Apologia della guerra

Dopo un’attesa quasi messianica, Metal Gear Solid V: The Phantom Pain arriva sulle nostre console, riconsegnandoci per le mani il destino di Big Boss e, più probabilmente, quello dell’intero brand vista l’ormai irrimediabile crisi tra Konami e l’estroso e geniale Hideo Kojima. Ad un anno dal piuttosto stringato prologo di Ground Zeroes, The Phantom Pain riprende allora il suo racconto esattamente da quel tragico finale, vedendoci ancora una volta nei panni di un Big Boss leggermente più attempato ma non per questo stanco della guerra, vista più che mai come una necessità per sé stesso e per i suoi compagni d’armi, ed unico strumento per attuare una dolorosa vendetta. Approcciarsi a The Phantom Pain, diciamolo subito senza mezze misure, è spiazzante. I motivi dell’incertezza e della titubanza del giocatore sono tanti e variegati e meritano ben più di una spiegazione. Del resto lo sappiamo, siete già corsi alla fine di questa lunga recensione per scoprirne il voto e solo ora siete tornati qui a leggerne le motivazioni. 8? Vi state dicendo che è un voto basso per un’opera che si è beccata, in certi lidi, persino il perfect score. Ma ve lo assicuriamo non è così, è il voto giusto e se avrete pazienza capirete anche il perché.

“Non abbiamo né nazione, né filosofia, né ideologia. Andiamo dove siamo necessari, combattendo non per un paese o un governo, ma per noi stessi. Non ci serve un motivo per combattere. Combattiamo perché siamo necessari. Saremo il deterrente per coloro che non hanno altra risorsa. Siamo soldati senza frontiere, il nostro scopo è definito dall’era in cui viviamo. A volte dovremo vendere noi stessi e i nostri servizi. Se i tempi lo richiederanno, saremo rivoluzionari, criminali, terroristi. E sì, forse andremo tutti dritti all’inferno. Ma quale posto migliore per noi di questo? È la nostra unica casa. Il nostro paradiso e il nostro inferno. Questo è Outer Heaven.”

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Al ritorno da un’infiltrazione che gli permise di recuperare i suoi compagni Chico e Paz dal misterioso Camp Omega, Big Boss trovò uno spettacolo inquietante e psicologicamente devastante. Infiltratesi con l’inganno sulla Mother Base, le misteriosi forze militari i XOF attaccarono e rapidamente distrussero la base, infliggendo un duro colpo ai “militari senza frontiere” di Big Boss e ferendo quasi mortalmente sia il soldato leggendario che il suo fidato braccio destro, Kazuhira Miller. The Phantom Pain parte esattamente da qui, dai drammatici momenti di quel Ground Zeroes che, uscito ben un anno prima, ci bastò a malapena come antipasto. 9 anni sono passati da quegli eventi. 9 anni che Big Boss ha passato in coma, ben nascosto in un ospedale cipriota in cui, infine, si risveglierà intontito e visibilmente provato. Un risveglio lento che porterà l’eroe dell’operazione Snake Eater ad affrontare, sin da subito, una realtà dura e sconvolgente: nel corso dell’attacco XOF, Big Boss non è solo caduto in uno stato comatoso, ma ha perso il braccio sinistro ed il suo corpo, a causa di un’esplosione, è costellato da 108 schegge ossee e metalliche la cui più evidente gli si è conficcata nel cranio, donandogli un caratteristico “corno”. Come se non bastassero la consapevolezza di essere un rudere, unita al dispiacere di una perdita sin troppo gravosa, l’ospedale verrà ben presto attaccato in quello che è l’ormai ben noto prologo che fece anche da presentazione per il gioco nell’ormai lontano 2013.

