The future has come and gone

Le martellanti pubblicità che vediamo nelle strade di questo film ci forniscono un sottotitolo ben azzeccato, se pensate che nelle sale italiane è arrivato solo lo scorso 7 luglio, ben tre anni dopo la sua uscita negli Stati Uniti.
Terry Gilliam, regista di questa singolare pellicola del 2013, insiste nel dire che la sua non è una distopia, bensì una rappresentazione del mondo attuale. Eppure tutti gli elementi del film, dalla scenografia alla tecnologia, passando anche per veicoli, vestiti e cibo, sono palesemente futuristici, di quel futuro dall’incessante, frenetico movimento, dai valori superficiali e i cui dei sono il denaro ed il sesso.

D’accordo, forse Gilliam non ha tutti i torti; d’altronde è lui che ha creato The Zero Theorem, e che ne conosce il significato meglio di chiunque altro.
Il film comincia subito mostrandoci il protagonista
Qohen Leth, un Christoph Waltz molto convincente nei panni dell’eccentrico hacker asociale, un personaggio afflitto dalla noiosa vita da operaio costantemente controllato dalla corporazione per cui lavora, la Mancom, depresso a causa della solitudine e in perenne attesa di una telefonata che gli possa svelare il senso della vita. Altrettanto azzeccato è Matt Damon nel ruolo del Management, il Grande Fratello di turno a capo della Mancom. Sì, perché la somiglianza con 1984 di Orwell non passa affatto inosservata, ed è anzi uno dei motivi per cui questo film viene etichettato come una distopia, nonostante le smentite dello stesso regista. Nel cast troviamo anche David Thewlis nei panni del soprintendente Joby (meglio conosciuto come Remus Lupin nella serie di Harry Potter), e la francese Mélanie Thierry, ex-modella apparsa ne La leggenda del pianista sull’oceano, più che valida nell’interpretazione della dolce Bainsley, la giovane donna di cui Qohen si innamora.

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Mah, se lo dici tu…

Il film si presenta come un’interessante indagine sul senso dell’esistenza umana, fattore già intuibile dal nome di Qohen Leth, derivato da Qohèlet, ovvero il libro dell’Antico Testamento in cui Re Salomone riflette proprio sui modi ideali in cui vivere la vita. Interessante, sì, ma abbastanza noiosa. Comincerete infatti ad afferrare il significato generale della pellicola, e ad entrare nel mondo che essa vi presenta, solo dopo aver passato i primi 30-40 minuti a ripetervi che non ci state capendo un cazzo. Tuttavia alcuni elementi restano, se non superflui, difficili da interpretare, e diremmo anzi quasi senza senso. Un esempio? La tecnologia inventata da Terry Gilliam per il suo immaginario futuro, che si serve di computer super potenti, schermi ultra-tecnologici e… joypad? L’eccessiva somiglianza visiva che i numeri e le cosiddette “entità” matematiche con cui Qohen opera giorno e notte hanno con Minecraft, piuttosto che con complesse formule fisiche, non rendono affatto l’idea di quanto sia difficile lo sforzo mentale che l’hacker compie, cercando di dimostrare il teorema assegnatogli dal Management.

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Insomma, questo poveraccio lavora assiduamente ed ha un esaurimento nervoso per colpa di alcune formule a cubetti. Sarebbero state più credibili schermate su schermate di codice verde alla Matrix, anziché la trovata del regista britannico.

Mancom is watching

Poco convincente anche la stessa evoluzione di Qohen che, da operaio asociale depresso, arriva ad essere, indovinate un po’, un operaio asociale depresso. Perché nonostante si guadagni l’amicizia di Bob (Lucas Hedges), figlio del Management, e l’affetto di Bainsley, alla fine viene giudicato dal direttore-dittatore, alla pari di tutti gli altri, come un semplice strumento utile al business, il quale sembra essere il fine ultimo delle corporazioni che a colpo d’occhio governano questo mondo.

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The Curch of the Batman the Redeemer may be the answer

Dobbiamo tuttavia riconoscere la genialità dell’amara ironia che pervade tutto il film, di stampo kafkiano, data da un misto di citazioni più o meno esplicite di vecchi cult, e la generale disillusione con cui Terry Gilliam dipinge la società futuristica della sua opera. Una visione chiaramente pessimistica che, a detta dello stesso regista, è volta a ricordarci di come già oggi noi siamo controllati dalle multinazionali e dalle corporazioni, che hanno invaso la nostra vita con i loro prodotti, presentatici come indispensabili ma in realtà assolutamente superflui.

Inoltre Gilliam ci presenta un film in formato particolare, un 16:9 parzialmente filmato su vinile in 1:1,85 con la tecnica dellopen matte, che produce una pellicola dagli angoli arrotondati e dai cui bordi non sono stati tagliati graffi, polvere ed altri dettagli, come i microfoni, che normalmente vengono nascosti allo spettatore. La scelta, secondo l’autore, è stata volta a mostrare al pubblico esattamente quanto egli stesso ha visto durante le riprese, in proporzioni standard che siano visionabili correttamente sullo schermo di qualunque moderno dispositivo, sia esso una televisione, un monitor oppure uno smartphone o tablet.
Molti tecnicismi, ma non troppa sostanza, insomma.

(Articolo a cura di Paula Mihalcea)

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