L’uomo, il suo superamento, la nuova mistica

Orbitante attorno alla Luna, baluardo dell’ambizione umana verso le stelle, Talos 1 è la più grande stazione spaziale mai costruita dall’uomo. Un leviatano di metallo, nelle cui viscere la TranStar, compagnia privata dedita alla ricerca ed allo sviluppo delle capacità umane, compie esperimenti sotto l’egida della famiglia Yu, alfieri di un complesso e controverso progresso dell’homo sapiens. Concepita dallo sforzo congiunti di Stati Uniti e Russia, che durante la Guerra Fredda inaspettatamente collaborarono in nome del futuro della ricerca spaziale, Talos 1 è dunque il baluardo dello sviluppo tecnologico, i cui esperimenti, in modo quasi archetipico per il genere sci-fi, finiranno per avviare il tipico e catastrofico disastro cui noi, come protagonisti, dovremo in qualche modo porre rimedio. La premessa sembrerebbe abbastanza semplice e asciutta, ma come invece capita per un certo tipo di fantascienza, le ragioni, le motivazioni, finanche le cause del disastro avranno alle spalle motivi ben più complessi e, per fortuna, meno banali. Talos 1, come Babele, si staglia verso il cielo con tracotanza, a comprova che l’uomo può sfidare Dio e la natura. Come Babele, Talos 1 è una torre di invidiabile bellezza, pronta a crollare sotto la sua stessa ambizione. Una caduta rovinosa, che porterà con sé la razza umana. Morente, ma sopravvissuta, che dopo il crollo della torre dell’arroganza ne rinascerà nuova e modificata, rinnovata. Evoluta.

La fantascienza è una nuova mistica, è la resurrezione della poesia epica: l’uomo e il suo superamento, l’eroe e le sue imprese, la lotta contro l’ignoto.

Era il 2006 quando il primo Prey (sul quale abbiamo redatto uno speciale dedicato, considerate le peculiarità che presentava) arrivò su console e PC e la reazione del pubblico fu quanto mai tiepida. Dobbiamo dare atto a Human Head Studio, il team originariamente dietro al progetto, di aver avuto una visione, quanto poi essa fosse sfocata e sotto quali acidi fossero gli sviluppatori non ci è però dato sapere. Prey era un miscuglio di idee, con un occhio rivolto alle atmosfere (o quanto meno al concept) di pietre miliari come Half Life, ma con uno sviluppo confusionario e raffazzonato. Indiani americani, allucinazioni mistiche, alieni e diverse divagazioni FPS erano solo la punta dell’iceberg di un titolo che, in ogni caso, non aveva dalla sua le carte in regola per decollare. Prey raggranellò la sua fetta di fan, questo è vero, ma nessuna sorpresa se il suo sequel, Prey 2, fu a lungo osteggiato e rimandato, finendo per assumere, come tanti altri, gli indefiniti contorni di un vaporware. Acquistato da Bethesda, Prey è ora nelle mani di Arkane Studios, semplicemente lo studio che ci ha regalato la splendida serie di Dishonored e che, con Prey, questo Prey, fa sostanzialmente tabula rasa del passato, lasciando al brand solo il pregio di rifarsi, e più spesso di citare, quello stesso Half Life (e non solo) che l’originale malamente scimmiottava. Prey comincia allora con un personaggio spaesato e confuso, in una situazione evidentemente fuori controllo. Armato di una chiave inglese in una sorta di certo ricerche: gli echi di Half Life sono così forti che si vive quasi un senso di déjà vu. Poi il gioco si apre, e ci si rende conto che le citazioni lasciano il posto ad una visione ragionata, per la precisione quella di un altro grande masterpiece in prima persona: il mai troppo apprezzato Bioshock di Ken Levine.