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Scovato Big Boss, XOF non ci metterà molto per assaltare l’ospedale dispiegando la forza letale e portando sul campo anche un misterioso uomo fiammeggiante, la cui marcia inarrestabile per i corridoi bui, assieme ai militari decisi a stanare la Leggenda, porterà all’eccidio di tutto il personale ospedaliero pazienti compresi. Salvato dal misterioso Ishmael, Big Boss infine riuscirà a scappare dando così inizio a degli eventi che ci porteranno su di un lungo e sanguinario cammino di vendetta contro XOF ed il suo comandate: Skull Face. Il prologo, diciamolo subito, è forse il momento migliore dell’intero The Phantom Pain, e certamente tra i migliori dell’intera seria di Metal Gear. Girato con uno stile schizofrenico, con l’uso di una steady cam digitale particolarmente efficiente e attingendo, neanche troppo vagamente, ad alcuni stratagemmi del cinema horrorifico nipponico, Kojima confeziona un momento narrativo dal piglio notevole che dissolve in buona parte non una, ma due categorie di “dubbiosi” videogiocatori. I primi sono certamente quelli che credevano che il travagliato modus laborandi di Konami degli ultimi anni avesse in qualche modo azzoppato il lavoro e le idee di Kojima; il secondo è quel gruppo di persone che vissero la componente cinematografica di Guns of the Patriots come una sorta di smacco alla componente videoludica. The Phantom Pain, in tal senso, distrugge ogni dubbi configurandosi sin dal prologo come un titolo assolutamente da giocare più che da guardare.

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Kojima, con il suo estro e la sua (non sempre lucida) genialità si dimostra all’altezza delle aspettative ma poi purtroppo qualcosa si perde e questo è forse tra i motivi principali dell’esito del nostro giudizio. Ora, se ci siamo limitati a parlarvi del prologo, non è solo per ovvi motivi di spoiler ma perché in realtà The Phantom Pain soffre di un problema dal punto di vista della narrazione non indifferente. Superate le prime ore, fuggiti dall’ospedale e giunti nella prima ambientazione, l’Afghanistan, il gioco praticamente si ferma, rimettendoci tra le mani una lunga serie di missioni che hanno ben poco a che vedere con la trama, se non qualche lieve giustificazione logistica (recluta gente, recupera armamenti, amplia la base, ecc.). Kojima ha infatti scelto di dare una corposa sforbiciata ai contenuti video della sua ultima opera, demandando buona parte della narrazione a conversazioni via radio e a nastri registrati su audiocassetta, ripercorrendo quindi buona parte della filosofia alla base di MGS: Peace Walker che, allo stesso modo, utilizzava delle registrazioni per raccontare eventi principali e secondari. Lì forse necessità imposta dalla macchina di sviluppo (PSP), qui evidente scelta di stile. Scelta tuttavia esasperata. Il numero di nastri (tra utili e inutili) è veramente consistente, tale che almeno un paio di volte siamo rimasti davanti allo schermo immobili ad ascoltare nastri per un tempo oscillante tra i 15 e i 20 minuti. Quando anche i nastri poi raccontino qualcosa, in fin dei conti veri e propri movimenti di trama non ce ne sono e dovrete aspettare addirittura prima la missione 20 e poi la 30 perché finalmente si possa stringere qualcosa tra le mani. Non aiutano neanche, in tal senso, i personaggi di supporto come Ocelot, Quiet o Eli. Essi, anche quando reperibili sulla Mother Base, saranno muti praticamente fino alla conclusione del primo dei due capitoli di gioco. A quel punto però il nostro contatore segnava quasi 40 ore di gioco all’attivo stabilendo, in modo piuttosto chiaro, la fumosità della trama e delle sue motivazioni, perché voler essere onesti fino in fondo, quella di The Phantom Pain è anche la trama meno interessante di sempre e ciò a prescindere dalle tipiche supercazzole kojimiane. Se la lancetta dell’incredulità è settata su standard ancor più alti che in passato (cosa che può piacere o no) è proprio l’inconsistenza di certi momenti a lasciare perplessi lasciando intendere che forse si poteva ottenere lo stesso risultato in meno tempo. Per fortuna ci sono delle cose che rilasceranno nel vostro cervello una certa quantità di endorfine. Verso la metà del gioco la sensazione che il cerchio si stia chiudendo si fa palpabile. La citazione di certi personaggi, un paio di colpi di scena ma soprattutto il finale (o i finali? Quanti ce ne saranno? :P) dà all’opera tutta una certa dignità. A questo punto starà a voi tirare le somme e dare i vostri giudizi perché potrebbero essere passate tante ore… e non tutte saranno state costruttive. A quel punto ve la sentirete di gridare allo scandalo… o al capolavoro? Questo starà a voi. Quel che è di certo indubbio è che si sia scelto di puntare ad un certo grado di introspezione a simboleggiare, probabilmente, quello che è un conflitto che dal campo di battaglia è ormai radicato negli uomini. La menomazione di Big Boss è la comprova che una leggenda non è inscalfibile e la cosa ha un senso filosofico di notevole impatto ma visti i precedenti narrativi della serie, visto quel che ci si aspettava e vista, soprattutto, la passata capacità di Kojima di raccontare e gestire con un certo piglio, la sensazione di avere per le mani “troppo poco” è difficile da contrastare, anche quando ormai la scatola del gioco sarà irrimediabilmente messa sullo scaffale.

