Un cambio di prospettiva

Realizzare un buon lavoro a tema “Apocalisse zombie” non è facile.
Questo perché, alla fine, tutti si assomigliano un po’ tra di loro: c’è sempre da sparare, spaccare teste agli zombie, ripulire l’area e trovare un vaccino contro una piaga che ha assunto proporzioni globali.

O, almeno, così pensavo fino al 2007, quando presi in mano per la prima volta un fumetto realizzato da Robert Kirkman, quel The Walking Dead che mi cambiò completamente la prospettiva sul mondo popolato dai morti viventi. Il semplicissimo ragionamento alla base dell’intera saga, l’idea che in un contesto apocalittico i mostri peggiori possano essere quelli insediati dentro l’animo umano, era (ed è) efficace e appassionante, abbastanza da permetterci di seguire questa serie senza annoiarsi. Ogni capitolo poteva portare a un plot twist capace di rimescolare le carte in tavola, spingendo il lettore sempre più in là.

La trasposizione del fumetto in serie televisiva sembrava, almeno in un primo tempo, capace di riproporre tutti questi argomenti sul piccolo schermo. Dopo un po’, purtroppo, le falle iniziarono ad emergere nella serie.

Nel corso degli anni la qualità dello show è andata avanti tra alti e bassi che ne hanno influenzato solo in minima parte gli ascolti, riuscendo ad essere rinnovato per sette stagioni. Considerata la caratteristica del fumetto, ancora in fase di pubblicazione e senza avvisaglie di un finale all’orizzonte (dando agli sceneggiatori un bacino di idee da cui attingere in mancanza di alternative), la serie potrebbe continuare all’infinito ed essere rinnovata ancora per un numero imprecisato di volte.

Cosa che, inevitabilmente, ci porta alla domanda per cui abbiamo scritto questo articolo. Ha ancora senso guardare The Walking Dead?

Tirare a campare con quattro episodi a stagione: si può?

Mettiamo da parte, per un attimo, la parte “tecnica” dello show; recitazioni, sonoro e fotografia, dopotutto, sono stati già abbondantemente sviscerati nel corso delle stagioni, e non è questo ciò che caratterizza maggiormente la serie.
Quello che ha contraddistinto il serial nel corso del tempo è stato un certo immobilismo. Per qualche strana ragione, nell’arco di una stagione di The Walking Dead non succede quasi nulla. O meglio quello che succede viene diluito, al punto da non far percepire allo spettatore che qualcosa sia accaduto, per poi concentrare in quattro o cinque episodi gli avvenimenti più importanti.

Da un lato questo potrebbe anche acuire il fattore sorpresa: potrebbe portare gli spettatori a un momento di relativa calma per poi sorprenderli di colpo con una serie di eventi che ne cambiano completamente la percezione dello spettacolo, una sorta di versione “serial TV” dei jumpscares.

La realtà è che l’intera visione di The Walking Dead è da tempo diventata difficile da digerire: dover accettare il nulla assoluto per settimane per poi vedere accadere qualcosa nel finale della mid-season o nella ripresa della serie dopo la pausa invernale, sembra essere un concetto cardine di questo show.

Pensiamoci bene: lo schema ricorrente è quello di far iniziare la stagione con una premiere che ne preannuncia i temi portanti, con risultati non sempre positivi (ho ancora i brividi se ripenso al primo episodio della sesta stagione), a cui seguono alcuni episodi di calma piatta, per poi arrivare a metà stagione dove, finalmente, succede qualcosa. La ripresa della serie si basa sulla stessa idea, quella di tirare per le lunghe un concetto fino a farlo concludere in un cliffhanger, solitamente ben realizzato, in modo da poter così convincere gli spettatori a seguire la stagione successiva. Cosa che, alla fine, funziona sempre: indipendentemente da quanto possa essere scarsa la qualità generale dello show, quei quattro episodi a stagione convincono le persone a casa a continuare a vedere il programma. O, almeno, convincono una buona fetta di pubblico.

Questa settima serie, che pure sembrava aver inserito col personaggio di Negan un tocco di novità, non si discosta poi molto dal suddetto leitmotiv: dopo una premiere capace di portare avanti efficacemente il cliffhanger precedente, per l’intero svolgimento della stagione abbiamo visto alternarsi episodi più che buoni, ad altri tenuti a galla esclusivamente dalla figura di Negan ma con puntate di nulla assoluto.
In primo luogo, ci sarebbe da chiedersi quanto sia utile, nell’economia del format, spezzare la trama della stagione in due storyline differenti, prima e dopo la pausa invernale, ma nei fatti questo è un difetto comune a molte serie televisive attuali. La cosa più importante è domandarsi se questo stato di cose per cui lo show debba andare avanti così a rilento, con poche idee protratte a dismisura, possa ancora costituire motivo d’interesse per lo spettatore.

