Raccontare la guerra

Quando un regista, uno sceneggiatore, un drammaturgo o comunque chiunque che di mestiere racconta storie si avvicina al tema della guerra, ha davanti a sé delle strade ben precise, tracciate dai grandi maestri.

In ambito cinematografico, si può trarre ispirazione dallo sguardo allucinato di Apocalypse Now, dalla lucida follia di Full metal jacket o dalla retorica di Salvate Il Soldato Ryan (giusto per citarne alcuni). Passando ai documentari, basta far riferimento a Michael Moore con il suo Fahrenheit 9/11; nel fumetto, invece, si va dal graphic journalism di Joe Sacco alle conseguenze della guerra in Saga, di Brian K. Vaughan e Fiona Staples. Insomma il tema bellico è stato fonte di ispirazione in tutte le epoche ed è stato trattato su ogni media disponibile.

Che scelta ha fatto David Michôd, regista e sceneggiatore di War Machine, quando ha deciso di girare il suo terzo lungometraggio?
Molto semplice: nessuna.
Procediamo con il consueto ordine, però.

War Machine è un film uscito nel 2017 sulla piattaforma di streaming Netflix che trae spunto dal romanzo The Operators di Michael Hastings. La pellicola segue le gesta del generale americano Glen McMahon, inviato in Afghanistan nel 2009, dopo 8 anni di guerra altamente dispendiosa – soprattutto in termini economici e di vite umane – per riuscire a risolvere il conflitto e far uscire l’America vittoriosa.

Un compito per niente semplice, come potrete immaginare, ma che il generale pluridecorato, con un passato scolastico a West Point e a Yale, un’esperienza di successo nella gestione della guerra in Iraq e un libro sull’importanza delle comunicazioni e del coordinamento in ambito bellico, affronta di petto, convinto dell’impossibilità del suo fallimento.

Le prime battute del film riassumono proprio l’atteggiamento del generale McMahon, alter ego cinematografico di Stanley A. McChrystal, e ci presentano lo staff che lo segue in ogni missione: dall’attendente all’uomo delle pubbliche relazioni, tutti convinti dell’infallibilità del capo.

Il tono di questa prima parte è quello di una commedia con spunti satirici sull’atteggiamento di superiorità che il generale ha nei confronti del resto del mondo.
Il militare tutto d’un pezzo, con un regime di vista improntato alla frugalità e al salutismo, viene reso magnificamente da Brad Pitt: postura rigida, avanzare sicuro, mento alto, pancia in dentro e petto in fuori, l’attore statunitense incarna immediatamente l’uomo che per tutta la vita non ha fatto altro che marciare e lanciare ordini.

war machine

Lentamente, il film vira verso il biografico, approfondendo fatti del passato del generale McMahon e dei suoi fedelissimi. Fin qui i due aspetti riescono ancora a convivere, perché si può sempre raccontare la vita di qualcuno e prenderlo come bersaglio per fare satira sulla categoria a cui il personaggio in questione appartiene (in questo caso i militari e la loro visione della guerra, in un’accezione ovviamente stereotipata).

Il problema subentra quando il regista David Michôd mette sul fuoco un terzo genere: il documentario. Nonostante le informazioni che passano sullo schermo siano estremamente utili (l’impossibilità di coltivare cotone per evitare di fare concorrenza alle aziende americane e quindi la necessità di coltivare oppio, oppure le dinamiche diplomatiche per cui si mandano uomini a morire al fronte solo perché è necessario mantenere un buon rapporto con un paese alleato), il rischio più grande è che lo spettatore medio rimanga confuso tra realtà e finzione. Quanto di quello che si vede sullo schermo è la cruda realtà della guerra – tanto paradossale da sembrare finta – e quanto è invece inventato di sana pianta?

Il tono non migliora col procedere del film: il personaggio di Pitt diventa sempre più caricaturale, perdendo quella minima aderenza alla realtà che lo rendeva simpatico e permetteva allo spettatore di continuare a capire che, nonostante il tono scherzoso, War Machine ci parla di argomenti seri. Maledettamente seri.

Quando poi si assiste ad alcune scene che sembrano inserite tanto per far andare il film in una specifica direzione nel più breve tempo possibile, il nostro giudizio scende ulteriormente, ed inevitabilmente. Non vi facciamo spoiler ma vi citiamo un autobus e una festa.
La parabola del generale McMahon, discendente più di un piano inclinato da un certo punto in poi, è stata insomma la stessa della nostra valutazione: a un certo punto era abbastanza chiaro che stessimo andando a schiantarci. 

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Verdetto:

War machine è un film dalle ottime premesse: argomento spinoso, produzione milionaria e cast stellare (Brad Pitt, Tilda Swinton e Ben Kingsley, solo per citarne alcuni). Le aspettative tuttavia vengono puntualmente disattese nel momento in cui il regista cerca di intraprendere più di una strada senza decidere quella definitiva. Un film che scorre veloce e senza lodi, soprattutto se avete un minimo di informazioni sull’attualità e avete visto qualche classico del genere.

Felice Garofalo
Fin da quando riesce a ricordare è stato appassionato di fumetti, di cui divora numeri su numeri con buona pace dello spazio in libreria, sempre più esiguo. Ogni tanto posa l’ultimo volume in lettura per praticare rigorose maratone di Serie TV, andare al cinema, videogiocare, battere avversari ai più disparati giochi da tavolo, bere e mangiare schifezze chiacchierando del mondo. Gli piace portare in giro la sua opinione non richiesta su qualsiasi cosa abbia visto o letto. Sfoggia con orgoglio le sue magliette a tema.