L’altra faccia di Miami

L’inizio dell’anno è quasi sempre foriero di ottimi titoli, complice l’avvicinarsi della notte degli Oscar e le conseguenti uscite sul mercato statunitense.
Anche questa volta noi di Stay Nerd siamo andati a vedere, in anteprima per voi, un titolo tra i favoriti, con ben 8 nomination (Miglior film, regia, sceneggiatura non originale, attore non protagonista, attrice non protagonista, fotografia, montaggio e colonna sonora). Il film in questione è Moonlight, di Barry Jenkins, in uscita in Italia il 16 febbraio.

La storia segue le vicende di Chiron, un bambino  cresciuto a Liberty Square – parte del famigerato complesso di case popolari di Miami chiamato Liberty City. La vita in un quartiere povero e disagiato presenta già in partenza delle notevoli difficoltà: crescere come un bambino di colore che fatica a riconoscere la propria omosessualità in un ambiente totalmente asservito all’idea del maschio macho aggiunge al tutto un carico praticamente impossibile da sopportare.
Soprattutto se sei un bambino con le spalle piccole, taciturno e con una madre che si prostituisce per pagarsi la droga.
Questo è lo scenario che ci troviamo davanti nel giro di pochi minuti e che definirà il tono di tutta la pellicola.

Il film, la cui sceneggiatura è stata tratta da una piece teatrale, In moonlight black boys look blue, è articolato in tre parti, ognuna delle quali racconta uno specifico periodo della vita di Chiron: Little, ovvero l’infanzia; Chiron, l’adolescenza; Black, l’età adulta.
Come avrete facilmente immaginato leggendo finora, il film non è certo così facile da digerire: il condensato di difficoltà che il regista/sceneggiatore ha voluto caricare sulle esili spalle del protagonista (bravi tutti e tre gli interpreti, a proposito) viene alleggerito solo dalla presenza di qualche comprimario che prende Chiron sotto la sua ala protettiva.
Uno di questi è Mahershala Ali (Juan nel film), che nonostante la sua breve presenza in scena, è riuscito a rimanere impresso nei nostri ricordi – e nella vita del protagonista – in maniera indelebile. Un’altra è Teresa (la splendida e bravissima Janelle Monáe), la compagna di Juan che si troverà ad essere madre adottiva del bambino e consolatrice dell’adolescente. Sul fronte opposto, infine, troviamo Naomie Harris (candidata all’Oscar come attrice non protagonista), nella parte della madre tossicodipendente, con la bellezza che la contraddistingue nascosta sotto la rabbia, prima, e il rimorso poi, che solo una tossicomane può esprimere.

Se gli attori, soprattutto i comprimari, sono riusciti a imprimere al film una marcia in più, a dare veramente la svolta a Moonlight è stato il comparto tecnico.
La regia di Barry Jenkins
– alla sua seconda prova con il lungometraggio – costringe lo spettatore a entrare dentro la storia, letteralmente: le inquadrature non permettono mai allo sguardo di vagare sul panorama ma rimangono sempre strette, sui volti dei protagonisti, a sottolinearne le espressioni, o sui loro corpi, a marcarne le interazioni. In alcuni momenti ci è sembrato di assistere a un documentario più che a un film, con la telecamera che faceva avanti e indietro tra un attore e l’altro, quasi come si trattasse di un’intervista da reality. Se da un lato questa scelta ci mette – completamente – sulle spalle degli attori, sul versante opposto non permette all’altra protagonista – la città di Miami – di venire fuori, o di farlo solo in parte.

Siamo abituati alla Miami di Dexter, con i sobborghi ricchi e a prevalenza bianca, o a quella di Scarface, degli esuli cubani e della musica latina, e spesso dimentichiamo quanto questa città, come tutti gli Stati Uniti, siano un crocevia di culture e colori differenti. Moonlight ci mostra un altro volto ancora: il ghetto, lo slang familiare e della strada, e le atmosfere di cui è permeata. Nient’altro, non l’architettura, né le combinazioni di colore, né il paesaggio perché la macchina da presa si allontana solo un paio di volte dallo stretto necessario a raccontare la storia.

L’ultimo aspetto che ci preme sottolineare è la musica del film: Nicholas Britell (compositore della colonna sonora di 12 anni schiavo e La grande scommessa) è riuscito a evidenziare ulteriormente i cambiamenti fisici di Chiron, seguendoli e assecondandoli con le sue scelte musicali. Barry Jenkins, in un’intervista ha detto, a proposito della colonna sonora “Ascoltando la musica di Nicholas Britell immagino una Chevrolet Impala del ’74 con i cerchi da 28 pollici, che scende lungo Martin Luther King Boulevard sparando Bach, ‘chopped and screwed, a tutto volume in mezzo a Liberty Square”. Meglio di così non saremmo riusciti a dirlo.

Nonostante gli aspetti innegabilmente positivi di Moonlight – principalmente quelli legati ai comparti tecnici – il film, l’evolversi della storia e soprattutto la sua conclusione, non sono riusciti a convincerci appieno: la prima sensazione che abbiamo provato, una volta usciti dal cinema, è stata quella di aver visto un film incompiuto, in cui il regista ha raccontato un disagio molto forte senza mai arrivare al punto: quasi come se Chiron, schiacciato sotto il peso della madre tossicodipendente, della difesa dai bulli, dell’emarginazione e della mancanza di possibilità, non sia riuscito a focalizzarsi su cosa volesse veramente dalla vita e da sé stesso.

Conclusioni:

Moonlight è il secondo lungometraggio di Barry Jenkins: ambientato a Miami – e più precisamente nel complesso delle case popolari chiamato Liberty City – il film segue la crescita di Chiron, costretto a barcamenarsi tra una madre tossicodipendente e le angherie dei bulli. In un mondo che non prevede incrinature al modello di maschio alfa, Chiron faticherà ad ammettere e a convivere con la sua omosessualità. Un’ottima prova – soprattutto a livello tecnico – per il regista, il direttore della fotografia, il montatore e il compositore della colonna sonora, tutti candidati ai prossimi premi Oscar. Peccato per la sensazione di incompiutezza che l’opera lascia allo spettatore, caricandolo del disagio che l’intero tessuto sociale espelle con violenza, ma senza che Jenkins riesca a condensarlo nella maniera migliore.

Felice Garofalo
Fin da quando riesce a ricordare è stato appassionato di fumetti, di cui divora numeri su numeri con buona pace dello spazio in libreria, sempre più esiguo. Ogni tanto posa l’ultimo volume in lettura per praticare rigorose maratone di Serie TV, andare al cinema, videogiocare, battere avversari ai più disparati giochi da tavolo, bere e mangiare schifezze chiacchierando del mondo. Gli piace portare in giro la sua opinione non richiesta su qualsiasi cosa abbia visto o letto. Sfoggia con orgoglio le sue magliette a tema.