“Ca’n se viv’… ca’ se muor’ebbasta”

In principio fu Gomorra, di Roberto Saviano. Bestseller da 2 milioni di copie in terra italica e da 10 complessive nel resto del mondo, capace di suscitare un grande dibattito internazionale e di scalare le classifiche in paesi come Germania, Spagna, Svezia e Francia. Forse l’ultimo grande successo dell’editoria italiana, che dal 2006 in poi avrebbe affrontato l’ecatombe della crisi economica e dell’imbarbarimento dei lettori.
Poi ci fu il film, ispirato all’inchiesta cartacea e diretto da Matteo Garrone, anche quello divenuto un cult capace di coniugare un ottimo risultato al botteghino e il plauso della critica, con diversi riconoscimenti conquistati in Italia e all’estero, tra cui il prestigiosissimo Gran Premio della Giuria al festival di Cannes. È cominciato tutto da lì, da quel fenomeno che ha dato vita a casi giudiziari, discussioni, controversie, minacce, attacchi e che ha creato, di fatto, un impero culturale capace negli anni di imporsi come modello di riferimento nel nostro paese.

Gomorra rappresenta una maniera moderna di raccontare storie, basandosi su un universo narrativo denso e coeso che, per ampiezza e medium, non ha eguali in Italia e che comprende romanzi, racconti, in futuro un graphic novel (edito da Bao Publishing) e, da qualche anno a questa parte, una serie TV. Un adattamento televisivo che dal 2014 ha fatto incetta di record e riconoscimenti vari, in grado di attirare, esattamente come il saggio da cui è nato, l’apprezzamento del Belpaese e del mondo.
Gomorra – La serie, realizzata da Sky Italia, Catteleya e Fandango, oltre a dettare legge in patria ha avuto una risonanza enorme fuori dai confini nazionali, venendo distribuita in 190 paesi. Serie che adesso, ad un anno e mezzo di distanza dalla sua conclusione, torna con un’attesissima terza stagione.

Dove eravamo rimasti

In seguito all’arresto di Pietro Savastano (Fortunato Cellino), Ciro Di Marzio (Marco D’Amore) aveva fatto uccidere sua moglie, donna Imma (Maria Pia Calzone), e mandato in coma il figlio Genny (Salvatore Esposito) dopo che quest’ultimo aveva tentato di ucciderlo durante la recita scolastica della figlia. L’assenza del re di Scampia e di Secondigliano aveva causato un vuoto di potere che i vari clan affiliati, guidati sempre da Ciro e dal ritorno di Salvatore Conte (Marco Palvetti), boss latitante in Spagna, hanno colmato formando un’alleanza spartendosi i vari territori. Ma i Savastano non rimangono a lungo fuori dai giochi: Pietro evade di prigione, aiutato dal suo braccio destro Malammore (Fabio De Caro), e Gennaro si ristabilisce dalle ferite riportate. I due, però, non riusciranno a collaborare per riprendersi il trono che spetta alla loro famiglia di diritto ed agiranno in maniera indipendente. Questo causerà diverse tensioni interne all’Alleanza che finirà per disfarsi inesorabilmente, tra sospetti e rancori mai sopiti, desideri di rivalsa e vendetta, invidia e stupidità. Ciro farà sempre più fatica a tenere in piedi i rapporti e dovrà affrontare la perdita di Rosario (Lino Musella), il suo migliore amico. Ma i contrasti non risparmiano neanche i Savastano. Genny è ormai un uomo, è entrato negli affari della mafia romana grazie a Don Avitabile (Gianfranco Gallo) e si è innamorato della figlia, Azzurra (Ivana Lotito), con cui sta per avere un bambino. Vorrebbe prendersi il posto che è suo per nascita, tuttavia il padre cerca di estrometterlo in ogni modo. Nel frattempo, gli scontri a Napoli si fanno sempre più cruenti e vedono cadere tante vittime illustri. Tra queste c’è anche Maria Rita, la figlia di Ciro, una ragazzina. Distrutto da questa perdita, egli medita di lasciare la guerra e, dopo averlo incontrato, implora Genny di ucciderlo. Lui però gli offre la possibilità di vendicarsi, avvisandolo su dove può trovare il padre. Ciro raggiunge Pietro Savastano al cimitero, sulla tomba di donna Imma e gli spara. Mentre questo avviene, Genny torna a Roma, dove la sua amata mette al mondo il loro bambino, a cui viene dato il nome di Pietro.

