Il ritorno di un grande classico del videogame

A che età avete giocato per la prima volta a un videogame? E su cosa? Arcade? Game Boy? Oppure, come me, con il Commodore 64? La prima volta che presi in mano un joystick ero un bambino di cinque o sei anni. Ho provato con mano “capolavori” ormai dimenticati. Pac-Land era uno di questi, dove l’amato pallino giallo si aggirava per il mondo con cappello e cravatta o, sullo stesso tema, Pac-Mania, versione con 3D isometrico dell’amatissimo gioco, complicato da quei maledetti fantasmini verdi che prendevano il tempo per saltare all’unisono col giocatore e acchiapparlo a mezz’aria. Tra i vari titoli che mi hanno accompagnato in quegli anni ce ne furono due in particolare a colpirmi e, da un certo punto di vista, a condizionarmi. Furono, tra le varie cose, uno dei miei primi approcci a un genere, quello fantasy, che anche oggi costituisce uno dei capisaldi del mio “essere” nerd. Da un lato c’era l’avventura testuale de Lo Hobbit, per quanto all’epoca non fossi consapevole di cosa avrebbe significato per me il mondo di Tolkien; dall’altro un titolo che forse molti ricordano con un misto di affetto e odio, ovvero Shadow of the Beast.

I ricordi di quel gioco sono ormai lontani, si parla di oltre vent’anni fa, tuttavia ricordo che ciò che mi colpì all’epoca era l’impatto visivo; Shadow of the Beast nella sua prima incarnazione era un videogiogame incredibilmente colorato pure per gli standard del Commodore, e con delle musiche stupende, che accompagnavano il videogiocatore e Aarbron in cerca di vendetta (e di umanità). Non credo di sbagliare se affermo che le mie prime ingenue imprecazioni fanciullesche siano dovute a questo videogame. Tra i ricordi più nitidi c’era l’effettiva difficoltà, le schermate di testo in inglese, tradotte alla bene e meglio dal parentado che assisteva alle mie sessioni di gioco, e quei dannati massi simili a “palloni da spiaggia” che ogni tanto bersagliavano il protagonista, intento a scazzottarsi con cobra, vespe giganti e colossi in armatura.

Gore

Si può quindi ben immaginare la mia reazione quando qualche anno fa mi ritrovai davanti al fatto compiuto: Shadow of the Beast sarebbe tornato su PS4. Da un lato il mio primo pensiero è stato quello di racimolare i soldi per la nuova console, dall’altro invece nacque quel sentimento di dubbio comune a tutti i videogiocatori di fronte al remake di un’opera tanto amata e giocata nell’infanzia: sarà un bel risultato, oppure un flop che macchierà la storia del franchise? Quando si punta sul fattore nostalgia la reazione non può che essere questa. Finisco sempre per domandarmi se sarò obiettivo, se saprò apprezzare il titolo per quello che effettivamente è in fatto di intrattenimento videoludico o se sarò preda di quell’effetto “da bambino le caramelle erano più buone”, valutandolo con saccenteria e rinnegandolo. Perché è chiara una cosa, questo Shadow of the Beast strizza volutamente l’occhio agli amanti del retrogaming, a quella generazione che a inizio anni novanta si era appena affacciata al mondo videoludico, proponendole, venticinque anni dopo, il remake di un titolo se non giocato quantomeno conosciuto. In passato operazioni del genere, seppur tra alti e bassi, hanno avuto anche un certo successo e Shadow of the Beast si spera possa essere, proprio come in passato, capostipite di una serie.

shadow of the beast

Ma si sta correndo troppo, ed è meglio andare avanti con ordine. Da quanto visto fin’ora, la storia seguirà molto probabilmente quella originale. Ci troveremo così di nuovo a vestire i panni di Aarbron, rapito da bambino e trasformato in un mostro. Aarbron si ribellerà al suo padrone, Lord Maletoth, sul quale però non sono ancora trapelate informazioni. Sarà perciò uno dei punti di maggiore interesse vedere come verrà riproposta la trama nel 2016. Sicuramente l’ambientazione che fa da sfondo all’intera vicenda verrà svelata nel corso del gioco, durante il quale dovremo raccogliere delle sfere profetiche per svelare i segreti del mondo di Karamoon e del protagonista Aarbron. Sono d’obbligo, a questo punto, due parole sul personaggio principale. Aarbron ci appare sapientemente innovato senza che la sua figura classica ne sia stata stravolta. Ciò che spicca, rispetto al personaggio del 1989, sono gli artigli “alla Wolverine”, funzionali non solo al combattimento ma anche ad altre meccaniche di gioco (come la scalata). Di sicuro l’impatto visivo colpisce con un protagonista dalla forte presenza scenica, per quanto la combinazione “schinieri/gonnellino/tatuaggio” sappia di già visto nella storia recente dei personaggi videoludici. Visionando i filmati trapelati sul titolo la primissima cosa a colpire in realtà non è l’aspetto di visivo: si chiudono gli occhi e si ascoltano di nuovo quelle musiche, composte sempre da David Whittaker, come nell’originale del 1989.

