“La vita merita di essere vissuta e mai sprecata”

Credere che un ragazzino di 16 anni fosse l’uomo più potente di Detroit nel 1986 è pressoché impossibile. È ancora più incredibile pensare che a 17 anni venne incriminato per possesso di 8kg di cocaina, con finalità di spaccio, dovendo così scontare l’ergastolo nel carcere di massima sicurezza dello Stato, per poi venir rilasciato 30 anni dopo.
Sembrerebbe uno script interessante, intrigante, degno di una mente geniale, ma, che ci crediate o no, è tutto vero.

Ispirato alla storia del più giovane signore della droga nella storia degli Stati Uniti, arriva nelle sale Cocaine: La vera storia di White Boy Rick (dal 7 Marzo al cinema).

Una madre che ha deciso di abbandonarlo, una sorella tossicodipendente, ed un padre, rivenditore di armi, totalmente impotente dinnanzi alle difficoltà della vita.
È questo il triste background che caratterizzerà la breve carriera criminale di Richard Wershe Jr. (interpretato dal giovanissimo Richie Merritt), conosciuto come “White Boy” negli ambienti criminali afroamericani, divenuto il piccolo re della cocaina di Detroit quasi per caso.
Una pellicola capace di vendersi bene, benissimo, sia per  via del surrealismo dato da una storia così folle,  sia, e soprattutto, per la presenza del premio Oscar Matthew McConaughey, vero valore aggiunto della narrazione.
La regia ad opera di Yann Demange (cineasta francese alla sua seconda esperienza dietro la camera da presa), è fluida, decisamente autoriale, con alcuni preziosismi di camera non indifferenti.
Ciò nonostante, durante l’evolversi della storia (complessivamente di 111 min.), salta subito all’occhio il fatto che l’abito messo dal regista non sia fatto su misura, e probabilmente servirà un po’ di tempo in più per oliare adeguatamente la macchina della regia, spesso ancorata ai vecchi cliché del genere. Comunque non tutto il lavoro è da buttare perché, e non è cosa da poco, l’alternanza del lavoro di Demange con quello (veramente notevole) del direttore della fotografia Tat Radcliffe, rappresenta un binomio interessante, tanto da dare spessore a sequenze che risulterebbero, a livello contenutistico, abbastanza povere.

Quest’ultimo aspetto/difetto, infatti, è senza dubbio il tallone d’Achille della pellicola. La sceneggiatura, per quanto possa nutrirsi di una storia tanto incredibile, quanto cruda, non riesce nel non troppo complesso compito di valorizzarla adeguatamente.

Eppure, da sceneggiatori come Andy Weiss e, soprattutto, Steve Kloves (colui il quale ha permesso la nascita di tutti quante le pellicole della saga di Harry Potter), ci si aspettava di più.

Cocaine, infatti, è una pellicola esageratamente e paradossalmente vuota.
Va bene la storia coinvolgente e totalmente priva di senso morale, ma se lo script è povero ed incapace di offrirti realmente la carne, e se la regia, eccezion fatta per alcune sequenze, fatica ad ingranare durante l’evoluzione della narrazione, cosa permette allo spettatore di uscire dalla sala e potersi sentire soddisfatto della visione? La risposta inizia per M e finisce per cConaughey.
L’attore premio Oscar è senza ombra di dubbio la figura capace di mandare avanti l’intera narrazione con una interpretazione ancora una volta eccezionale.
Dopo Magic Mike, incredibilmente (visto lo “spessore” di tale lavoro), è scattato qualcosa nella carriera di McConaughey, proiettandolo verso l’Olimpo hollywoodiano.

Trovata la sua identità artistica, infatti, ha iniziato ad inanellare interpretazioni magistrali come in Interstellar, The Wolf of Wall Street e, soprattutto, Dallas Buyers Club (che gli è valsa l’Oscar), trovandosi sempre più a suo agio indossando panni di ruoli introspettivi e mai trasparenti, di uomini spezzati dall’esistenza e incapaci di rialzarsi realmente.

Si è soliti dire che il tempo cancella le ferite, ma in realtà non è così. Il tempo le fa semplicemente disperdere nel passato della memoria, perché le cicatrici resteranno per sempre. È questo quello che accade a Richard Wershe Sr., il quale, nel tentativo di lasciare alle spalle un passato tanto difficile quanto struggente, e rifarsi una vita da 0, riunendo la sua famiglia, e donando nuovamente dignità al focolare domestico, non riuscirà mai a superare la sua paura più grande: la vita.

Il personaggio di McConaughey è incapace di affrontare di petto il mondo, e nonostante il grottesco ed improbabile tentativo continuo di incollare i pezzi frammentati del suo animo e della sua famiglia, continuerà ad essere perseguitato dalla sua nemesi, finendo per essere inghiottito nuovamente dalla durezza dell’esistenza.

Un padre incapace di essere un padre, un uomo incapace di essere uomo, un essere umano incapace di vivere. È questo quello che ci porta sullo schermo l’attore premio Oscar, donando da solo forza ad un’intera pellicola che, di per sé, risulta essere appena sufficiente.

Wershe Sr. come Mud  o Ron Woodroof, continua a piegarsi, su sé stesso, sotto i colpi incessanti dell’Essere, finendo per guardare al proprio interno e comprendere che non c’è altra soluzione che quella di smetterla di sopravvivere ed iniziare a vivere, seppur a fatica.
Perché è questo l’insegnamento che ci offre Cocaine e, soprattutto, Matthew McConaughey: la vita, nonostante gli errori, nonostante le avversità, nonostante i lutti, è incredibilmente importante, e merita di essere vissuta.

Leonardo Diofebo
Classe '95, nato a Roma dove si laurea in scienze della comunicazione. Cresciuto tra le pellicole di Tim Burton e Martin Scorsese, passa la vita recensendo serie TV e film, sia sul web che dietro un microfono. Dopo la magistrale in giornalismo proverà a evocare un Grande Antico per incontrare uno dei suoi idoli: H. P. Lovecraft.