Ai tempi in cui andò in onda per la prima volta, il 6 maggio 2014 (una vita fa!), Gomorra fu accolta dalle solite italiote sentenze a priori, che naturalmente ne pronosticarono la morte fin dal suo esordio. Allora, l’epoca d’oro della serie TV era agli inizi; di Netflix da queste parti manco a parlarne, il Trono di Spade era ancora una fuga dalla realtà per nerd sfigatelli e la facevano da padrone le fiction Rai in stile Occhi del Cuore (Renè salvaci tu). Gli italiani guardavano i prodotti americani da lontano, consapevoli che per bearsi di quei capolavori era necessario affidarsi a siti di streaming coatto e che, se per caso il dito fosse scivolato sul telecomando, si sarebbero trovati davanti opere del calibro di Il segreto e di Un posto al sole. C’era solo Romanzo Criminale a sorreggere la bandiera dell’italica serialità, ma qualcosa si stava piano piano muovendo. E Gomorra, esattamente come la sua controparte cartacea, riuscì ad intuire la direzione dove soffiava il vento e innestarsi in quel contesto seriale che oggigiorno non solo spadroneggia, ma che è anche vicino alla sovraproduzione. Fate un calcolo: quante serie escono, mensilmente? Non passa settimana senza che vengano fatti annunci su questo o quest’altro adattamento. Dopo Netflix, abbiamo avuto uno sbocciare di piattaforme online che neanche in primavera, tra Amazon Prime, Hulu e le paventate aspirazioni Disney di unirsi alla fiera.

Viviamo nell’epoca delle serie televisive, e Gomorra riuscì a salire sul carro quando ancora c’era spazio e lo fece alla grande. Si confermò come un prodotto di altissimo livello, come l’unico capace di competere con i suoi concorrenti d’oltreoceano e probabilmente continua ad esserlo tutt’ora, sebbene sia finalmente spuntata una concorrenza degna di questo nome. Non a caso, nel 2016 è stata incoronata come la terza miglior serie internazionale, classificandosi dietro ad opere come Happy Valley e Detectorists. Un trionfo confermato dal seguito ottenuto in Italia, con picchi di share di oltre 1 milione di spettatori sulle puntate finali della scorsa stagione. Un seguito che non è affatto scemato nonostante l’anno e mezzo di pausa, anzi. Il 14 e il 15 novembre, la prima e la seconda puntata sono state proiettate per un evento speciale in 300 sale che ha visto quasi 30mila persone occupare le poltrone. La messa in onda vera e propria sul piccolo schermo, avvenuta su Sky Atlantic il 17 novembre, ha avuto l’ascolto record di 1 milione e 13mila spettatori medi, numeri da finale di Champions League che hanno quasi doppiato quelli del debutto della settima stagione del Trono di Spade (572 mila).

Il perché di un simile plebiscito è, paradossalmente, facile da individuare: Gomorra parla dell’Italia, dell’Italia di oggi, dove la criminalità sembra sempre più centrale nella vita dei cittadini (vedere Romanzo Criminale e Suburra), tratta le periferie, che in questo paese sono tutte uguali, a prescindere dalla provenienza geografica e i personaggi che le abitano. E lo fa mettendo in campo una qualità pazzesca, quasi imbarazzante se paragonata a quella della stragrande maggioranza delle produzioni italiche. La visione, del resto, è stata affidata da grandissimi registi che in seguito sono stati stregati dai fasti di Hollywood. Su tutti, Stefano Sollima, artefice di Romanzo Criminale e del film di Suburra, è stato l’artista della cinepresa capace di dare un’impronta precisa e riconoscibile. Un’impronta talmente apprezzata che adesso si trova impegnato nei progetti di ZeroZeroZero e dell’americano Soldado (il seguito di Sicario), cosa che ha causato la sua assenza in questa terza stagione. Ma la strada da lui intrecciata è stata seguita con cura dai suoi “eredi”, già coinvolti in precedenza nella serie e che rispondono al nome di Francesca Comencini e Claudio Cupellini. Proprio a quest’ultimo spetta l’onore e l’onere di girare le prime due puntate, col compito di proseguire nel percorso segnato e di raccogliere quanto di buono fatto fin qui. Obiettivo portato a casa, pur se con qualche stonatura.

Il primo capitolo, esattamente come avvenuto agli inizi della seconda stagione, riprende gli eventi del finale fungendo da ponte tra quello che è stato e quello che sarà, tale da assomigliare più ad una seconda parte che ad una puntata vera e propria. Infatti, rivediamo gli stessi personaggi a fare i conti con quello che è successo e la stessa poetica, fondata sulle dicotomie morte/vita e padre/figlio. Un meccanismo già visto e qui riproposto, che porta alla definitiva ascesa di Genny come capo di Scampia e Secondigliano, consacrazione poi certificata dall’ammissione al consiglio dei boss napoletani e dall’epurazione dei vecchi fedeli del padre. Mentre guardiamo, si fa sempre più largo l’idea che Gennaro Savastano sia forse uno dei personaggi meglio riusciti della serie, interpretato magnificamente da Salvatore Esposito.

