Bentornato, Jimmy McGill

Era fin dalle battute finali di Breaking Bad che si parlava dell’idea di un prequel o di una serie che ne riprendesse direttamente le ambientazioni, lo stile e le atmosfere. Poi, poco prima che le avventure di Walter White e Jesse Pinkman arrivassero alla loro naturale conclusione, ecco la bomba: uno spin-off incentrato su uno dei comprimari migliori e più originali dell’intero cast, ovvero Saul Goodman, l’ambiguo avvocato un po’ cialtrone che si occupava di gestire le faccende legali di Heisenberg e soci. Per i fan, niente di meglio: vedere di nuovo Goodman in azione sarebbe stata un’autentica gioia per gli occhi e il fatto che nella produzione fosse coinvolto Peter Gould, l’uomo che gli aveva dato i natali scrivendone l’episodio d’esordio, confermava le bontà del progetto. Certo, nessuno poteva aspettarsi che il risultato fosse un prodotto capace di rivaleggiare senza problemi con l’opera originale e anche di far sorgere delle legittime domande su quale fosse il migliore tra due. Ma a questo ci penseremo più avanti, semmai. Per ora, godiamoci questa prima puntata della quarta stagione, pubblicata in questi giorni da Netflix.

Dove eravamo rimasti

Dopo l’audizione presso l’Ordine degli Avvocati, i rapporti tra i fratelli McGill sembrano arrivati ad un punto di non ritorno. Attraverso un astuto stratagemma, Jimmy (Bob Odenkirk) è riuscito a screditare la sanità mentale di Chuck (Micheal McKean) davanti a tutti ottenendo solo una sospensione dell’avvocatura per un anno dopo aver rischiato la radiazione. Questo ha costretto il nostro protagonista a trovarsi un lavoro e a dover mollare il suo studio in coppia con Kim Wexler (Rhea Seehorn), con cui nel frattempo ha cominciato una relazione degna di questo nome. Lei, intanto, presa della gestione degli affari della Mesa Verde, è stata vittima di un incidente automobilistico causato dalla stanchezza. In tutto questo, Chuck cerca di mettersi alle spalle il trauma dell’udienza e riprendere il lavoro, grazie anche ad un apparente miglioramento della sua fobia dell’elettricità. Ma Howard Hamlin (Patrick Fabian), suo collega alla Hamlin Hamlin & McGill, lo costringe a rinunciare perché la notizia della malattia rischia di compromettere l’attività dello studio. Depresso, solo e ormai senza più un legame al mondo, Chuck fa cadere le lampade ad olio sul pavimento mentre la casa prende gradualmente fuoco…

Dicevamo di Better Call Saul: era impossibile pensare che quel furbacchione di Vince Gilligan avrebbe tirato fuori un simile campionario di trucchi dal suo cilindro. Anche perché dopo la sfortunata Battle Creek (incidente di percorso col senno di poi) sembrava aver un po’ perso il tocco magico che negli anni di Breaking Bad lo aveva fatto diventare un deus ex machina delle serie tv, in un periodo storico dove l’ascesa di questo mezzo era appena agli inizi. Invece Vince, che comunque ha mantenuto una crescita costante destreggiandosi pure dietro la cinepresa, è tornato in grande spolvero cimentandosi con il grande spauracchio degli showrunner: gli spin-off, dando vita ad un qualcosa di meraviglioso capace di andare completamente fuori dagli schemi. È difficile classificare Better Call Saul, un po’ per come rivoluziona il concetto di storia derivata e per la qualità per la resa, oltre che per l’evoluzione imprevedibile che ha avuto nel corso del tempo. Da commiato e dietro le quinte su Saul Goodman, straordinario personaggio passato da spalla comica a immancabile coprotagonista, si è infatti trasformata in un prequel dell’epopea di Mr. White per poi diventare una sorta di precedessore/successore spirituale. Perché, nonostante venga dopo si inserisca teoricamente prima, BCS ha fatto tesoro degli errori del suo famoso genitore (non molti, ma c’erano) ed è riuscito ad andare più in là, elevando al massimo quell’estetica che era il cavallo di battaglia di Gilligan e riadattandola ad un nuovo contesto, con nuovi personaggi, nuove storie che hanno finito, trasversalmente, per rivitalizzare lo stesso Breaking Bad, donandogli una retrospettiva glorificante. Adesso, per chiunque decida di riguardare la serie originale o scelga di ammirarla per la prima volta, ogni gesto, ogni sequenza e ogni apparizione viene caricata di sfumature prima assenti, proprio grazie al fine lavoro di Better Call Saul che è riuscito a meritarsi la fama senza cannibalizzare BB ma ravvivandolo. Di solito, siamo abituati a spin-off che campano di rendita dalla serie madre, non di serie madre che campano di rendita grazie allo spin-off. Ed è questo il paradosso dei paradossi, la migliore magia di Vince Gilligan: rivoluzionare il concetto di opera derivata. Per dire, l’unica operazione simile di questi tempi è stata Young Sheldon, non a caso realizzata Chuck Lorre, un’altra divinità degli showrunner americani.

