Otto pareri sul gaming open world

Otto teste calde di Stay Nerd si riuniscono oggi per discutere di una tendenza fattasi sempre più presente in ambito videoludico: quella dei titoli open world. Soltanto negli ultimi quindi giorni, se ne contano tre, di grande produzione (The Legend of Zelda: Breath of the Wild, Horizon Zero Dawn, Ghost Recon: Wildlands), e tantissimi altri se ne prospettano per il futuro, così come quelli che li hanno preceduti nel passato. Ma cosa suscita, o dovrebbe suscitare, davvero un open world? Cosa significa costruirne uno e quali direttive bisognerebbe seguire? Sentiamo cosa hanno da dire al riguardo gli “odiosi otto”…

Davide Salvadori

La questione è presto detta: ben vengano i giochi open world quando sono belli e ben realizzati. È sempre stato così e sempre lo sarà. Il “problema”, semmai, lo abbiamo quando l’approccio al mondo aperto viene utilizzato dagli sviluppatori come unica forma di espansione verso le proprie idee di game design. Con l’era PS4/Xbox One, tutto è diventato open world, anche generi di giochi che prima nulla avevano a che fare con questa struttura. La cosa a volte è positiva, come per Uncharted 4 che ha saputo dosare bene e con il contagocce gli spazi da aprire, e a volte negativa, come per Mirror’s Edge Catalyst, in cui il “di più” nato dal mondo aperto è abbastanza inutile e annacqua l’esperienza. I giochi open world hanno un po’ fagocitato tutta l’industria del videogioco, e se da una parte siamo riusciti ad avere grandi eccellenze in tal senso, come Horizon Zero Dawn o il nuovo sorprendente Zelda, dall’altro personalmente comincio a stufarmi di andare in giro a pascolare per prati fioriti. Per questo spero che il trend finisca per riassorbirsi e riportare l’attenzione anche su giochi più lineari ma che lascino aperte le possibilità per gameplay sempre più profondi e precisi, storie ben raccontate e una qualità del tempo passata davanti allo schermo sempre migliore, senza fare troppe cose noiose e repetitive. Perché questa è un po’ la generazione dell’andare a funghi e delle cavalcate infinite, e finito l’effetto wow, comincia l’effetto sbadiglio…

Andrea Giovalè

Open world sì? Open world no? La risposta più antipatica che si possa dare è, probabilmente, anche quella giusta: dipende. Negli ultimi tempi costruire giochi open world sembra essere diventato ingrediente necessario per la ricetta del capolavoro. Gli esempi più brillanti, sotto gli occhi di tutti, ma anche i vari brand Ubisoft, e tante altre piccole gemme o patacche, a seconda del risultato… sono tutti open world. La verità è che un gioco open world non ha, di per sé, vantaggi di partenza sugli altri, tanto più che costruirne uno è molto più difficile di consegnare un titolo story driven dalla progressione semi-lineare. Ma, c’è un ma, un open world tende a essere esentato di default da una grossa necessità del gaming: la storia. Giusto fare open world, quando si sposa con la direzione artistica e narrativa di un gioco, ma ciò non deve, e il rischio esiste, diventare un alibi per la mancanza di una trama più stringente e appassionante. Horizon Zero Dawn è un eccellente compromesso tra le due cose, e si è detto spesso che The Legend of Zelda: Breath of the Wild racconti una storia universale. Buon per loro, a loro è riuscito il miracolo. Ma a Ghost Recon: Wildlands? A Final Fantasy XV? A No Man’s Sky? Abbiamo già rinunciato a raccontare una storia “particolare” e perfetta? The Last of Us 2, la speranza ricade sulle tue mani insanguinate, non metterci troppo.