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Il Somnium della ragione…

Costruita per essere un bastione della tecnologia, Talos 1 è in realtà molto di più: è un vero e proprio excursus nel topos fantascientifico, da cui riprende molte delle simbologie del mito estrapolabili dalla letteratura e dal cinema di genere. Il primo e fondamentale pregio di Arkane Studios è forse proprio qui. Prey si diverte a costruire la summa della fantascienza, ripercorrendo buona parte dell’evoluzione del genere attraverso un uso intelligente delle componenti fondamentali del tema fantascientifico senza mai scadere nel banale citazionismo. Difficile spiegarlo senza che lo abbiate vissuto ma, detta in soldoni, è come se Talos 1 fosse stata edificata per illustrare la costruzione e l’evoluzione della narrativa spaziale in buona parte delle sue accezioni e, in tal senso, come un vero e proprio museo interattivo, si costituisce di diversi “reperti”, che assieme si fondono nell’ambiente di gioco. Dalla fantascienza dei primi anni ’50 sino alle più diverse declinazioni anni ’70, dalla critica dell’eccesso di Boucher alla dissimulazione della realtà di Dick, passando ovviamente per Matheson e Zelazny, sino alle più recenti ed iconiche opere cinematografiche tra cui, ovviamente, Alien.

Prey presenta al giocatore le evoluzioni del genere, tra costruzioni estetiche e narrative, accompagnate sempre da una musica calzante e avvolgente, fatta di rumori elettronici e sincopati, ad opera dell’immenso Mick Gorgon, che prima con Wolfenstein: The New Order ci aveva fatto innamorare, e poi con Doom ci aveva letteralmente stregati.

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…genera mostri

Tornando a Talos 1, è lo stesso fulcro della narrazione, nella sua asciuttezza, a fare da rimando a buona parte della narrativa di fantascienza. Morgan Yu, fratello di Alex, come lui nel direttivo della stazione spaziale, è un uomo solo contro una minaccia aliena che l’ha colonizzata. Le creature, i Typhoon, sono chimeriche e pericolose. Si nascondono negli anfratti bui della stazione. Si spostano costantemente emettendo rumori lontani, nel silenzio della nostra esplorazione, uscendo dalle “fottute pareti” quando meno ce lo si aspetta. Impossibile che, al di là di Half Life, non cogliate il riferimento a buona parte del cinema fantascientifico, che partendo dal succitato Alien fino al recente Life, ha fatto della minaccia aliena nello spazio la fortuna del fanta-horror più noto ed apprezzato. I Typhoon sono tanti, inarrestabili, spesso indefinibili e subdoli. I più piccoli di essi hanno la capacità di trasformarsi in buona parte degli oggetti presenti su Talos 1, dalle lampade alle scatole di proiettili, saltando fuori improvvisamente per attaccarcisi addosso (si, come dei Facehugger). I più grossi, come gli “Spettri”, battono i corridoi silenziosi alla ricerca di prede da annichilire. I più titanici e inarrestabili si stagliano infine al vertice della catena alimentare, condizionando mentalmente uomini e macchine o, peggio, figliando creaturine da lanciarci contro con uno scopo, ed uno soltanto: uccidere senza ragione, per un bisogno biologico e istintivo.

Morgan Yu si troverà dunque solo, inizialmente, nella sua ricerca della verità. Prey non scade nel banale e si prodiga di accompagnare il giocatore in una trama fitta ma sapientemente distribuita nel corso dell’intera avventura, cui è sottesa una lore complessa e ucronica in cui, tanto per fare un esempio, la politica mondiale è andata in direzioni diverse, specie grazie ad una differenza fondamentale avvenuta nel 1963. In questo scenario il nostro Morgan muoverà i suoi primi passi. Come per Bioshock, l’incipit di Prey è enigmatico, quasi “casuale”. L’idea è quella di ritrovarsi in una situazione assurda di punto in bianco, senza motivi, senza via di fuga. Ma poi, sempre come per il capolavoro di Levine, con il susseguirsi delle ore tutti i pezzi vanno al loro posto e si comprende che non c’è casualità, solo una complessa scacchiera di eventi che ha mietuto vittime e che richiederà, in ultima istanza, anche un certo numero di decisioni da intraprendere, liberamente.