shadow of the beast

Altra cucchiaiata di nostalgia… il secondo step sono le ambientazioni. La versione Amiga del gioco vantava già all’epoca sfondi dotati di una gamma di colori molto più variegata rispetto agli standard dell’epoca. Ci troviamo così in sotterranei oscuri, dove statue di mostri giganti si animano all’improvviso, foreste e deserti sconfinati. Gli ambienti fanno da sfondo a quella che è la schermata di gioco vera e propria, un parallax scrolling che va a costituire un platform vecchio stile, reso però decisamente più dinamico grazie al supporto del 3D e a delle buone cutscenes che fanno da intermezzo alle varie ambientazioni. Non ci troveremo di fronte a stacchi improvvisi come i platform di vecchia generazione, ma ci sembrerà di assistere a un unico grande spettacolo, donando al videogiocatore quella sospensione dell’incredulità necessaria a un maggior coinvolgimento. Un platform, fatto e finito, quindi? Non è così semplice. Perché, d’accordo, la visuale è il classico 2D/3D, che pare aver trovato nuova linfa vitale negli ultimi anni, e trappole da evitare, muri da scalare grazie all’aiuto degli artigli e varie piattaforme su cui lanciarsi per evitare fossati che aspettano solo la nostra bestia, ma il gioco combina anche elementi tipici dei giochi di azione dinamica in terza persona. I combattimenti, tutti conditi con una bella dose di gore, decisamente azzeccata vista l’ambientazione, non si presentano affatto come statitici e ripetitivi: in alcuni casi il nostro protagonista potrà lanciarsi all’attacco, effettuando delle combo che gli permetteranno di eliminare gli avversari rapidamente e accrescere il punteggio, caricando contemporaneamente la barra della Blood Rage, la quale, una volta attivata, consentirà l’attivazione di un Quick Time Event che permetterà al giocatore di eliminare più rapidamente un gran numero di nemici.

shadow of the beast

Nei vari filmati abbiamo visto anche Aarbron usare diversi tipi di magia, sfruttando fiammate, cloni d’ombra o facendo apparire spunzoni sull’intero schermo, il tutto funzionale all’aumento di punteggio del gioco per la classifica online. Se da un lato sembrano essere state accantonate le tipiche combinazioni di attacco leggero/attacco pesante caratteristiche di molti titoli del genere, Shadow of the Beast sembra prendere a piene mani da titoli come Dark Soul, in cui il giocatore è chiamato ad affinare le tattiche a seconda dei nemici che si trova di fronte, focalizzando l’attenzione su due diversi sistemi di combattimento: la parata, con la quale si potrà sbilanciare il nemico per stordirlo e attaccarlo frontalmente, e la schivata, che permetterà ad Aarbron di superare le difese avversarie per colpire il nemico alle spalle, là dove fa più male. In tutto questo, il nostro protagonista avrà a disposizione una barra della vita limitata, che gli consentirà di essere colpito un massimo di dieci volte indipendentemente dal nemico, finita la quale il giocatore si troverà di fronte a tre opzioni possibili: usare un elisir per ingannare la morte, sfruttare la magia nera per vivere ancora “consumando un anima innocente” o ricominciare il livello.
Shadow of the Beast ci appare quindi come un gioco capace di combinare elementi di vecchia e nuova generazione. Nonostante l’evidente tentativo di sfruttare la nostalgia (canaglia) sui giocatori formatisi nei primi anni ’90, presenta dinamiche di gioco che potrebbero risultare accattivanti anche alle nuove leve, permettendogli di immergersi in un’ambientazione fantasy ricca e piacevole. Oltretutto: quanti dei vecchi giocatori erano riusciti a finire il gioco originale? Io non ce l’ ho fatta. Così, ancora oggi c’è un vecchio conto da saldare tra me e Aarbron.

Federico Galdi
Genovese, classe 1988. Laureato in Scienze Storiche, Archivistiche e Librarie, Federico dedica la maggior parte del suo tempo a leggere cose che vanno dal fantastico estremo all'intellettuale frustrato. Autore di quattro romanzi scritti mentre cercava di diventare docente di storia, al momento è il primo nella lista di quelli da mettere al muro quando arriverà la rivoluzione letteraria e il fantasy verrà (giustamente) bandito.