Voler essere umani, ma non saper essere un videogame

Dispiace sempre quando si deve parlare male di un videogioco. È brutto per diversi motivi, principalmente perché dietro a un progetto ci sono persone che hanno lavorato e lavorano duramente, ma in ultima istanza va tenuto conto anche dell’arduo compito dei recensori, che devono passare ore della loro vita con un prodotto che semplicemente soffre di una realizzazione incomprensibile e o magari pecca di esibizionismo, o si crogiola solo su alcune cose piuttosto che altre.

L’esempio ovviamente non è casuale e descrive alla perfezione il giudizio a cui siamo arrivati dopo I Want To Be Human, titolo indie che più indie non si può, sviluppato da Sinclair Strange e distribuito da Rising Star Games, che ha deciso di vendere il titolo ad un prezzo davvero irrisorio, operazione che tuttavia non giustifica il lavoro approssimativo con cui abbiamo dovuto fare i conti.

I Want To Be Human racconta di un mondo distopico dove l’amore è stato bandito e ogni relazione amorosa viene scoraggiata dalla legge stessa. Il nostro protagonista, un ragazzo innamorato di una donna vampiro, sfida la legge ma viene catturato e i due vengono puniti in modo decisamente estremo: portati da un individuo noto come L’Uomo, diventano delle cavie per esperimenti, che tramutano la coppia rispettivamente in uno zombie e in un cappello (sì, avete letto bene). I due riescono però a scappare e, armati di un fucile a pompa, si aggireranno per la prigione che li ospita alla ricerca dell’Uomo e di un qualcosa che li riporti al loro stato originario.

La trama, nonostante non sia particolarmente originale, viene narrata attraverso dei fumetti volutamente schizzati, inteso sia in senso artistico che mentale vista la natura un po’ bizzarra degli eventi. I problemi però iniziano sin da subito, ovvero dal momento che si comincia ad usare il pad e si entra in un vortice dove cose buone e cattive si mescolano dando vita a una confusione generale.

i want to be human recensione

Il gioco è sostanzialmente un platform vecchia scuola a la Contra, con il nostro personaggio che si aggira in livelli bidimensionali e si muove imbizzarrito, sparando fucilate a tutto ciò che si muove. Sulla carta è una cosa facile, ma non per questo titolo: i comandi soffrono infatti di un leggero lag, soprattutto nelle fasi di salto e nei walljump, e per giunta si rivelano o confusionari o inutili. Per esempio, la levetta analogica sinistra è deputata come vuole la tradizione al movimento, ma è anche necessaria per mirare e ciò crea enormi difficoltà nel caso in cui si desideri uccidere un nemico in volo, o anche solo riuscire ad essere vagamente precisi nel mirare spostandosi inevitabilmente, facendoci cadere rovinosamente oppure rendendo le nostre azioni avulse da ogni logica computazionale, oltre a rendere il gioco particolarmente difficile e tedioso. Al di là dei problemi di controllo però, ci sono due aspetti in particolare che evidenziano quanto il titolo sia stato concepito con mancanza di adeguati acume e logica, perseguendo uno scopo che ha fatto perdere lucidità e solidità ad un gioco apparentemente semplice: parliamo di stile visivo e level design.

A primo impatto I Want To Be Human si lascia guardare molto volentieri. Certo, l’utilizzo di pochi colori, nello specifico bianco, nero e rosso, è una formula tanto rodata quanto poco originale, ma anche stavolta funziona. A questa palette limitata si sposa altrettanto bene un design industriale che vuole essere una pixel art brutale e indomita, impadronita da uno spirito anarchico che riesce a connotare l’intera produzione, ribellandosi tanto quanto il protagonista della storia nei confronti del mondo distopico che lo condanna. Ed è proprio l’anarchia quella che infine si impossessa del gioco e che porta quest’ultimo ad essere un garbuglio incomprensibile, prendendo il sopravvento su un level design che diviene illeggibile proprio a causa della mole di elementi stilistici presenti sullo schermo, siano essi degli relativi allo sfondo o piattaforme solide, oppure quelle dove il nostro personaggio rimbalza senza sosta e senza alcuna fisica a limitarne i danni. Per non parlare poi degli elementi che dovrebbero dare un senso di profondità, pezzi di pixel smarmellati e che impediscono di osservare in modo limpido l’azione rivelandosi più fastidiosi che altro e che ci faranno irrimediabilmente fallire un salto o renderanno invisibile un nemico che ci ucciderà.

Questo mix letale rende I Want To Be Human un vero e proprio macello, definizione coadiuvata dall’onnipresente rosso sangue su schermo, che poi è lo stesso colore che assumerà la nostra faccia dopo l’ennesima morte causata non da mancanza di abilità bensì da una mancanza di coerenza che non lascia scampo e rende anche mosse generalmente utili come uno scatto un’altra occasione per morire e ricominciare da capo, ammesso che non si sia raggiunto il checkpoint di metà livello. Persino l’hub di gioco riesce ad essere di difficile lettura e l’esperienza generale è dunque altamente frustrante oltre che ripetitiva, altro problema che affligge il gioco a causa di livelli e nemici sempre molto simili nonché l’assenza di una vera progressione legata anche al fatto di non avere mai un’arma diversa dal nostro fucile, la cui gittata limitata sarà sempre croce e delizia di ogni sparatoria.

Per fortuna sul versante prestazionale il gioco funziona senza intoppi e la cosa è quanto meno obbligatoria per titoli del genere ma che, vista la confusione, non ci avrebbe neanche stupito più di tanto. Interessante invece la colonna sonora, basata su musiche di stampo punk molto orecchiabili e che si sposano bene con le tematiche del gioco e il suo lato selvaggio e ribelle.

i want to be human recensione

Verdetto:


I Want To Be Human è un gioco davvero difficile da consigliare, nemmeno al prezzo bassissimo a cui viene venduto. Parliamo infatti di un’opera pigra e mal realizzata che cerca di nascondersi dietro una direzione artistica nemmeno così originale nel 2017, riuscendo nell’impresa di deludere su tutta la linea e lasciando il giocatore in uno stato di fastidio fuori parametro.

Francesco Paternesi
Pur essendo del 1988, Francesco non ha ricordi della sua vita prima del ’94, anno in cui gli regalarono un NES: da quel giorno i videogiochi sono stati quasi la sua linfa vitale e, crescendo con loro, li vede come il fratello maggiore che non ha mai avuto. Quando non gioca suona il basso elettrico oppure sbraita nel traffico di Roma. Occasionalmente svolge anche quello che le persone a lui non affini chiamano “un lavoro vero”.