Sono ore al cardiopalma. L’ansia e la paura di imbattersi nei Typhoon regna sovrana nel nostro peregrinare, specie constatando la scarsità dei nostri mezzi, inizialmente costituiti da una misera chiave inglese. I Typhoon possono essere dovunque, letteralmente. I corridoi cupi occasionalmente impreziositi da un certo gusto per l’art déco si fanno avvolgenti. Si comincia a dubitare di qualunque cosa e, spesso, si cerca di escogitare metodi per scoprire se si è in aria di minaccia aliena o meno. Potendo trasformarsi in qualunque cosa, un oggetto mosso o magari doppio instilla nel giocatore il dubbio. Si comincia a ragionare sulla posizione delle cose all’interno di una stanza. Ci si nasconde, si cercano strade alternative: si sopravvive.

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“Esistono infinite porte”

La prima parte del gioco ha un sapore quasi survival, rende la progressione lenta e cadenzata. Si cerca di tenere a mente la posizione di oggetti che non si può trasportare, si lavora di backtracking. La stessa trama sembra non andare da nessuna parte. Perché Morgan non ricorda nulla? Perché tutto ciò accade a lui? Di chi o di cosa può fidarsi? Catturati, rinchiusi, quasi coltivati come Trifidi, i Typhoon sono alieni dalla logica enigmatica. Si insidiano nei corpi umani che uccidono ed in cui proliferano. Assumono forme antropomorfe dal linguaggio confusionario e gutturale, si mimetizzano nell’ambiente. Talos 1, dapprima loro prigione, è ora il loro ecosistema primario. Come cellule di un cancro tumescente ne hanno contaminato le carni metalliche, e come un giudizio damocleo si preparano a piombare sulla Terra. L’incipit è un enorme vuoto di memoria, e toccherà a noi ricostruire il recente passato di Morgan, la cui mente è stata frammentata dall’uso smodato delle neuromod, nulla più che un ritrovato della scienza con cui si possono riscrivere pensieri e capacità fisiche, con cui sbloccare i più inimmaginabili poteri della mente umana.

Se percepite un retrogusto di plasmidi allora sappiate che siete sulla strada giusta. Quasi come Talos 1 non fosse altro che la visione al di là di una delle infinite porte dell’universo di Bioshock (“C’è sempre un faro. C’è sempre un uomo. C’è sempre una città”), Prey recupera dal succitato capolavoro buona parte delle sue intuizioni. I plasmidi distruggevano la mente di chi ne abusava e così anche le neuromod degli Yu. La mente di Morgan è divisa, vacillante, motivo fondamentale della sua amnesia cronica. Un vuoto che ricostruiremo per mezzo di video, flashback, ma anche solo leggendo i numerosi documenti disseminati nella stazione. Un vuoto che ci costringe a dubitare di tutti, di ogni informazione, di ogni personaggio, dello stesso protagonista che potrebbe essere, come no, un folle o un visionario.

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Con Morgan procediamo quindi a tentoni, ma più le ore passano, più la consapevolezza aumenta, più il gioco si prodiga di arricchire la sfida, di cambiare le carte in tavola, mettendo al centro un’invidiabile libertà esplorativa che ci permetterà, volendo, di venire a capo di un numero invidiabile di situazioni, divise tra missioni di trama e secondarie, queste ultime atte a conseguire il miglior finale possibile. Come Bioshock, non si tratta semplicemente di correre e sparare. Prey recupera dalla filosofia di Levine un profilo che fa di trama e coinvolgimento il suo fondamentale DNA. La libertà di scelta ed esplorativa è il mezzo con cui tutto ciò si sublima. Non esistono limiti irraggiungibili in Prey, solo assenza di strumenti per conseguire il proprio obiettivo. Ma state pur certi che quel che vi serve per andare avanti è nella stazione, da qualche parte, ed aspetta solo di essere trovato.

