Rompere gli schemi

Nelle ultime due puntate abbiamo visto due modelli di riferimento per lo sviluppo sia dei personaggi che della trama di una storia: il Viaggio dell’Eroe e le Carte di Propp. Entrambi gli schemi vanno bene sia che la storia sia un racconto breve, un romanzo, la sceneggiatura di un film o di un videogioco; alla fine, è solo questione di adattare il modello scelto alle proprie necessità.

Il vantaggio di usare uno schema di riferimento è che in genere si tratta di sistemi sviluppati sulla base di quelle che sono le aspettative di chi poi usufruirà della storia, lettore, spettatore o giocatore che dir si voglia. In pratica questi schemi sono costruiti su modelli sociali e profili psicologici ben noti e consolidati ed è per questo che sono molto utilizzati soprattutto nella produzione audiovisiva americana, dove l’attenzione per il gradimento del pubblico è quasi maniacale.

Può tuttavia capitare che lo scrittore voglia rompere questi schemi per mettere il lettore di fronte a una sfida letteraria ben definita, oppure semplicemente perché la storia da raccontare non si adatta molto bene a un modello precostituito. In effetti di esempi di storie che non seguono i modelli visti ce ne sono tante. Ad esempio, la saga di Star Trek è fondata soprattutto sul uno schema che potremmo definire di “Problem Solving”: ogni episodio presenta un problema e la soluzione arriva molto spesso attraverso un contradditorio fra un “main character”, ovvero il capitano James Tiberius Kirk, e un “impact character”, ovvero il signor Spock.

column ars scribendi maggio

Facciamo un altro esempio. Consideriamo ad esempio una saga familiare, come quella della serie televisiva “Dynasty”. In questo caso non esiste un eroe o, quantomeno, non è detto ce ne sia solamente uno. Se vogliamo potremmo pensare che l’eroe sia la famiglia, ma questa è formata da vari personaggi, con caratteri e ruoli molto diversi fra loro, tanto che eroe e antagonista, in un determinato momento del racconto, possono far parte entrambi dello stesso nucleo famigliare. Pensare quindi la famiglia come “l’eroe” non sempre funzionerebbe, specialmente sul lungo termine.

Anche identificare un eroe in ogni generazione di una saga famigliare comporta dei problemi, dato che il lettore tende spesso a immedesimarsi in un personaggio, generalmente nel protagonista o in un co-protagonista, per cui variare di continuo questo riferimento può confondere e persino irritare il lettore. Pensate ad esempio alla serie televisiva “Il Trono di Spade”, dove personaggi assunti a ruolo di protagonista vengono uccisi e sostituiti rapidamente da nuovi personaggi, magari completamente differenti. Ci vuole tempo per educare il pubblico a questo approccio e solo dando un prodotto di alta qualità lo si può convincere ad accettare questa rottura di paradigma.

Un’altra situazione classica, fra quelle non ortodosse: l’antagonista di oggi che diventa l’eroe di domani. Questo succede spesso in alcune serie televisive americane, dove il nemico dei primi episodi o della stagione precedente diventa l’alleato di quelle successive a fronte del giungere di un avversario ben più temibile. Un caso classico sono le serie della “DC Comics”. Ovviamente può capitare anche il contrario, ovvero l’alleato che diventa nemico, come Marcel Gerard nella terza stagione della serie “The Originals”.

Ci sono poi storie che sono incentrate su dilemmi interiori, che hanno finali non tradizionali o che non sono legate a un “viaggio”, reale o interiore, ma a una serie di eventi o in cui è l’evento stesso a essere protagonista, come può succedere in un documentario.

Un romanzo di guerra, ad esempio, può avere come “protagonista” una battaglia, che vede l’alternarsi di più personaggi e di storie che si intrecciano in modi anche molto complessi. Sebbene i principi che stanno alla base dei vari modelli che abbiamo visto continuino a valere, dato che sono basati su come è fatto un essere umano e come si relaziona con gli altri, non è detto che questo genere di storie possa essere rappresentato adottando pedissequamente uno schema precostituito. In alcuni casi il modello del viaggio può valere ancora ma solo per una parte della storia o per singole trame parallele che si intrecciano nel racconto.