The Walking Dead 7 ha come tema principale la figura di Negan, forse una delle poche componenti capaci di donare allo show un po’ di verve.
Il capo dei Salvatori, complice l’ottima recitazione di Jeffrey Dean Morgan, ha permesso a questa stagione di essere un po’ diversa dalle altre, ma sempre col difetto di spezzare in due la storia. L’idea è quella di raccontare il regno del terrore dei Salvatori, diviso in una fase di sottomissione e una di ribellione. Per fare ciò, la prima parte della stagione ha visto il proprio climax concludersi con il gruppo di Rick che sceglieva di reagire, mentre la seconda, almeno da quanto possiamo desumere dai primi due episodi, si concentra sul raccogliere le forze per poter sferrare l’attacco.

Ma già i primi due episodi raccontano che non ci saranno cambiamenti nello svolgimento tipico della serie. Eventi che si accumulano, poco alla volta, come granelli di sabbia sul fondo di una clessidra, ma con una lentezza esasperante, per poi concludersi nell’incidente che scatenerà la guerra tra le parti.
Il primo episodio, incentrato in parte sulla fuga di padre Gabriel e in parte sui primi contatti tra Alexandria e il Regno, non ha dato effettivi scossoni alla trama dopo le premesse del finale di metà stagione. Il Regno resta neutrale, Hilltop resta neutrale; nonostante l’accenno a persone in entrambe le comunità desiderose di voler rovesciare Negan.

Un po’ meglio è andata la puntata successiva, dove Rick riesce a convincere un gruppo di sopravvissuti (dall’aspetto particolarmente post-apocalittico, forse un omaggio a vari film del genere) a unirsi alla lotta contro Negan, per quanto tutto nasca da premesse inverosimili (la fuga del prete e la sua successiva cattura sono un pretesto abbastanza labile per mettere in contatto Alexandria e i sopravvissuti della discarica).
E poi quelle tinte leggermente trash: la trappola esplosiva “formato mandria” per i Vaganti e lo zombie corazzato, tanto per dirne un paio. Il problema è che queste cadute di stile sono comuni nella serie e, nella sua economia, non inficiano sul risultato finale.

Vero è che gli episodi di The Walking Dead raramente possono definirsi “fillerveri e propri: molto più spesso si tratta di puntate in cui un singolo avvenimento, importante ai fini della trama, finisce per essere “diluito” all’interno di una sequela di eventi che variano dal noioso al grottesco, senza far mai avvertire allo spettatore la sensazione che la show stia crescendo, che vada a parare da qualche parte.
Il finale arriva comunque, prima o poi, anche se in maniera completamente anticlimatica, con una serie di alti e bassi nella tensione generale, che finiscono per non rendere giustizia all’insieme.

Eppure, nonostante questo schema sia stato ripetuto per sette stagioni, molti di noi sono ancora qui a guardare TWD. Contro ogni logica, il metodo con cui gli sceneggiatori portano avanti la serie, concentrando gli avvenimenti più importanti in una manciata di episodi e relegando gli altri a mero riempitivo con qualche traccia di trama. Lo spettatore, catturato dal colpo di scena finale, si sintonizza sull’emittente per vedere come evolveranno le cose, per poi aspettare finché qualcosa non cambia, sopportando la noia fino a un nuovo season finale, riaprendo così il ciclo.

Sotto questo punto di vista, il rapporto tra The Walking Dead e lo spettatore assomiglia a una relazione sentimentale disfunzionale. Nonostante il rapporto proceda con più alti che bassi, nonostante il desiderio di voler troncare una storia che ormai si trascina, degli sporadici momenti di gentilezza del partner ci convincono che valga la pena lottare per essa.

Ma sarà realmente così? La risposta, purtroppo, non può essere una sola. C’è chi, comprensibilmente, ha perso le speranze nei confronti di questa serie, abbandonandola. E chi, nonostante tutto, cova ancora della brace sotto la cenere, in attesa che qualcosa cambi. O che, finalmente, Carl venga divorato come merita.

Federico Galdi
Genovese, classe 1988. Laureato in Scienze Storiche, Archivistiche e Librarie, Federico dedica la maggior parte del suo tempo a leggere cose che vanno dal fantastico estremo all'intellettuale frustrato. Autore di quattro romanzi scritti mentre cercava di diventare docente di storia, al momento è il primo nella lista di quelli da mettere al muro quando arriverà la rivoluzione letteraria e il fantasy verrà (giustamente) bandito.