Tutto ha un senso, tutto ha un posto, e tutto si piega alla sperimentazione del giocatore, in modo invidiabile e “nuovo”. Morgan, nonostante una memoria fallace, è infatti dotato di un numero invidiabile di capacità umane e non, che grazie alle neuromod reperibili nel corso del gioco possono, a piacimento, essere affinate o espanse. Anche in questo senso il gioco propone una libertà assoluta, tanto che si potrebbe tranquillamente proseguire nel gioco senza sviluppare o apprendere alcuna abilità, munendosi solo di protettili e pazienza. Il sistema è complesso ma intuitivo e si ricollega al gameplay per mezzo di almeno un paio di intuizioni, prima delle quali la necessità di studiare e analizzare i nemici per mezzo dello Psiocoscopio, uno strumento che ci permetterà di tracciare, identificare e analizzare gli organismi alieni. Analizzare un Typhoon significa comprenderne forze e debolezze, ma soprattutto apprendere nuove abilità da sbloccare in appositi skill tree, o potenziarne di già note. Una pratica che, vista la ferocia e le capacità mimetica delle creature può spesso risultare difficile ma fondamentale. Non solo, gli alberi di abilità sono ben sei, divisi equamente tra umane e aliene. Scegliere se apprendere quest’ultime o potenziarle finirà per modificare il gameplay. In che modo, lo lasciamo scoprire a voi. Prey si prodiga insomma di dare un senso alla libertà di scelta del giocatore, non solo per mezzo di decisioni “banali” ed ovvie (lascia che un PNG muoia o viva), ma facendo sì che il giocatore familiarizzi con l’ambiente in modo sempre nuovo e dinamico. Una meccanica già sperimentata con Dishonored, e che con Prey viene eccezionalmente sublimata ed arricchita da un level design dalla cura maniacale.

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Citare i pregi, ereditare i difetti

Si è a lungo citato Bioshock in accezione positiva, e sdarebbe stato fantastico se ci fossimo fermati qui, ma la dura verità è che Prey eredita in modo apocrifo anche i difetti della sua ispirazione, in primis con il suo problema più grande: le fasi di shooting. Tutto quel che c’era di sbagliato e antiquato in Bioshock, in Prey viene riportato in scala 1:1. Morgan è impacciato, lento, praticamente ligneo nei suoi movimenti. La risultante è che le fasi shooting sono spesso frustranti e mal gestite, a prescindere dalla bocca di fuoco e dalla sua potenza. Il sistema è semplicemente impreciso e caotico e dà il peggio di sé quando ci si trova in situazioni a gravità zero, in cui non essendo ancorati al suolo si è vittime dell’assenza di un preciso asse orizzontale. La risultante è che, armati fino ai denti e di tutto punto, potreste finire per lasciarci comunque la pelle, vittime della più insulsa genia Typhoon. Specie in situazioni concitate è infatti difficile venire a capo dell’azione e si finisce, il più delle volte, per utilizzare un numero esagerato di proiettili per meri problemi di programmazione. Il che, in un gioco che ha comunque un animo survival, non è proprio il massimo. La situazione, come accadeva anche per Bioshock, migliora quando si utilizzano i poteri extra-umani, specie grazie ad un sistema di mira più “permissivo” o all’uso di un raggio d’azione ampio e devastante, ma ancora una volta il peggio di questa filosofia viene ereditato dall’opera di Irrational nelle fasi più avanzate del gioco. Enorme difetto di Bioshock era infatti il progressivo ammorbidimento della sfida, che verso la fine ci vedeva non più vittime dei nemici ma carnefici, complici le innumerevoli armi reperite e l’ottenimento di poteri sempre più soverchianti. In Prey, purtroppo, accade lo stesso, e potenziare armi e poteri trasforma l’angoscia di incontrare un Typhoon in una progressiva indifferenza. Probabile che l’intenzione fosse di spostare la prospettiva sul senso della “caccia” (prede noi, prede loro) ma la risultante è un po’ fiacca, e, a dispetto delle prime ore, se ne avverte il peso.