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Missione sul campo

Dal punto di vista squisitamente ludico, The Phantom Pain è a metà strada tra l’innovazione e la rivoluzione del brand Metal Gear. Questo concetto, apparentemente banale, è in realtà comprovato dalle meccaniche del gameplay che non cerca una nuova formula, ma piuttosto fonde diversi aspetti di due momenti cardine dell’esperienza Metal Gear in quello che un sistema perfezionato e cesellato. La filosofia è quella di Peace Walker, in cui le missioni, strutturate per essere parte di un unico corpus ludico, sono suddivise in task quasi mordi e fuggi. Ogni singola missione è autonoma e, premesso il loro sblocco, può essere affrontata quando si vuole, non necessariamente seguendone l’ordine numerico dettato dal menù, o addirittura lasciandole da parte nel corso del lungo peregrinare sulle due immense mappe open world (Afghanistan e Sud Africa). Le missioni opzionali, invece, possono addirittura essere affrontate in sequenza nel corso dell’esplorazione libera, dandoci la libertà di “passeggiare” sulla mappa tra una task e l’altra nel reperimento di materiali e nel conseguimento dei vari obiettivi proposti. Da Snake Eater c’è infine l’ispirazione all’approccio che va tatticamente studiato e che prevede una conoscenza del campo e della forza nemica ma anche la possibilità di un’eventuale azione di forza qualora si venga scoperti e non si riesca a ripiegare. Provare ad infiltrarsi silenziosamente è di sicuro il fulcro dell’esperienza ma se le cose dovessero andare male nulla vi vieterà di fare una strage a fucile spianato o, perché no, magari richiedere il supporto aereo della Mother Base per radere l’accampamento al suolo. La dualità tattica è insomma divertente e ben strutturata e mette una pezza anche a quello che è un aspetto un po’ sottotono dell’esperienza ludica, ossia l’IA che, pur essendo reattiva e quasi mai titubante di fronte al pericolo, ha spesso degli scivoloni notevoli che vanno però ad annullarsi con la sfida crescente delle missioni.

