Il grido muto di un suono silenzioso

Non è facile parlare di certe cose. Si sente spesso dire in giro che le opere di fantasia cercano solo il puro intrattenimento, la semplice evasione, quando dovrebbero invece trattare di più la realtà che li circonda, le minoranze, i problemi sociali, argomenti complessi su cui non ci soffermiamo abbastanza e che hanno per protagoniste persone vere, tangibili, che là fuori, da qualche parte, soffrono. È anche vero che non tutti sono capaci di trattare quelle tematiche nel modo giusto, senza cadere in pallide retoriche prive di senso o esagerati effetti drammatici. Ci vuole tatto, sensibilità e, soprattutto, la voglia di raccontare qualcosa non per se stessi ma per qualcun altro.

Non è immediato, anche perché a volte cedere all’immaginazione è più spontaneo, conseguenziale. Chiudere gli occhi e distogliere lo sguardo. Allora, quello che ci vuole veramente è il coraggio. Coraggio di scavare a fondo e portare in superficie qualcosa d’importante, che valga davvero. Coraggio non manca in A Silent Voice, il meraviglioso manga scritto e disegnato da Yoshitoki Oima, pubblicato cavallo tra il 2013 e il 2014. Opera da cui, un anno fa, è stato tratto un adattamento anime che finalmente arriva nel nostro paese, per due date speciali il 24 e il 25 ottobre 2017.

Un giovane ragazzo di nome Shoya Ishida passeggia lungo un ponte quando, all’improvviso, si ferma per osservare l’acqua. Contempla l’idea del suicidio. Mentre i ricordi, prima del fatale gesto, scivolano di fronte a lui, rivede l’episodio della sua infanzia che più di tutti ha condizionato il suo passato. Riporta alla mente il periodo in cui era un ragazzino scapestrato che sfidava continuamente gli amici a sfide di paura, saltando spesso nel fiume da altezze pericolosissime. Un giorno, nella sua classe arriva una bambina silenziosa, apparentemente gentile ed educata. Quella bambina si chiama Shoko Nishimiya ed è sorda dalla nascita. Piano piano, viene bullizzata dai suoi compagni di classe a causa della disabilità che l’accompagna fin dalla culla, soprattutto da Shoya che ne fa la sua vittima preferita. A causa di questo, lei è costretta a cambiare scuola, mentre lui ne viene ritenuto il responsabile e tiranneggiato a sua volta. Nel presente, Ishida rinuncia a buttarsi e, poco dopo, ritrova Shoko, cresciuta. Dopo averla vista, decide di farsi perdonare per quello che ha fatto e diventare suo amico.

Acclamato all’unaminità dalla critica (finalista e vincitore di numerosi premi e riconoscimenti) e dal pubblico (sette volumi tankobon da milioni di copie, in Giappone e all’estero), i sussurri su un adattamento anime per A Silent Voice giravano già da un po’, prima sotto forma di serie e poi come film per il cinema. Film che, tra le altre cose, è stato uno dei maggiori incassi al botteghino in patria e promette di guadagnare ulteriori consensi oltreconfine. Eppure, la vita editoriale del manga è stata molto travagliata e il cammino per la serializzazione su rivista assai lungo. Dopo aver vinto infatti il primo premio come Miglior Esordiente nel 2008, ha dovuto aspettare il 2011 per la pubblicazione one-shot e altri due per approdare definitivamente sul Weakly Shone Magazine. Il motivo risiede, stranamente, nella stessa ragione del suo successo.