Anche sotto il versante tecnico, Prey non riesce proprio a dare il meglio di sé. Nonostante una direzione artistica bellissima e ricercata, che mescola velleità art déco ad un certo gusto per la fantascienza post New Wave, Prey è tecnicamente povero e per lo più datato. Come Dishonored 2 il gioco si mostra più pomposo che pulito, complici modelli poligonali a tratti imbarazzanti e buona parte delle texture a bassa risoluzione o comunque soggette ad un fastidioso pop-up. Il risultato è, per certi versi, spiazzante, messa da parte la limitatezza del motore proprietario utilizzato per Dishonored 2, anche Prey, pur girando con il Cry Engine di Crytek, dimostra quanto Arkane sembri incapace di dare il meglio sul fronte visivo. I modelli, dunque, per quanto magari protagonisti persino di missioni secondarie o dialoghi fondamentali, finiscono per sembrare quasi abbozzati e fuori posto. Peggio che mai quando, durante un dialogo, sono talvolta privi della definizione delle texture di abbigliamento o degli accessori. In questo quadro abbastanza disastroso, il gioco carica ulteriormente la frustrazione dell’utente con una serie di caricamenti francamente lunghissimi e ingiustificati. Passare da un’area all’altra di Talos 1 significa infatti sorbirsi non uno, ma ben due caricamenti di fila, per motivi che a tutt’ora non abbiamo compreso.

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Decisamente di altro livello l’ambientazione, la sua costruzione e le diversità con cui l’intera Talos 1 è stata costruita. Come detto in apertura, Prey è praticamente un vademecum del topos spaziale, e ciò viene ricalcato anche ideologicamente dal background della stazione spaziale, costruita in oltre mezzo secolo con una struttura stratificata, le cui aggiunte più vecchie si susseguono alle più moderne con un conseguente cambio nello stile di architetture ed orpelli. Un vezzo artistico non da poco, a cui si accompagna un numero di oggetti con i quali interagire praticamente impareggiabile e assolutamente “giustificato” dalle capacità di mimesi dei Typhoon.

Non da meno gli effetti particellari, praticamente legati alla sola presenza dei Typhoon, che nelle loro interazioni “elementali” si divertono nel tripudiare di fuochi e lampi elettrici o a sparire e riapparire come autentici spettri. Il resto è semplicemente “funzionale”, più che estetico, ed offre poco più che qualche massa informe di polveri e poco più. Infine, ma giusto per dovere di cronaca, il gioco è praticamente ingiocabile senza la doverosa patch del day one. Sprovvisto di essa il gioco presenta infatti numerosi difetti relativi a freeze ed errori di download. Può succedere persino che il gioco si riavvii senza motivo, con conseguente perdita di salvataggi al checkpoint. Il consiglio è dunque di giocare a Prey dopo il download della patch, grazie al quale è stata risolta la stragrande maggioranza dei difetti maggiori.

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Verdetto

Prey non è uno sparatutto, pertanto lasciate perdere se avete in mente una versione fantascientifica di un Call of Duty a caso. Prey è più che altro un’esperienza, viscerale e ritmata, che vi trasporterà in un universo fantascientifico di altissimo livello in cui azioni, trama e gameplay si mescolano con invidiabile naturalezza. Non solo, Prey è forse l’ultimo e più moderno erede di una scuola di pensiero che partendo da System Shock, passando per Half Life e stazionando per Rapture, ha portato infine su Talos 1. Prey non è un emulo dei succitati, ne è l’evoluzione, il nuovo e tanto (troppo) atteso step di un ludotipo ragionato e troppo spesso solamente citato, ad esempio, come nota a margine della storia. Rifiutando nettamente la classificazione di FPS, Prey è più precisamente un’avventura interattiva dalla forte componente survival in cui le sezioni di shooting, per quanto inevitabili, sono solo un companatico funzionale all’azione e non il suo fulcro fondamentale. Prey è dunque un prodotto sfaccettato e trascinante, un po’ gioco di ruolo, un po’ survival horror, un po’ adventure, che fa dell’alchimia di generi il suo paradigma fondamentale, secondo quella che è ormai la rodata tradizione di Arkane Studios. Un team a cui vanno i nostri complimenti, le nostre riverenze e la meritata ammirazione di buona parte del settore. Prey è il baluardo di come, senza necessariamente innovare o inventare, si possa creare un mix dalla genuina freschezza, dotato di tutto quel che serve per tenerci incollati allo schermo: classe, verve, inimitabile astuzia narrativa. La stele di Rosetta per codificare una nuova mistica.