Nel mezzo di un gelido inverno…

Dopo un’attesa a dir poco spasmodica, Peaky Blinders ritorna su Netlix con una quarta, intensa, stagione. Dopo il finale della precedete, che aveva messo praticamente tutta la famiglia Shelby in gattabuia a causa dei sotterfugi di Tommy, Peaky Blinders ritesse le fila proprio dai drammatici giorni della prigione di Arthur, John, Polly e Michael. L’ultimo, ad esser precisi, prima che il cappio si stringa attorno al collo dei quattro facendoli penzolare dalla forca. Con un ritmo invidiabile, la squadra dello showrunner Steven Knight intesse già il primo episodio con attimi di pathos e tensione e, sorpresa sorpresa, risolve rapidamente i crucci della forca con un nuovo, machiavellico, piano di Tommy, un Cillian Murphy in costante stato di grazia nella serie che, a tutti gli effetti, gli restituirà in futuro ogni onore e gloria. La gattabuia archiviata, il cappio scansato, la famiglia spezzata. Peaky Bliders assume in questa stagione tutta la forma di un dramma familiare a tutto tondo. Siamo dalle parti dei Soprano, se qui il contesto non fosse completamente diverso e l’estetica non fosse, paradossalmente, più moderna e sconquassante. I Peaky sono divisi, separati dalla figura di un Thomas Shelby sempre più ingombrante, quasi mostruoso nell’aura che proietta sulla famiglia che, a parte droga, alcol e soldi, desidera “solo” uno status quo pacifico ai vertici del crimine inglese. Thomas desidera invece di più, e la quarta stagione ben tinteggia il dramma di un Icaro che sente la cera delle sue ali sciogliersi a mano a mano che si avvicina al sole. Tommy Shelby è questo, un Icaro che consapevolmente vola verso la morte perché non può fare altrimenti. Perché tanto, dice a se stesso, “io sono già morto e tutto quello che è venuto dopo è stato in più”. Una situazione che il resto della famiglia, tuttavia, fatica a comprendere, almeno all’inizio, quando alla fine della prima puntata di questa quarta stagione ogni certezza, ogni ipotesi di grandezza si scontra, inevitabilmente, con il dramma.

La minaccia, a questo giro, è quella di Luca Changretta, figlio di Vicente, il Boss italiano che Arthur aveva ucciso qualche tempo prima, in un misto di pietà e rancore. Luca, interpretato da un Adrien Brody da manuale, originario della Sicilia, naturalizzatosi newyorkese, porta la morte a Birmingham con uno squadrone di mafiosi come lui. “La Mano Nera”, si chiamano, e impongono subito a Peaky un regime di terrore ed ansia, che percorre come un fulmine nervoso ogni istante della stagione, e che in sole 6 puntate condensa fughe rocambolesce, incontri di pugilato, sparatorie, litigi, sesso, e nuove alleanze, come quella che a malincuore Tommy stringerà con la famiglia zingara dei Gold, capeggiata da un Aidan Gillen (il Ditocorto de Il Trono di Spade) sempre più a suo agio con personaggi oscuri e senza scrupoli. 6 puntate in cui i nostri esploreranno ogni forma scibile della vendetta, consumata come ci si aspetterebbe in una guerra tra cosche criminali. A margine tutto servito con una messa in scena magistrale nel suo saper ricostruire il fuligginoso carattere dell’Inghilterra di inizio novecento, tra Gin di contrabbando e cocaina, frastornata dallo spettro del comunismo che promette di agitare la Corona lì dove sono le sue viscere: tra le fabbriche, nei cantieri, nella lotta tra scioperanti e crumiri.

Al netto di un’estetica bellissima e di una colonna sonora coinvolgente e sempre indovinatissima, è nell’affiancamento delle tematiche più squisitamente sociali e politiche che Peaky Blinders si gioca il tutto e per tutto. Non distanziandosi da quel carattere che lo ha reso grande, ma accostando a questo, inizialmente quasi in sottofondo, l’aspetto più squisitamente politico del contesto storico in cui la serie compie i suoi passi. E così Thomas Shelby, e i Peaky Blinders tutti, si apprestano a compiere il nuovo cambiamento che li porterà a trovare un nuovo posto, il terzo per la precisione, nel contesto in cui le storie si muovono: quello politico. Quello scenario cupo, fatto di fantasmi al soldo di Churchill, che ad oggi aveva affiancato la narrazione dando solo un vago contesto alla situazione politica del tempo (salvo ovviamente quella che potevamo desumere da noi per mera cultura personale). Con la quarta stagione, invece, assisterete ad un percorso che piano piano culminerà in un grande, enorme cambiamento. Il tutto accompagnato dalla sfida dei Changretta, combattuta tra sguardo tagliente di Brody e quello vitreo di Cillian Murphy. Tra scazzottate e sangue, interiora e alcol. Violenta, drammatica, asfissiante come un giorno nel mezzo di un gelido inverno: la quarta stagione di Peaky Blinders è per certi versi la più complessa, la più sconquassante, la più “atipica” mai realizzata ad oggi e si divide tra momenti estremamente drammatici e momenti di amara malinconia, in cui i personaggi mostrano i lati più sileziosi dei propri caratteri, mostrando il fascio di nervi che c’è al di sotto delle fibre di muscoli, rendendo tutti, persino Tommy, più stanchi, quasi rassegnati al pensiero che tutto attorno agli Shelby è maledetto da uno spettro di morte. Perché non c’è felicità nella vita degli empi, neanche quando questi vorrebbero dare una volta (finanche religiosa) alle proprie vite.

All’inizio forse ne resterete quasi straniati, penserete che qualcosa nello show si è rotto, che non c’è più quella magia (zingara) che vi aveva conquistato dalla prima alla terza stagione. Poi finito il primo episodio vi ricrederete, chinerete il capo e amerete. Amerete la quarta stagione nonostante gli eccessi. Nonostante il terribile accento italiota di Adrein Brody (che a differenza dell’Alfie Solomon di Tom Hardy va caldamente ascoltato doppiato), nonostante gli stereotipi e le leggerezze. Amerete la quarta stagione di Peaky Blinders e pregherete che il 2019, anno in cui uscirà la quinta stagione, arrivi più lesto che mai. Nel mentre vivrete a cavallo di vita e morte, aspettando di andare avanti.

“e alla fine lo accettiamo.”