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Se infatti all’inizio ci si sente quasi di fare la guerra con dei polli: pochi e sparuti mercenari in accampamenti contenuti. Con l’ampliarsi delle basi ed il miglioramento degli equipaggiamenti nemici (miglioramento che la nostra squadra di spionaggio potrà addirittura monitorare) la sfida tenderà pian piano a salire. L’organizzazione nemica, inoltre, a prescindere dall’IA è notevole. Le ronde di pattuglia, data la vastità della mappa, saranno all’ordine del giorno senza contare la possibilità (salvo non prendiate provvedimenti) che gli accampamenti comunichino tra loro onde richiedere rinforzi. Il problema allora qual è? In effetti ce ne sono due: il primo è una considerevole ripetitività degli incarichi che può essere riassunto in “infiltrati, distruggi/salva l’obiettivo, lascia l’area della missione”. Ora, qualcuno dirà che a ben vedere in Metal Gear sono più o meno vent’anni che si ruota attorno alla stessa roba, ma il punto è che i passati guizzi di trama o quelle trovate spesso astruse ma geniali (ce la ricordate la scheda da modificare con la temperatura del primo MGS?) in qualche modo stimolavano quel che ruotava attorno al cuore ludico dell’opera e invogliavano persino ad improbabili e tediosi momenti di backtracking. Persino Peace Walker, con alcune delle sue trovate e le sue scialbe boss fight aveva, in tal senso, molto più da dire. Il secondo problema è poi la curva di difficoltà non propriamente bilanciata. Se le cose procedono con una certa regolarità per tutto il primo capitolo, dal secondo in poi il gioco punta ad una difficoltà assurda con un sistema neanche troppo gradevole. Di fatto alle normali missioni se ne affiancheranno altre (che NON saranno opzionali) che in pratica riproporranno obiettivi già conseguiti con appositi modificatori della difficoltà. In pratica il gioco ci obbligherà, senza nessun motivo, a rifare delle missioni già fatte ma stavolta senza equipaggiamento, o magari senza la possibilità di far suonare l’allarme, o con dei nemici dagli equipaggiamenti potenziati. Questa scelta, che non si traduce in nessun’altra logica se non quella di allungare il brodo ci ha fatto pesantemente storcere il naso. La difficoltà di certi incarichi è demotivante ed il fatto che non si possa fare a meno di completare queste missioni del secondo capitolo rende l’incedere spesso tedioso.

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Il punto è che, nonostante tutto, non si può comunque bocciare un sistema di gioco che, tutto sommato, funziona molto bene (ancora una volta “dualità”). La mappatura dei tasti, il ritmo dell’infiltrazione, o anche solo l’esplorazione sono infatti di altissimo livello. Si tratta di quel che c’è dietro, su cui certamente era montata anche una certa aspettativa, a lasciare un po’ spiazzati. È una situazione agrodolce in cui talvolta ci si lascia catturare dal gameplay, altre volte ci si annoia per la stessa solfa dopo l’ennesimo ostaggio salvato, altre ancora ci si chiede del perché si ascolta Miller parlare di hamburger su di un nastro registrato (e fidatevi, succede) ed altre ci si aggrappa ai feels scoprendo cose che forse in cuor nostro sapevamo o ci aspettavamo, ma che la (poca) trama finalmente ci serve su di un piatto d’argento.

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Sempre in tema ludico, non è possibile non parlare del nuovo impianto open world, di fatto nulla più che la sublimazione di un percorso che, partendo da PW e arrivando a Guns of the Patriots, trova finalmente il suo posto tra le idee di Kojima e la sua decisiva consacrazione. L’impatto con l’impronta open world di Metal Gear Solid è corroborante ed ha un sapore realmente diverso dal solito. La possibilità di esplorare liberamente le mappe per noi, ma anche per i nostri nemici, dà all’azione un nuovo dinamismo che ci obbliga a pianificare severamente il nostro approccio. Kojima Production ha poi ideato dei tocchi di classe per infondere nel giocatore la sensazione di far parte di un mondo vivo e dinamico, non solo per i cicli giorno/notte che si avvicendano, o per l’ottima varietà atmosferica (pioggia, vento, nebbia), ma anche per la capacità con cui le basi nemiche comunicano tra di loro, o per il modo in cui lo stesso giocatore deve compiere i propri passi sulla mappa. Correre in un deserto apparentemente disabitato, per dirne una, è un’idea non propriamente vincente… salvo non lo si faccia nel cuore della notte. Approcciarsi ad una base nemica dalla porta d’ingresso, quando aprendo la mappa si può trovare un crinale che è la “delizia del cecchino” è solo una delle varie opzioni. Ignorare le segnalazioni su equipaggiamenti e ronde provenienti dalla Mother Base e caricare a testa bassa è pura idiozia.