Come affrontare quindi situazioni di questo tipo? Se non si può usare uno schema, allora bisogna usare un metodo. La differenza fra un metodo e uno schema è che mentre lo schema è molto più simile a una ricetta culinaria, cioè a una serie di ingredienti e a un blocco di istruzioni che si sviluppano seguendo un percorso ben definito, un metodo ricorda di più una cassetta degli attrezzi, ovvero una serie di strumenti il cui utilizzo è stabilito volta per volta da chi li usa, a seconda delle esigenze che si presentano.

Un metodo si basa quindi su una serie di principi o linee guida e lascia poi all’esperienza di chi lo utilizza scegliere come vada adottato.

Anche un metodo tuttavia ha un modello di riferimento, o meglio, un meta-modello, ma questo serve solo per decidere quali strumenti usare in quale momento della produzione letteraria.

Il meta-modello più classico, ma non è il solo, è molto semplice: una storia ha un inizio, uno svolgimento e una fine. Può sembrare banale ma è importante capire come questi elementi vadano affrontati e quando. Intanto vediamone il peso: la fine è quasi sempre l’elemento più corto, a volte anche solo poche pagine, anche se vi ci si arriva nel corso dell’ultimo capitolo, al massimo degli ultimi due. L’inizio è più variabile: può durare diverse pagine fino a diversi capitoli, ma è fondamentale a un certo punto stabilire un momento di transizione nei confronti dell’elemento più ampio, ovvero lo svolgimento.

La transizione dall’inizio allo svolgimento è spesso un evento; nel viaggio dell’eroe, ad esempio, è la partenza. È importante che sia riconoscibile da parte del lettore, ovvero, chi legge deve sentire che finalmente il prologo è terminato e adesso si entra nel vivo della storia. Tenete presente che un antefatto troppo lungo può dissuadere il lettore dal continuare a leggere.

Con la fine le cose possono essere molto diverse. La fine è già di per sé un evento, un punto di conclusione, quindi la transizione in questo caso può essere molto più sfumata. Magari l’evento chiave è accaduto prima, con la morte del cattivo, la conquista del regno, il salvataggio della principessa, per cui non sempre la transizione dallo svolgimento alla fine è rappresentata da un ulteriore evento; semmai spesso è una pausa. Nei film lo vediamo con il passaggio al “nuovo stato delle cose”: i nostri eroi hanno distrutto la Morte Nera e adesso possono godersi il premio per il loro eroismo, con tanto di cerimonia pubblica; oppure, il buono ha sconfitto il cattivo e può convolare a nozze con la sua bella.

Persino la colonna sonora evidenzia questo cambio di ritmo, passando da una musica in crescendo a un andante se non addirittura un adagio. Un esempio lo abbiamo nel finale del “Signore degli Anelli”, forse persino eccessivamente lungo nella sua conclusione. In effetti in un’opera ci sono sempre due conclusioni: la fine del viaggio e la fine della storia. Quasi mai coincidono, perché se lo scrittore finisce la storia quando finisce il viaggio, lascia nel lettore un’impressione di incompiuto, crea cioè un senso di brusca interruzione.

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In certi romanzi a volte c’è anche una piccola appendice alla fine della storia. In genere serve quando lo scrittore, sperando in un successo letterario, prevede un possibile seguito. Questa tecnica è piuttosto comune nei film che la produzione spera diano luogo a un filone: tutto sembra a posto quando… puntini puntini puntini. Insomma, succede qualcosa, si vede una scena o una figura di sfuggita che deve far pensare che forse non è davvero finita.

Viceversa, quando si sa già che l’opera continuerà, come nell’ultimo episodio di una stagione non finale di una serie di successo, si fa il contrario, ovvero si sospende la fine, la si tronca su un evento topico: la protagonista viene colpita da un proiettile sparato da uno sconosciuto, dissolvenza, fine. Non si sa chi è lo sconosciuto e non si sa se la protagonista morirà davvero. In genere non succederà, lo sappiamo, comunque si è creato il giusto livello di aspettativa per la stagione successiva.

Lo schema “inizio, svolgimento, fine” è uno schema frattale, ovvero si può ripetere in piccolo anche all’interno del romanzo. Ad esempio, ogni capitolo può avere questa struttura, oppure ogni scena, un dialogo, un evento importante, una storia raccontata nella storia.

