Tredici passi verso l’inferno.

Alle volte basterebbe pochissimo per cambiare drasticamente tutto. Per esempio basterebbe una parola gentile per salvare una vita? Tornare indietro quando il buon senso ci consiglia di farlo? Accettare l’aiuto di una persona, o rispondere a una sua disperata richiesta di soccorso?

Le premesse da cui parte 13 (13 reasons why), serie nata dall’adattamento del best seller di Jay Asher e distribuita dalla piattaforma Netflix, sono buone. Il principale tema trattato è quanto possa essere difficile la vita tra i banchi di scuola, quali siano le dinamiche sociali presenti tra i banchi in un liceo americano. Nell’organigramma di questo show c’è qualcuno come Tom McCarthy, sceneggiatore dei primi due episodi, che con “Il Caso Spotlight” era riuscito già una volta a trattare magistralmente dei temi scottanti, venendo giustamente premiato con un Adacedy Awards.

All’interno di 13 confluiscono temi interessanti, seppure con differente intensità. Alle volte si tratta di un feroce spaccato sociale, altre volte ci si limita a sfiorare altre tematiche, lasciandole intoccate o, al limite, grattandone la superficie senza scavare al loro interno. Se non altro, parliamo di uno show che difficilmente lascia indifferenti quegli spettatori che accettano di seguirlo, nel bene o nel male, amando oppure odiando questo serial.

Le vicende della storia nascono dalle stesse premesse del romanzo di Asher: la liceale, Hannah Baker (Khaterine Langford), bella e intelligente, si toglie la vita, sconvolgendo nei fatti la vita della sua comunità. E, badate bene, non sto parlando della sua cittadina, di cui non viene mai menzionato il nome e l’effettiva collocazione, ma della scuola, quel microcosmo parodia della vita vera che tutti noi siamo stati costretti ad affrontare.

Gli anni della scuola sono formativi sotto diversi punti di vista: non solo per le conoscenze che si apprendono al suo interno (e quelle che, di pari passo, si snobbano), ma anche perché per la prima volta siamo costretti a confrontarci col concetto di gruppo, di comunità e, soprattutto, di disparità sociale. Difficilmente, nella famiglia, si viene discriminati: molto più comune è che ciò avvenga a scuola. E questo, spesso, si traduce nel fenomeno del bullismo.

Girate la cassetta.

Non è immediato calarsi nella realtà di questa serie. Bisogna superare la presenza dei cliché che conosciamo sui licei a stelle e strisce, comprendere come certi personaggi stereotipati in realtà possano nascondere molte più sfaccettature al loro interno. Più di uno spettatore potrebbe fermarsi di fronte a personaggi che ricalcano molto (in alcuni casi troppo) il cliché del bullo, dello sportivo di successo, del nerd, dell’asiatica eccezionalmente intelligente e dell’intellettuale snob e omosessuale. E non rinuncia nemmeno ai due peggiori stereotipi di questo tipo di serie, il prom (ballo scolastico) e le feste a casa di amici, quando i genitori non ci sono.

Uno scoglio non semplice da superare.

Nonostante la figura di Hannah costituisca il motore di tutta la vicenda, il vero protagonista è Clay Jensen (Dylan Minnette), il tipico liceale un po’ nerd. Adora i libri fantasy e di fantascienza, ha un buon rendimento scolastico, è una persona sensibile e disponibile ad aiutare gli altri.

Un giorno, al ritorno da scuola, Clay trova davanti alla porta di casa una scatola con sette cassette musicali, i cui lati sono stati numerati da uno a tredici con dello smalto blu. Registrata sui nastri c’è la voce di Hannah, di cui Clay era stato collega nel lavoretto part time, compagno di scuola, amico  e infine qualcosa di più. Da sempre innamorato della ragazza, il nostro nerd non aveva mai avuto l’occasione di poter stare insieme a lei, fino al momento del suo suicidio, avvenuto poche settimane dopo la perdita dell’amico Jeff.

Inizia così il racconto di Hannah, che ripercorre gli eventi che l’hanno spinta al suicidio, dedicando ogni numero delle cassette a una delle persone che hanno contribuito alla sua tragica scelta. La sua morte, così, non diventa solo un gesto estremo maturato solo dalla disperazione, ma da un ambiente ostile che sembra averla spinta sempre più in basso, privandola poco alla volta di ogni possibile felicità e aspettativa. La ragazza sul nastro detta delle semplici regole: le persone a cui sono dedicati i tredici lati della raccolta dovranno ascoltare tutta la storia, passare alla persona successiva le registrazioni, pena la loro diffusione da parte di una persona fidata, rivelando ogni piccolo sporco segreto (e non solo) scoperto dalla ragazza e la responsabilità delle persone coinvolte nella sua morte.

Ci troviamo di fronte una carrellata dei peggiori incubi presenti all’interno del tipico liceo americano (e, ahinoi, non solo). Bullismo, cyberbullismo, sessismo, stalking, pregiudizio, ma anche abbandono e indifferenza, a cui si viene spinti da un ambiente che ti giudica per ogni tuo gesto, per ogni tua scelta, preferenza, pregio o difetto.

L’intera vicenda di Hannah si consuma in un climax che parte da una foto scattata dal suo primo ragazzo, Justin, e dall’etichetta di puttana che quella foto finisce per attaccarle addosso. Al successivo abbandono dei suoi due migliori amici, per continuare con la sua presenza su una lista dai toni sessisti, lo stalking da parte di uno studente, pettegolezzi che ne rovinano la reputazione, fino ad arrivare all’isolamento.