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L’open world, insomma, vi costringe a riscrivere i vostri parametri di infiltrazione consci anche che oggi, più che mai, l’allerta nemica è alle stelle e che un allarme non solo può prolungarsi per tempi assurdi, ma può richiamare l’attenzione (e il dispiegamento) di basi vicine in termini di uomini e mezzi pesanti. Aggiungeteci poi animali selvaggi, trappole nemiche ma anche solo ostacoli esplorativi (crepacci, fiumi, acquitrini vari) e capirete quanto gradevole possa essere il mondo di The Phantom Pain. Il punto è che, nonostante un apparente appiattimento delle ambientazioni, il level design accurato tipico del brand è ancora al suo posto ed è il cuore pulsante della totalità dell’esperienza ludica. Scoprire, poi, che la diversificazione ambientale non è solo estetica ma anche tattica, dà ancor più senso alla virata open world che non resta mai fine a sé stessa. Quindi largo alla fascinazione della scoperta ed alla ricerca. Il mondo di The Phantom Pain, con i suoi avamposti, i suoi ruderi, i suoi campi aperti al tiro sulla lunghissima distanza sono una trovata più che gradevole e funzionale che, a differenza di quel che si pensava prima dell’uscita, non ha sminuito di una virgola l’impianto alla base del gioco (o la sua filosofia) ma lo ha anzi amplificato rendendo certe situazioni di infiltrazione, se possibile, ancor più tattiche e divertenti che in passato ma soprattutto impegnative.

Sentirsi a casa

Un altro aspetto prettamente ludico è quello della Mother Base, un gradito ritorno dell’impianto di Peace Walker e qui riveduto ed in parte corretto e arricchito con in più la possibilità, finalmente, di esplorare l’intera struttura la cui estensione è notevole. La Mother Base dei Diamond Dogs è infatti molto più grande e ricca di quella ammirata in Peace Walker e permette tutta una serie di nuove funzioni che aumentano a dismisura l’approccio alla componente gestionale del gioco e, in minor misura, a quella tattica. L’ampliamento e la gestione della Mother Base è infatti fondamentale e richiederà da parte vostra la piena comprensione dei menù e delle possibilità. Assegnare semplicemente i soldati ad una sezione della base o costruire armi senza cognizione di causa implicherà ben presto non pochi problemi, in primis quello del non perfetto schieramento della forza in campo. Ad ogni missione, infatti, vi sarà chiesto il tipo di equipaggiamento che preferite portare con voi, il tipo di vestiario, il tipo di supporto e persino che veicolo farvi sganciare sul campo. Orbene tutto ciò avrà un costo in termini di risorse e tali risorse, stipate nella Mother Base, andranno ottimamente gestite pena un conto in rosso. Essere al verde di denaro (GMP) e risorse varie significa non poter schierare sul campo tutte le armi che ci occorrono, non poter richiedere il supporto aereo o anche solo scontentare i propri uomini che, inesorabilmente, prima o poi ci abbandoneranno.

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Al contrario tenere florida la propria economia, assegnare soldati alle giuste sezioni, e spendere il proprio denaro nel modo giusto vi permetteranno di crescere sempre meglio dando alla vostra base un aspetto (e un’imponenza) che avrà ben poco da invidiare ad una piccola nazione (e saprete che non è un caso). La Mother Base, insomma, torna ad occupare un ruolo prominente nell’economia di gioco configurandosi come un’esperienza gestionale di buon livello. Andare in giro a raccogliere soldati, armi e veicoli con il vostro sistema fulton (oggi più importante che mai sul campo di battaglia) è un qualcosa che potrebbe far storcere il naso a molti ma che è ormai fondamentale nell’impianto ludico della serie e, metti, persino divertente se si considera che a differenza di Peace Walker l’estrazione di personale e materiali è un qualcosa di cui ora i nemici terranno conto e che non faranno a meno di notare. Amaramente però anche qui non mancano dei problemi. Per quanto bella e vasta la Mother Base è, di fatto, una piattaforma quasi vuota. Un dedalo di scale metalliche che raramente portano a qualcosa di concludente. Ci sono in realtà due o tre segreti che vale la pena svelare, ma a dispetto di una piattaforma tanto vasta da richiedere dei “trucchi” per essere esplorata, capirete che la cosa lascia un po’ perplessi. Infine, ed è questo un qualcosa di fondamentale in termini di recensione, la vera e propria Mother Base non sarà quella “fisica” ma quella che controlleremo attraverso il nostro iDroid. L’intera struttura, così come ogni altro aspetto gestionale (creazione armi, partecipazione a missioni principali, e opzionali) sarà gestita attraverso una rete fittissima di menù invero non tutti chiarissimi nel loro funzionamento. Il gioco, i tanto in tanto, ci istraderà in piccoli tutorial testuali ma il fulcro della gestione sarà sempre e comunque per mezzo di menù testuali, invero neanche particolarmente curati dal punto di vista estetico e comunque non sempre comprensibili. Un peccato insomma che ci sia uno smacco netto tra struttura e infrastruttura perché l’appartenenza alla causa di Big Boss è, in fondo, il cuore stesso dell’esperienza dell’intero The Phantom Pain. Un qualcosa che è più di uno spunto narrativo (come in Peace Walker per intenderci) ma che purtroppo non è in grado di avvinghiare, come si deve, la totalità dei giocatori. In ogni caso sarà difficile che anche solo per intuito non si faccia il possibile per aumentare le proprie fila o il proprio equipaggiamento perché in modo quasi subliminale sarà il gioco stesso a renderci parte della causa dei Diamond Dogs rendendo ogni scoperta una personalissima conquista.