Conseguenze

E quindi, comunque vada e qualunque sia la sua conclusione, BCS si è già guadagnato il suo meritato spazio nella storia del piccolo schermo. Anche perché ne abbiamo ancora di cose da guardare e cominciare a pensare alla sua eredità è prematuro. Dunque, mettiamoci belli comodi e diamo uno sguardo a questa prima puntata della quarta stagione, sicuramente la più attesa dopo i botti della terza, che forse era stata la migliore. Nonostante un ritmo un po’ più lento e alcuni episodi fiacchi, avevamo visto arrivare al loro apice trame e sottotrame intessute con sapienza nel corso degli anni. Il caso Mesa Verde e la contraffazione di Jimmy erano esplosi in un legal drama che ricordava il miglior Perry Mason, il piano di Nacho (Michael Mando) per mettere fuori gioco Hector Salamanca aveva spiegato finalmente uno dei più importanti particolari di Breaking Bad, Mike (Jonathan Banks) si era riscattato dalla sua vita grigia cominciando la scalata che l’avrebbe portato al fianco di Gus Fring (Giancarlo Esposito), Chuck faceva i conti con la sua irrazionale paura e il nostro protagonista rispolverava il suo ambiguo alter ego. Avevamo davanti agli occhi l’apice di una costruzione narrativa che aveva piazzato sulla scacchiera tutti i pezzi e si preparava a farli finalmente muovere. Cosa che dovrebbe accadere adesso in questa quarta stagione, che minaccia di sconvolgere lo status quo come non avevano saputo fare le altre. E lentamente cominciamo a vederle in questa prima puntata. Una puntata che, come da tradizione, inizia con il solito flash-forward in bianco e nero che ci mostra Jimmy nei falsi panni di Gene Takovic, solitario e scontroso manager di un Cinnabon di Omaha.

Queste piccole anticipazioni, col tempo, si sono trasformate in una sorta di serie nella serie che ci permettono di vedere il Saul post Breaking Bad: un uomo malinconico, umiliato, arrabbiato e paranoico, preoccupato che qualcuno lo stia cercando per vendicarsi. Ed è straordinario come, in una visione così asettica e asciutta, la recitazione di Bob Odenkirk e la regia ci facciano percepire l’ansia crescente, che sia nata per un piccolo malinteso o a causa di qualcosa che, nell’ombra, osserva la situazione. Poi, grazie al consueto stacco nel “presente” della narrazione, troviamo Kim, Jimmy e Howard a doversi confrontare con una tragica notizia, mentre Gus e Mike prendono confidenza con la loro nuova realtà dopo l’infarto di Don Hector. Tra macchinette del caffè, tesserini, aziende, cenere, lanterne e pesci in un acquario, l’inizio della quarta stagione è per forza di cose lento e compassato, volto a riannodare i fili col finale della quarta, ma già mostra tutte le potenzialità latenti e si limita a suggerire quello che sta per succedere, trovando la giusta accelerata solo nei minuti conclusivi. Ma ci siamo abituati, al netto di trenta puntate dove siamo stati a più riprese tranquillizzati, stuzzicati, sorpresi e annientati. La nuova stagione di Better Call Saul sembra aver tutte le carte in regola per confermarsi ancora una volta e per raggiungere Breaking Bad nell’Olimpo. Se non c’è già arrivata, ovviamente.

Cosa ci è piaciuto?

La gestione delle novità introdotte nel finale della terza stagione e il meraviglioso flash-forward in bianco e nero, gioiello dentro il gioiello.

Cosa non ci è piaciuto?

Praticamente nulla. Nonostante il (prevedibile) andamento un po’ lento e forse il poco spazio dedicato a tutto il cast, questo episodio sa tanto della proverbiale calma prima della tempesta. Certo, il fatto di dover aspettare ogni settimana invece del tipico tutto e subito di Netflix rischia di minare un po’ la visione, ma a questo punto vale decisamente la pena.

Continueremo a guardarlo?

Naturalmente sì. Better Call Saul, al netto dell’esplosione della moda televisiva degli ultimi anni, è uno dei migliori prodotti in circolazione. E il fatto che lo sia dovrebbe far riflettere la concorrenza (e lo stesso Netflix) perché si tratta pur sempre di un’opera derivata, capace di umiliare almeno un centinaio di rivali originali.

Elia Munaò
Elia Munaò, nato (ahilui) in un paesino sconosciuto della periferia fiorentina, scrive per indole e maledizione dall'età di dodici anni, ossia dal giorno in cui ha scoperto che le penne non servono solo per grattarsi il naso. Lettore consumato di Topolino dalla prima giovinezza, cresciuto a pane e Pikappa, si autoproclama letterato di professione in mancanza di qualcosa di redditizio. Coltiva il sogno di sfondare nel mondo della parola stampata, ma per ora si limita a quella della carta igienica. Assiduo frequentatore di beceri luoghi come librerie e fumetterie, prega ogni giorno le divinità olimpiche di arrivare a fine giornata senza combinare disastri. Dottore in Lettere Moderne senza poter effettuare delle vere visite a domicilio, ondeggia tra uno stato esistenziale e l'altro manco fosse il gatto di Schrödinger. NIENTE PANICO!