Federico Barcella

L’universo videoludico è forse uno dei più variegati, in termini di generi e sottogeneri. Tra questi, spicca in modo particolare quello che, personalmente, ritengo sia da considerare un genere a parte: gli open world. Da sempre i giocatori chiedono “più libertà” nei videogiochi, e le software house tentano di accontentarli sviluppando titoli sempre più ricchi di scelte, possibilità, attività primarie, secondarie e, perché no, anche terziarie. Ed è così che s’investono 50/60/70 euro in un gioco che tiene impegnati per mesi, se non per anni interi. Ormai quasi tutti i franchise hanno un loro titolo open world e molti di questi si dimostrano degni d’appartenere a tale categoria, come visto di recente con Breath of the Wild. Altre volte, invece, ci si ritrova con dei simil-oper world – o degli open world con dei limiti, se volete – nei quali anche la semplice esplorazione viene in qualche modo limitata. Personalmente, quando scelgo di acquistare e giocare un open world, voglio poter decidere liberamente il mio cammino. Voglio essere libero di scalare la vetta più alta del gioco, o esplorare la mappa per ore intere, per il mero gusto di farlo o per sentirmi dire dal gioco “sei arrivato ai limiti del mondo”. Giocando un open world, ci si deve sentire un po’ come Ulisse, Marco Polo o Cristoforo Colombo. Si deve avere la libertà di esplorare l’intero mondo di gioco, senza essere limitati da alcunché. Solo allora si avrà la certezza di essere davanti ad un autentico, e degno di tal nome, open world.

Pasquale Sada

Ultimamente ho giocato quasi esclusivamente cosiddetti open world: dall’ultimissimo No Man’s Sky a Skyrim Online, passando per giochi come Ark che, sebbene Steam si ostini a metterli in questa categoria, non riesco esattamente a considerarli come tali. Il motivo è piuttosto semplice: per me l’open world non è solo la sublimazione del concetto di sand-box, ma deve avere quella qualità di confini inesplorati che a questo tipo di gioco, dalle mappe piuttosto contenute e ripetitive, manca. Non è solo una questione di dimensioni, quanto di qualità delle interazioni possibili: i migliori open world ti spingono a non stare mai fermo, a esplorare quel tanto in più oltre i confini del tuo naso per vedere cosa c’è “oltre la siepe”. È questo tipo di sentimento che accomuna due giochi dalle identità profondamente differenti come The Witcher e GTA. Sfido chiunque in uno di questi titoli a non sentirsi pizzicare le mani quando, dall’alto di un palazzo, altura o montagna, l’orizzonte si apre e ti pianta nel cervello quel fatidico pensiero: “Chissà che diavolo starà succedendo laggiù, quasi quasi vado a vedere…

Lorena Rao

Nutro ormai da un po’ di tempo un certo timore nei confronti degli open world. Un timore che ha preso il volto della tizia di Dragon Age Inquisition che proferisce “Dispatch for you!”, o di Preston Garvey di Fallout 4, o ancora di Dino in Final Fantasy XV. Il motivo è molto semplice: se ho un alter ego attraverso il quale conoscere e vivere un mondo sconfinato, mi aspetto di trovare personaggi, luoghi e situazioni che mi raccontino di quel mondo. Una sensazione che ho provato con Fallout 3, e ancora di più con Fallout New Vegas. Partendo da questo concetto, sono tra i pochi che ha apprezzato la struttura open world inserita in Mirror’s Edge Catalyst, perché calza perfettamente con l’essenza dei Runner e del parkour. Al contrario, quando mi ritrovo in mondi sconfinati semplicemente per fare delle missioni fotocopia con lo scopo di raccogliere minerali, erbe o salvare l’ennesimo accampamento, in un loop quasi incomprensibile, il mio senso dell’avventura si assopisce. Per cui se si deve seguire una moda – inutile girarci attorno: questa è l’era degli open world – che si faccia per bene, altrimenti meglio chiudersi nelle mura claustrofobiche di villa Baker di Resident Evil 7. Almeno lì per raccogliere piante c’è un buon motivo.