Metal Gear Online… ma non ancora

E visto che siamo in tema di menù, prima di andare oltre vale la pena spendere qualche parola sulla funzione online di Metal Gear Solid V che non è da confondersi con Metal Gear Online che sarà invece quasi un titolo a sé in arrivo il prossimo mese (ed ovviamente parte di The Phantom Pain). MGS V gode infatti di una piccola sezione online che consiste, fondamentalmente, in una “Mother Base specchio”, la cosiddetta piattaforma FOB. Le piattaforme FOB, di fatto, funzionano come la vostra base, e con essa condivideranno sia gli uomini, che gli armamenti, gli sviluppi e l’economia e vi permetteranno di dispiegare 2 squadre in più nelle missioni esterne quindi, più piattaforme avete, più la vostra efficienza nelle missioni esterne salirà. La differenza tra le FOB e la Mother Base offline è che esse vanno fondate da zero e che vanno poi potenziate con lo stesso espediente della Mother Base “offline”. Ora, il punto è che una piattaforma FOB non può essere fondata senza monete digitali. O meglio, la prima fondazione sarà gratuita, ma la seconda (e successive) andranno pagate in valuta reale acquistabile tramite store digitale. Con la medesima valuta sarà poi possibile il tipico “sprint” per il completamento delle missioni esterne, ossia quelle task affidate al personale dei Diamond Dogs che vi riporterà indietro soldi, risorse e compagnia cantante. Di per sé non è chiaro il perché di una scelta del genere se non quello di lucrare.

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Se è pur vero che la piattaforma FOB numero 1 viene fondata gratuitamente, non capiamo che diamine di senso abbia rendere le altre a pagamento. Inoltre è oscuro il motivo per cui, semplicemente, non si sia optato per un’unica base da gestire anziché tante altre basi online che al giocatore costano anche un numero di risorse francamente esoso per lo sviluppo (risorse che, ricordiamolo, dovrete decurtare dalla ben più importante gestione offline). Quel che è poi il sistema in sé, che prevedrebbe una guerra tra i giocatori online nello stile di qualsiasi gestionale online (tu attacchi Tizio, ti allei con Caio, ecc…) è di fatto non solo del tutto ignorabile ma addirittura malfunzionante e risulta, ad oggi, praticamente impossibile giocarci con un minimo di senso. Oltre a ciò, quando il gioco è online rallenta l’intero menù iDroid in modo atroce per motivi di comunicazione col server. Poiché il menù FOB è, di fatto, lo stesso di qualsiasi altra funzione iDroid, il risultato è che (salvo non crashi direttamente la connessione col server) i vostri menù cominceranno a caricare quasi all’infinito rendendo il tutto molto tedioso. Non parliamo poi di quando ciò succede di pari passo ad uno dei vari tutorial incentrarti sulla gestione… i menù letteralmente si impallano costringendovi a guardare un iDroid vuoto per diversi secondi. Insomma la funzione online di The Phantom Pain non solo, ad ora, è un becero pay to win ma è anche un qualcosa che nel suo malfunzionamento crea problemi al gioco. Pessimismo e fastidio!