La serie riesce a coinvolgere lo spettatore, seguendo passo per passo la ricostruzione che Clay fa degli ultimi mesi di vita di Hannah, incalzandolo con un ritmo serrato. Si scatena così una presa di coscienza in più persone. In Clay, che vive con dolore intenso la scoperta di quanto successo all’amica in quei mesi, e in quelli che hanno al contrario contribuito a mandare a fondo la ragazza, chi per gelosia, chi solo per salvare le apparenze e chi per pura malizia.

Tredici alla fine si traduce in questo, una summa dei peggiori difetti della nostra natura e di una delle istituzioni umane più importanti, la scuola, trattate in maniera spesso cruda e realistica, ponendoci senza mezzi termini di fronte alla realtà dei fatti.

A fare da sfondo a tutto questo, infatti, c’è sempre il liceo e le relazioni sociali che si sviluppano al suo interno.

Il primo pensiero che uno spettatore straniero, poniamo caso italiano, potrebbe fare è quello di rifiutare la possibilità che al suo sistema scolastico si applichino le stesse problematiche. Può cambiare il tipo di ambiente, ma il pregiudizio, condito da una buona dose di bullismo e pregiudizio, esiste.

Tutto quello che vediamo in Tredici potrebbe interrompersi da un momento all’altro se una sola delle persone presenti in questa vicenda riuscisse a uscire dallo schema che gli impone la scuola. Che ti vuole un vincente se frequenti gli atleti, i capiclasse e le cheerleader, quello che ti marchia come troia per una foto e quello che ti condanna se non ti adegui, se non segui la corrente e non ti conformi. Ed è questo uno dei motivi di maggiore interesse in una serie dove il finale già si conosce, in fondo. Qualcosa ha spinto Hannah a uccidersi, e non è solo “cosa?” la domanda che lo spettatore inizia a porsi guardando lo show, ma anche “perché niente e nessuno è riuscito a impedire che quel qualcosa avvenisse?

Si inserisce così un secondo filone in questa storia che, nonostante tutto, viene appena accennato e non trattato con la giusta cura. Quello degli insegnanti.

Se uno studente può indulgere in certi comportamenti per via della sua mancanza di freno e di una coscienza sociale assente o non ancora formata, è impossibile non puntare il dito contro chi questa coscienza sociale dovrebbe forgiarla. Il circolo vizioso per cui un atleta può restare impunito per via dei suoi ottimi risultati sportivi o un rappresentante degli studenti diventa intoccabile per via del suo impegno nelle iniziative organizzate dalla scuola nasce per forza di cose dall’autorità, rappresentata, tra i banchi di scuola, dal corpo docente.

La domanda che sorge spontanea è: perché i professori non cambiano questo stato di cose? Non possono o forse non vogliono? La risposta del serial appare superficiale.

In questo Tredici potrebbe fare molto di più: potrebbe analizzare a fondo ciò che spinge il preside a non vedere e l’insegnante all’apatia. Se per il preside si può pensare a un distacco professionale, per l’insegnante la domanda è complessa e solo sfiorata. Per ogni insegnante ci sono almeno cento allievi. Questa rapporto così sproporzionato permette al docente di vigilare sulla condotta del proprio studente? Gli dà la possibilità di capire cosa stia pensando una ragazza in un momento di dolore? Permette, in parole povere, di aiutare quei giovani che l’istituto accoglie sotto la propria ala?

Questa forse è la pecca principale e non trascurabile di Tredici. Concentrarsi soprattutto sugli studenti, lasciando insegnanti e genitori in secondo piano, accennando appena a quanto questi ultimi contribuiscano nella formazione dei ragazzi e come il loro atteggiamento possa spingerli su una strada da cui non c’è ritorno.

Vengono spese molte scene per introdurre i genitori dei due protagonisti, Clay e Hannah, mentre quelli dei comprimari, responsabili del comportamento della propria prole e di buona parte dei propri errori, viene spesso messa in secondo piano o nemmeno trattata. In questo senso è da lodare il personaggio e l’interpretazione di Mark Pellegrino (Lost, Supernatural) che in poche scene riesce a trasmettere tutti i difetti che il genitori ha trasmesso al figlio.

Verdetto 

Tredici è una serie che non piacerà a tutti. Può risultare facile classificarla come la solita serie sui liceali USA. Al suo interno ci troviamo di fronte a tematiche scottanti, come il suicidio, il bullismo e la violenza, trattate in maniera cruda e realistica. Altre, come la scarsa capacità dei genitori di educare i figli e la distanza del corpo docente dai propri allievi sono invece solo accennate. La serie, tuttavia, si dimostra coinvolgente e riesce a fidelizzare lo spettatore portandolo a vedere gli episodi con avidità. Nel complesso, quindi, ci sentiamo di promuovere Tredici, raccomandandolo però a un pubblico più incline a superare la presenza di certi cliché, i quali nonostante la loro presenza non vanno a inficiare la qualità generale dello show.

Federico Galdi
Genovese, classe 1988. Laureato in Scienze Storiche, Archivistiche e Librarie, Federico dedica la maggior parte del suo tempo a leggere cose che vanno dal fantastico estremo all'intellettuale frustrato. Autore di quattro romanzi scritti mentre cercava di diventare docente di storia, al momento è il primo nella lista di quelli da mettere al muro quando arriverà la rivoluzione letteraria e il fantasy verrà (giustamente) bandito.