Le dimensioni contano, ma non bastano…

C’è una cosa che accomuna due paesi così agli antipodi, letteralmente, come Cina e Stati Uniti: le cose fatte in grande. Gli americani vantano record per le cose enormi in generale, siano essi grattacieli, opulente città del vizio in mezzo al deserto o altro ancora. Quanto alla Cina, basta menzionare la Grande Muraglia, un muro di quasi 9.000 chilometri la cui costruzione ha richiesto oltre 1700 anni e che tuttora è una delle opere antiche dell’uomo più sorprendenti di sempre.

Cosa può succedere, dunque, se Cina e Stati Uniti collaborano insieme, magari per un film? Esatto: The Great Wall, una titanica joint venture da 135 milioni di dollari con alla regia un mostro sacro del cinema orientale, Zhang Yimou, ed un cast che pesca tra i migliori interpreti del cinema americano regalandoci un’esperienza enorme… ma insoddisfacente, come andremo a spiegarvi.

Siamo nell’era della dinastia Song: William (Matt Damon) e Tovar (Pedro Pascal) sono due mercenari europei giunti in Cina alla ricerca della polvere nera, una misteriosa arma dai poteri sensazionali. Durante il loro viaggio, si imbatteranno nella Muraglia, centro di comando di una guerra tra l’impero e i Tao Tei, creature demoniache che ogni 60 anni escono da un misterioso meteorite. Il loro arrivo è legato alla cattiva condotta di un sovrano che mise l’avidità sopra ogni cosa e per combatterlo fu fondato l’Ordine senza Nome. I due occidentali prenderanno così strade diverse, tra William che sposerà la causa cinese grazie anche alla fermezza del Comandante Lin (Jing Tian) e l’ambizione di Tovar di mettere le mani sulla polvere nera e convinto da Ballard (Willem Dafoe), un commerciante anche lui imprigionato nella Muraglia.

L’introduzione dell’articolo dovrebbe avervi fatto capire sin da subito gli elementi su cui The Great Wall punta e, di base, li centra pure: la spettacolarità del film è palpabile in ogni scena d’azione e di guerra con ampie visuali, un campo di battaglia sempre ricco con armi che sfiorano l’incredibile e che lo superano in diversi frangenti, esaltando anche troppo spesso alcuni momenti concitati con un bullet time degno di Matrix. Tuttavia, a mancare è un po’ tutto il resto: la sceneggiatura si adagia su qualunque cliché possibile, rendendosi molto presto prevedibile e ovvia, una cosa che stupisce soprattutto se si pensa alla sotto-trama del film, dove la guerra si tramuta in una lotta molto più umana ed emozionale, dove l’ambizione è spesso deleteria e non porterà mai a nulla di buono.

Laddove la fotografia esalta con magniloquenza ogni fotogramma, evidenziando le sgargianti uniformi dei soldati cinesi e donando un impatto non da poco, nella sostanza troviamo invece un film piatto e insipido, abbastanza da rendere impalpabile anche l’interpretazione dei vari personaggi. Matt Damon ovviamente fa il suo, senza infamia e senza lode, adombrando il povero Pedro Pascal, confinato ad interpretare una sorta di Javier Peña in formato macchietta che comunque riesce a svettare. No comment invece per Dafoe, attore incredibile infilato in questo mucchio selvaggio più per motivi di visibilità che per la necessità di avere un bravo attore tra i piedi. Quanto a Jing Tian, la sua interpretazione rimane modesta e incolore, al contrario del blu elettrico della sua divisa militare.

Anche sul piano tecnico il film soffre, lasciando intravedere l’inesperienza del regista alle prese con un blockbuster più grande di lui: Zhang Yimou dirige con gusto e con un’attenzione ai particolari evidente ma nulla può contro le esagerazioni della CGI, il cui abuso è talmente evidente da rovinare in sua presenza l’epicità di diverse scene. Altra tegola è inoltre il 3D, talmente poco sfruttato da poter essere considerata una feature inutile. Il sonoro si rivela invece godibile, per quanto riguarda effetti e simili, molto meno per la colonna sonora di Ramin Djawadi, creata cercando di sfruttare elementi sinfonici e orientali in un mappazzone che non rende giustizia all’autore delle soundtrack di Game of Thrones e Westworld.

Verdetto

Impossibile dunque considerare The Great Wall un buon film, piuttosto è un’operazione imponente di marketing che, molto probabilmente, renderà più ai paesi che vi hanno collaborato che agli spettatori del resto del mondo. Di alternative a questo film ce ne sono a bizzeffe, magari meno spettacolari ma narrativamente molto, molto più interessanti. Perché come anticipavamo le dimensioni contano, sì, ma non sempre bastano a colmare altri vuoti. Ed è un vero peccato aver mancato un’occasione d’oro fornita di tutte le premesse, in maniera così superficiale. Se fosse stato investito più impegno nell’impianto narrativo, anche in nome di un pizzico di spettacolarità in meno, avremmo potuto assistere a un grande film, invece che solo ad un film grande.

Francesco Paternesi
Pur essendo del 1988, Francesco non ha ricordi della sua vita prima del ’94, anno in cui gli regalarono un NES: da quel giorno i videogiochi sono stati quasi la sua linfa vitale e, crescendo con loro, li vede come il fratello maggiore che non ha mai avuto. Quando non gioca suona il basso elettrico oppure sbraita nel traffico di Roma. Occasionalmente svolge anche quello che le persone a lui non affini chiamano “un lavoro vero”.