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La volpe non perde il pelo

In conclusione ci sentiamo di fare un applauso al duro lavoro che Kojima ha effettuato con il Fox Engine che se nel recente PES 2015 non si era mostrato all’altezza del nome del suo creatore, in The Phantom Pain è invece curatissimo e performante. A fare da diamante nella corona tecnica della produzione ci sono sicuramente le espressioni facciali e le animazioni, entrambe effettuate grazie ad un sistema di motion capture su diverse squadre di attori reali (tra cui, ovviamente, Kiefer Sutherland per Big Boss). Non è infatti difficile apprezzare il lavoro in tal senso, grazie ai guizzi di telecamera della regia virtuale tali da cogliere sempre in modo deciso i dettagli delle espressioni digitali. Una cura dei dettagli che, in ogni caso, è parte dell’intera produzione in cui si segnalano veramente pochissimi passi falsi. Anche l’illuminazione ed i particellari (specialmente sotto forma di pulviscoli più o meno densi) sono ricreati ad arte e conferiscono all’intero gioco un certo realismo ed un colpo d’occhio, soprattutto in certe ore del giorno, veramente godibile ed impressionante. Non mancano poi degli ottimi effetti atmosferici, nonché delle texture ambientali sempre all’altezza anche in quegli ambienti da cui non ci aspetterebbe la stessa cura che in altri (case diroccate, ruderi, camion abbandonati, ecc.). Gli scenari, insomma, sono ben costruiti e puliti ed al netto della loro vastità non scoprono mai il fianco a critiche considerevoli. Vero è che, giocoforza la scelta delle location, siamo comunque dinanzi ad un lavoro che non è in grado di competere con la varietà prepotente di opere parimenti vaste come il recente The Witcher 3, tuttavia The Phantom Pain si difende più che bene e schiera dalla sua anche un ottimo frame rate (60 fps) i cui cali sono quasi impercettibili e comunque estremamente rari. A chiudere il cerchio la migliore colonna sonora per la serie, non solo grazie ad inediti bellissimi (Quiet Theme, Sins of the Father), ma anche al ritorno di alcuni pezzi bellissimi e memorabili (Here’s to You) e ad alcune nuove entrare della celeberrima discografia anni ’80 (Spandau Ballet in testa) che aiutano, e non di poco, a contestualizzare cronologicamente l’avventura.

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Conclusione

Non sappiamo se Metal Gear Solid V: The Phantom Pain sarà davvero un addio alla serie. Se lo fosse sarebbe comunque un addio da ricordare poiché si tratta, senza mezze misure, di un ottimo gioco e di una sfida non da poco per il suo geniale creatore che abbandonando la “sicurezza” nel costruire ambienti chiusi e calcolati, sperimenta con successo la formula dell’open world, consegnando nelle mani del giocatore una mole di nuove possibilità che egli può percepire come no, così come può apprezzare o rifiutare. Di contraltare, The Phantom Pain è però un gioco con qualche magagna, tale da  poter lasciare una certa fetta di giocatori e fan con un retrogusto amaro in bocca. Su tutto c’è la trama, che nonostante un guizzo di folle genialità resta messa da parte per buona parte delle ore di gioco necessarie ad arrivare ai titoli di cosa, e demandata a pochi momenti davvero importanti, ma sin troppo frammentati nel corso delle numerosissime ore di gioco. Una lunga  sequela di nastri audio che, per quanto apprezzabili, rischia fin troppo di tediare il giocatore non basta a giustificare qualcosa che, di fatto, resta impalpabile e sin troppo sotteso. C’è poi quella ripetitività e quella mancanza di “estro” che aveva invece caratterizzato il passato della serie riconsegnando ad essa momenti iconici e indimenticabili e che qui non si traduce neanche nelle boss fight, di fatto ridotte all’osso.