Francesco Paternesi

Anche nei videogiochi il troppo, come si suol dire, stroppia. Negli ultimi anni siamo stati invasi da titoli open world, una tendenza imperante e che ha portato nomi illustri come Final Fantasy XV e The Legend of Zelda: Breath of the Wild ad approcciare questo sistema di gioco. Nulla però è lasciato al caso: a conti fatti, l’open world è un passo necessario per il medium, visto l’avanzamento tecnologico raggiunto ma soprattutto per esigenze narrative: entrambi i giochi succitati sono viaggi, dei road movie interattivi dove il giocatore ha pieno comando del suo destino. Il viaggio prima o poi finirà ma, nel mentre, un mondo intero si apre davanti a noi, ricco di sorprese, incontri, paure e pericoli. Il tempo si dilata assecondando i nostri bisogni e porta il concetto di libertà verso nuovi orizzonti sterminati, dove non esistono confini se non quelli che detteremo noi stessi. Non sarà la morte a ostacolarci, al massimo la noia in alcuni frangenti o un blackout del quartiere ma, fintanto che la curiosità resta viva, i giochi open world offrono un’esperienza che anni fa, in un mondo fatto di quadri e livelli, viveva solo nella nostra mente, fantasticando su nuove avventure e possibilità che nascevano e morivano nell’attimo di un pensiero. Continuiamo a non essere padroni completi del nostro destino, ma per quello c’è tempo: adesso è l’ora di godersi un viaggio, anzi, il nostro viaggio unico e personale, da vivere appieno senza il timore di arrivare alla fine contro la nostra volontà.

Luca Marinelli Brambilla

Non ho mai avuto un buon rapporto con gli open world, a partire da quel GTA 3 per Playstation 2 che fu, probabilmente, il primo approccio di moltissimi ad un mondo aperto tridimensionale. Fin da piccolo, percepivo quella città come estremamente sotto-sfruttata, mi sembrava tutto troppo limitato. All’alba degli anni ’20 del 2000 ci troviamo nella situazione in cui gli open world escono dalle fottute pareti, mentre il genere fatica a fare reali passi avanti, puntando tutto su mappe sempre più grandi con scarse, o quantomeno poco stimolanti, cose da fare al loro interno. L’industria sembra proporre prodotti dove il perno è solo la mappa grande e aperta, a cui tutto il resto viene adattato. Credo invece che un approccio sano sarebbe quello inverso: avere un’idea chiara di cosa si vuole raccontare e come, e solo come conseguenza realizzare una mappa adeguata (il che può anche significare una serie di corridoi, perché no?). Mi viene in mente Shenmue, in qualche modo accostabile al genere, dove la mappa era notevolmente più piccola ma perfettamente funzionale alla visione di Suzuki. Allo stesso modo prendiamo The Witcher 3, in cui la mappa riesce a contenere dettagli unici quanto spesso inutili ai fini del gameplay in senso stretto. In questo modo però i CD Projekt RED sono riusciti a costruire un mondo che ha una sua ragion d’essere anche per la sua estensione, in cui si sente la vita in ogni angolo e in ogni baracca, guadagnandone in coinvolgimento. E direi che non è poco.

Eugene Fitzherbert

Qualcosa è cambiato. È l’unico modo che ho per spiegarmi questo mio sorprendente interesse per gli open world, perché vi devo confessare una cosa: i mondi aperti e sandbox mi hanno sempre lasciato indifferente o addirittura infastidito. Non ne metto in dubbio l’altissimo valore artistico e la “rivoluzionarietà”, ma non ho mai avuto un buon feeling con questi titoli. Pensavo sempre che se un videogiocatore ha troppe scelte da compiere, è come se non ne avesse neanche una. Il fatto poi di voler mettere sullo stesso piano missioni secondarie e l’andamento della storia mi ha sempre lasciato perplesso. Adesso però mi ritrovo a scrivere qui che mi sono ricreduto. Sono sempre consapevole della massima di Newton dei nani e dei giganti e la rivedo proprio ora: gli ultimi titoli open world a cui ho giocato hanno trasformato alcuni canoni, e pian piano stiamo raggiungendo lo stato della perfezione di questo approccio. La massima espressione per adesso resta Zelda, e sicuramente i titoli a venire si dovranno misurare con questa rivoluzione di game e level design. Il risultato ai miei occhi è che adesso ho cambiato i paradigmi con cui giudicare queste tipologie di giochi e la cosa mi mette nella posizione di dover rigiocare tutto da capo, per vedere se forse, anni fa, mi ero sbagliato. È probabile. Vi farò sapere, nel frattempo ho un regno da salvare.