Più cafone di Resident Evil 6

Sesto e ultimo film della saga cinematografica ispirata all’omonimo videogioco cominciata nel 2002, The Final Chapter chiude, finalmente aggiungerei, le gesta di Alice (Milla Jovovich) e la sua lunga battaglia contro la Umbrella Corporation. Avevamo lasciato con la quinta pellicola un mondo totalmente invaso dalle spaventose armi biologiche create dalla machiavellica corporazione, e ritroviamo dopo un lasso di tempo non ben determinato, la nostra protagonista sopravvissuta all’apocalisse e ancora alla ricerca di una soluzione, nonostante ormai l’intera popolazione mondiale sia stata decimata e rimangano in vita solo poche migliaia di persone in tutto il globo.

The Final Chapter offre nel suo incipit una specie di riassunto per chi si fosse perso, o non ricordi, tutti i vari step dell’epopea di Alice, ma si concentra più che altro sulle cause che hanno portato alla diffusione del virus T e sulla figura del villain principale, il Dr. Alexander Isaacs, fondatore della Umbrella, “skippando” velocemente tutti i vari eventi delle 5 pellicole precedenti, e lasciando un po’ confusi quelli che non si ricordano ogni singolo dettaglio accaduto o emerso nell’arco della saga. Poco male, perché alla fine, The Final Chapter è un film abbastanza lineare, senza troppi riferimenti, se non quelli principali, agli altri capitoli, che fortunatamente fa tabula rasa di improbabili comparse pescate dall’iconografia della serie videoludica (che personalmente mi sono sempre sembrati dei brutti cosplayer caratterizzati in maniera molto superficiale) ad eccezione di Claire Redfield, che forse in effetti, era uno dei personaggi un po’ più riusciti. Il film mette subito in chiaro quale sarà il taglio di The Final Chapter, con una sequenza iniziale rocambolesca che mette in mostra quell’azione super estremizzata e anche un pochino surreale che è un po’ la cifra stilistica del regista Paul W. S. Anderson.  Il mood del film sarà questo fino alla fine, ma almeno a differenza dei capitoli precedenti, l’azione non tocca i picchi grotteschi degli ultimi capitoli, i quali finivano effettivamente per overdosi di “tamarragine”. Intendiamoci, non che The Final Chapter si risparmi da questo punto di vista ma, complice una minore dispersione narrativa (Alice deve tornare all’Alveare, laboratorio da cui tutto è cominciato e trovare l’antivirus, punto) e la concentrazione su molti meno personaggi, in qualche modo riesce a recuperare un po’ di quell’atmosfera dark che dopo i primi due film si era completamente estinta. In effetti, per quanto il film sia totalmente digitalizzato, non sfigura dal punto di vista squisitamente tecnico.

Le scenografie sono ben realizzate, gli effetti visivi di zombie e mostri assortiti anche, e la fotografia per quanto un po’ pacchiana con quelle saturazioni tagliate proprio con l’aceta, tutto sommato ha ragion d’essere visto il contesto e la natura del film. Quello che piuttosto può dare fastidio, è proprio la realizzazione delle scene d’azione, non tanto a livello coreografico, invero anche ben realizzate, ma proprio a livello di regia. Anderson infatti ha il brutto vizio di dirigerle con un montaggio forsennato, in cui anche un semplice pugno in faccia o una capriola mostrati con una sequenza di 2 secondi, viene ripresa mediante mille inquadrature diverse alternate alla velocità della luce. Un espediente magari buono in qualche caso, per rendere la scena particolarmente concitata, ma che ripetuto in ogni singola sequenza di questo tipo -e come potete immaginare ce ne sono parecchie- confonde, ti rincoglionisce un po’, e rende tutto poco leggibile. Anche a livello narrativo, il film mostra il fianco a delle ingenuità di scrittura notevoli, che perdono di rilevanza solo in virtù della natura totalmente “contemplativa” e disimpegnata della pellicola. I pochi nodi della trama infatti vengono trattati alla stregua di quanto si fa nel medium a cui si ispira il film, il videogioco. Ma non parlo dei videogiochi moderni e della maturità narrativa che hanno ormai raggiunto, ma quelli di 20 anni fa, in cui con 2 righe di testo e attraverso dialoghi super didascalici, ti fornivano le poche informazioni necessarie per cominciare la missione/livello. Ecco The Final Chapter è questo, non si perde certo in chiacchiere ed è sempre diretto nel districare i (pochi) intrecci della trama, a scapito della credibilità effettiva delle vicende.

Questo spesso e volentieri svilisce anche i pochi momenti vagamente drammatici. I personaggi stessi sono poco più che sagome di cartone animate in maniera rozza attraverso dialoghi banali e una caratterizzazione ad dir poco superficiale. Si può fare un’eccezione giusto per Alice e il Dottor Isaacs, che risultano estremi, non esattamente approfonditi, e stereotipati, ma comunque in qualche modo riescono a trasmettere un certo carisma e personalità. Giunti all’epilogo, in cui quanto meno e incredibilmente si viene sorpresi con un paio di colpi di scena tutto sommato riusciti, rimane la sensazione dolce amara di essersi divertiti con poca sostanza, molta poca e prettamente disimpegnata, ma sufficiente ad arrivare ai titoli di coda senza farci sbirciare più di tanto l’orologio.

Conclusioni

Resident Evil: The Final Chapter è un decoroso epilogo per una saga cinematografica sostanzialmente mediocre, dalla quale era evidente non ci si potesse aspettare più di tanto. Quanto meno in chiusura, il regista Anderson è riuscito un pochino a contenere le maggiori brutture dei film precedenti concentrandosi in quello che gli riesce meglio. Da un punto di vista “artistico” in ogni caso, a The Final Chapter rimane solo il merito di una buona creatività scenica nella costruzione dell’azione e un paio di brevi momenti coinvolgenti. Tutto il resto è sospeso in quel limbo di mediocrità, quel purgatorio dei film d’azione troppo brutti per essere promossi pienamente ma non così mal realizzati da meritarsi una drastica bocciatura. Ci pensa la bella Milla Jovovich a strappare la sufficienza al film, che riesce in qualche modo a farci affezionare, grazie alla sua performance fisica e al naturale carisma del suo sguardo, ad un personaggio femminile “badass” come pochi altri ne abbiamo visti in questo genere di film. Ah, se decidete di vederlo, risparmiate pure i soldi della versione 3D visto e considerato che è veramente inutile e mal sfruttata.

Davide Salvadori
Cresco e prospero tra pad di ogni tipo, forma e colore, cercando la mia strada. Ho studiato cinema all'università, e sono ormai immerso da diversi anni nel mondo della "critica dell'intrattenimento" a 360 gradi. Amo molto la compagnia di un buon film o fumetto. Stravedo per gli action e apprezzo particolarmente le produzioni nipponiche. Sogno spesso a occhi aperti, e come Godai (Maison Ikkoku), rischio cosi ogni giorno la vita in ridicoli incidenti!