Assistiamo alla sua definitiva evoluzione, alla sublimazione della sua crescita evidenziata dal fatto di diventare lui stesso genitore. “Gennarino“, come veniva chiamato da donna Imma, è ormai un uomo fatto, un criminale esperto e feroce capace di scalare la vetta e di restarci. Di fatto, le prime due puntate sono catalizzate su di lui e sul suo cambiamento, tant’è che è diventato il motore della trama. Seguiamo la storia attraverso le sue gesta e quello che accade, accade sempre perché è lui a muovere il tutto. Il cambio di scenografia, spostato al momento da Napoli a Roma, è dovuto a lui, così all’introduzione di nuovi personaggi e di quello che sembra essere il leitmotiv della terza stagione: lo scontro col suocero Don Avitabile, di cui Genny ha sposato la figlia ed ereditato l’impero, sfruttandone l’assenza. Assenza che lui stesso aveva causato, mandandolo in prigione con una soffiata. Uno scontro che diviene anche la metafora perfetta della lotta tra figli e padri, tra i primi che diventano genitori a loro volta e tentano di fare le scarpe ai secondi. Non per cattiveria né per odio, ma solo per colpa della catena alimentare che guida le leggi del Sistema tra i clan, la brutalità animalesca e la crudeltà che anima le dinamiche e le azioni dei protagonisti sempre e comunque, anche dietro al rispettabile parapetto dei milioni e delle multinazionali. Ma Genny è rimasto per troppo tempo all’interno della giungla senza aver imparato a sopravvivere. Ormai l’erede dei Savastano è il centro dell’universo narrativo della serie, è finalmente diventato quello che i genitori e tutti gli altri si aspettavano che diventasse: il capo. E chissà per quanto tempo riuscirà a mantenere questa sua posizione.

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Anche perché, se è la capitale ha calamitare l’attenzione, a Scampia la situazione è tutt’altro che tranquilla. Se nessuno sa più di niente di Ciro di Marzio, partito per una località sconosciuta dopo aver stretto il patto con Genny, gli altri personaggi fanno i conti con il tempo che è passato e con la loro nuova dimensione. Patrizia (Cristiana Dell’Anna), divenuta nella seconda stagione il corriere e l’amante di Pietro Savastano, decide di uscire dal Sistema per rifarsi una vita. Ma è impossibile: quando entri dentro, è il Sistema che entra dentro di te. Nonostante cerchi di tirarsi fuori, si trova ancora costretta ad essere il mezzo di un boss e agisce per conto di Scianel (Cristina Donadio). Scianel che è la grande assente di queste prime due puntate. Dopo essere finita in galera per colpa della ex suocera Marinella (Denise Capezza), la donna è pronta a vendicarsi e a riconquistare lo spazio che merita.

Dal trailer, si intuisce che il suo ruolo sarà centrale e la sua mancanza in queste due ore fa abbastanza scalpore. Del resto la morte di Pietro dovrebbe servire proprio a questo: a lasciare campo libero alle figure che già c’erano e permettere ad altri personaggi di fare la loro comparsa. Cosa realizzata qui in parte, dato che tra quelli introdotti finora l’unico ad avere un po’ di spazio è Gegè (Edoardo Sorgente), il contabile assunto da Genny per gestire i suoi affari a Roma. Gegè è in effetti quasi il coprotagonista della seconda puntata, ma il primo giudizio che se ne ricava non è totalmente positivo. Pare incarnare la classica figura dell’uomo dei numeri che entra in affari con il crimine organizzato per puro tornaconto economico, convinto di poter uscire quando vuole e di essere estraneo agli orrori perpetrati dai suoi soci, quando invece non è così. Un personaggio fin troppo consueto, visto e stravisto nelle storie di malavita (basti pensare a Narcos), ma che qui rimane incastrato nello stereotipo per quanto gli sceneggiatori abbiano cercato di renderlo interessante. Di sicuro avrà tempo per smentire questa sensazione, anche perché promette di essere molto importante ai fini della trama.

In definitiva, queste due puntate di Gomorra non fanno poi tanto, ma lo fanno comunque bene cercando di preparare il terreno a quello che dovrà succedere, e le premesse sembrano dare il là qualcosa di esplosivo. Per fortuna, il comparto estetico della serie pare essere rimasto lo stesso del passato, nonostante le perdite illustri che ci sono state nella produzione. Il livello è altissimo e conferma l’opera come il miglior prodotto seriale italiano, l’unico capace di competere con quelli esteri. E non è affatto scontato.

Elia Munaò
Elia Munaò, nato (ahilui) in un paesino sconosciuto della periferia fiorentina, scrive per indole e maledizione dall'età di dodici anni, ossia dal giorno in cui ha scoperto che le penne non servono solo per grattarsi il naso. Lettore consumato di Topolino dalla prima giovinezza, cresciuto a pane e Pikappa, si autoproclama letterato di professione in mancanza di qualcosa di redditizio. Coltiva il sogno di sfondare nel mondo della parola stampata, ma per ora si limita a quella della carta igienica. Assiduo frequentatore di beceri luoghi come librerie e fumetterie, prega ogni giorno le divinità olimpiche di arrivare a fine giornata senza combinare disastri. Dottore in Lettere Moderne senza poter effettuare delle vere visite a domicilio, ondeggia tra uno stato esistenziale e l'altro manco fosse il gatto di Schrödinger. NIENTE PANICO!