo in cui vengono svelati molti retroscena della disciplina, l’allenamento, la scelta dei vincitori, la costruzione dei match e delle storie. E, dopotutto, è anche un buon momento per vedere una carrellata di lottatori e riconoscere qualche volto noto (tra tutti l’ex campione ECW e ora campione di Lucha Underground Johnny Mundo, la leggenda di questo sport Christopher Daniels, Joey Ryan e molti altri ex WWE).

E, paradossalmente, una serie che usa il wrestling solo come pretesto per un argomento più nobile, finisce per diventare un perfetto manifesto di questo sport, diventando quasi un modo per sdoganare questa attività per quello che è: stupida? No. Esagerata.

Verdetto

Glow colpisce, sotto tanti punti di vista. Ci troviamo di fronte a una serie divertente, appassionante e che porta lo spettatore a guardarla con estrema attenzione. Al suo interno si trattano temi di spessore, senza mai cadere nel banale e nella parodia, cosa non da poco considerato che, alla fine, a fare da sfondo all’intera vicenda è la disciplina parodistica per eccellenza, il wrestling. Per quanto usato solo come pretesto per parlare di femminismo e rivalsa sociale e personale, lo sport entertaiment viene trattato con giustizia e rispetto, ricostruendo adeguatamente il suo background e la sua particolarità. Il tutto con una buona dose di anni ottanta, capaci di suscitare il temutissimo effetto nostalgia in tutti i ragazzi cresciuti guardando “Ritorno al Futuro”.

Federico Galdi
Genovese, classe 1988. Laureato in Scienze Storiche, Archivistiche e Librarie, Federico dedica la maggior parte del suo tempo a leggere cose che vanno dal fantastico estremo all'intellettuale frustrato. Autore di quattro romanzi scritti mentre cercava di diventare docente di storia, al momento è il primo nella lista di quelli da mettere al muro quando arriverà la rivoluzione letteraria e il fantasy verrà (giustamente) bandito.