L’argomento, infatti, non era di non facile collocazione all’interno della giungla delle riviste giapponesi, tanto che per l’approdo finale è stato necessario il supporto della Federazione Nipponica dei Sordi. Col senno di poi, sembra difficile pensare che il tema della vicenda possa essere stato un problema per il manga, dato che, probabilmente, si tratta di uno dei migliori lavori su un tema così delicato, come quello della disabilità. Soprattutto considerando che non sono poi tanto comuni dalle parti del sol levante e ben che meno così splendidi da ottenere un tale apprezzamento. Il perché di un simile successo è facilmente intuibile fin dai primi fotogrammi dell’adattamento (o dalle prime pagine del manga): una storia raccontata con dolcezza, sentimenti verisituazioni reali e una profondità che è davvero raro vedere. Si potrebbe parlare all’infinito di tutte le sfumature che la storia sa toccare, del modo in cui riesce a raccontare di solitudine, di disabilità, di depressione, di redenzione e dei legami con le persone, di come a volte si venga discriminati per cose di cui non siamo responsabili e altre volte di cui siamo colpevoli. In fondo, forse è questa la colonna portante dell’intera narrazione: il passato. Un passato che ci carica sopra di pesi insostenibili per mera casualità e che ci incatena ad errori, sbagli, gesti che abbiamo commesso e che vorremo in ogni modo cancellare. Che si tratti dell’essere sordi fin dalla culla oppure di aver causato del male ad una persona per cattiveria, crudeltà o banale ignoranza, non è possibile cancellare questi macigni dalle proprie coscienze né riuscire a dimenticarli. Spesso, redenzione significa imparare a convivere con i propri peccati e i propri lati oscuri, con le zavorre che ciascuno di noi si porta dentro per motivi diversi. Tuttavia, non è una cosa che si può fare da soli. La storia di Shoko e Shoya sembra dirci esattamente questo. Non è un caso che entrambi inizino a trovare un equilibrio con se stessi solo quando hanno cominciato a frequentarsi e a incontrare vecchi amici che si credevano persi e nuovi che aspettavano solo di poter entrare nelle loro vite. Solo così si è capaci di riguardare in faccia le persone o riuscire a comunicare perfino quando il destino (o chi per lui), ti ha privato della facoltà di sentire. Anche perché, altrimenti, si può finire stretti in una morsa fatta di tristezza e solitudine, dalla quale nessuna voce può uscire ad invocare aiuto. In effetti, la “Silent Voice” della narrazione può essere quella di chi sta male e non riesce a comunicare, una voce che è sempre difficile ascoltare, indipendentemente dal fatto di essere sordi o no. Perché intorno si crea un muro silenzioso che alla fine rischia di stritolarti.

Questo è il contenuto. Un contenuto pieno di tante interpretazioni e significati racchiuso in una cornice bellissima e suggestiva, intessuta tramite una regia di livello altissimo. Regia dietro la quale si cela Naoko Yamada che, complice la sceneggiatura di Reiko Yoshida, gestisce le inquadrature con poesia e coraggio, senza paura di cercare quel qualcosa in più che trasforma una bella storia in una indimenticabile. Bisogna dare atto poi ai ragazzi della Kyoto Animation di non aver risparmiato sudore ed effetti sull’animazione, un piacere costante per gli occhi, senza tralasciare l’apporto al design di Futoshi Nishiya e le toccanti musiche di Kensuke Ushio, che insieme rievocano le atmosfere del manga e aggiungono un totale coinvolgimento sensoriale da cui è quasi impossibile staccarsi. Un’altra perla animata che si inserisce nel solco tracciato dai recenti successi di Your Name, Wolf Children e The Boy and The Beast.

Verdetto

La Forma della Voce è un capolavoro animato che tratta con poesia e sensibilità argomenti delicati che raramente trovano spazio nelle opere di fantasia. Un gioiello proveniente dal Giappone che si insinua nei successi recenti di Your Name, Wolf Children e The Boy and The Beast.

 

Elia Munaò
Elia Munaò, nato (ahilui) in un paesino sconosciuto della periferia fiorentina, scrive per indole e maledizione dall'età di dodici anni, ossia dal giorno in cui ha scoperto che le penne non servono solo per grattarsi il naso. Lettore consumato di Topolino dalla prima giovinezza, cresciuto a pane e Pikappa, si autoproclama letterato di professione in mancanza di qualcosa di redditizio. Coltiva il sogno di sfondare nel mondo della parola stampata, ma per ora si limita a quella della carta igienica. Assiduo frequentatore di beceri luoghi come librerie e fumetterie, prega ogni giorno le divinità olimpiche di arrivare a fine giornata senza combinare disastri. Dottore in Lettere Moderne senza poter effettuare delle vere visite a domicilio, ondeggia tra uno stato esistenziale e l'altro manco fosse il gatto di Schrödinger. NIENTE PANICO!