Naturalmente non è il solo. Ad esempio, un romanzo o un film possono iniziare con un flashback o addirittura con un’anticipazione futura che verrà poi seguita dal vero inizio della storia. In pratica, in questo caso, la storia stessa diventa un flashback. Anche questo semplice schema non è detto sia sempre applicabile, tuttavia: bisogna capire cosa voglia dire adottarlo o meno. Se inizio con un’anticipazione, questa deve essere forte, creare attesa, che quindi non posso poi deludere man mano che la lettura andrà avanti. Quindi, non anticipate solo per il gusto di farlo. Analogamente, se immergo una storia in un’altra storia, devo decidere se il lettore deve realmente astrarsi, dimenticare il filone precedente per concentrarsi su quello temporaneo, come succede nelle “Mille e una Notte”, oppure se deve continuare a mantenere un parallelismo perché in realtà qualcosa che succede nella nuova storia ha influenzato o influenzerà quella principale.

Stabilito quindi che possiamo avere più meta-modelli, se ne sceglie uno e si inizia a riempirlo di contenuti. Quale scegliere è una questione di esperienza: dipende dalla trama e dipende da quello che vogliamo suscitare in termini di emozioni nei nostri lettori.

E veniamo al metodo. La prima cosa da fare è scrivere tutta la storia in poche righe. In pratica, se riuscite a scrivere una sorta di sinossi a priori della storia, allora avete una struttura robusta su cui costruire. Se invece vi perdete nei dettagli perché non riuscite a sintetizzare le idee che avete in testa, rischiate di costruire un groviglio che poi sarà difficile sbrogliare. Un esempio del genere è la serie televisiva “Lost”, che ha prodotto così tanti elementi sui cui non è riuscita davvero a concludere, da lasciare più di uno spettatore deluso, sebbene abbia i suoi fan.

La seconda cosa da fare è chiarire due momenti topici della storia: l’evento chiave e la fine. La sinossi ci dice qual è la storia, di cosa si tratta; l’evento chiave definisce invece come il tutto trovi una sua realizzazione; la fine deve essere il punto di addio fra autore e lettore. Non sempre la fine è spettacolare — in genere lo è l’evento chiave — ma deve essere capace di far chiudere il sipario con quel senso di perdita riconducibile a un “peccato che sia finita” seguito da un “però ne è valsa la pena”. Nessuna aspettativa insoddisfatta, nessun rimorso.

A questo punto si divide più o meno il romanzo in capitoli e si assegnano i vari capitoli agli elementi in questione. Un buon autore, che sa che sta sviluppando non solo un’opera artistica ma un prodotto commerciale e sa che poi questo dovrà essere realizzato, ovvero stampato, girato, sviluppato sotto forma di video gioco, sa anche che deve dare al produttore degli elementi opportunamente impacchettati. Una sceneggiatura che preveda di girare in venti location diverse potrebbe costare troppo; un libro che fosse più di 400 pagine potrebbe spaventare l’acquirente; un videogioco con troppi non-personaggi o troppi elementi scollegati potrebbe alla fine diventare caotico. Bisogna trovare il giusto equilibrio.

Ho deciso di scrivere 300 cartelle? Bene, diciamo che ho 15 capitoli e quindi che ognuno sarà di 20 cartelle, ovvero dalle 30mila alle 36mila battute. Questo non vuol dire che quando scriverò un capitolo dovrò per forza stare in quell’intervallo, ma una certa uniformità in termini di dimensioni dei vari capitoli è un buon strumento di organizzazione della storia e anche del tempo che lo scrittore dedica all’opera, specie se ha una scadenza per la consegna del manoscritto.

A questo punto, quanti capitoli dedico all’inizio? Quanti alla fine? Deciso questo so più o meno quanto devo scrivere per introdurre la storia, presentare i personaggi, costruire le condizioni perché le cose si sviluppino poi come ho pianificato.

In pratica, se ho fatto bene il mio compitino, sarà possibile scrivere una sorta di sinossi per ogni capitolo, ovvero stabilire più o meno cosa avverrà in quel capitolo. Non è necessario entrare nel dettaglio e, in linea di massima, ha senso solo riportare il flusso principale della storia, altrimenti rischio di ingabbiare troppo l’ispirazione. Devo sempre partire dal presupposto che la storia si scriverà… man mano che la scriverò. Creare tuttavia un percorso aiuta, persino quando, a un certo punto, deciderò comunque di deviare: quantomeno saprò di quanto mi sono allontanato dall’idea iniziale e se è il caso di ritornarvi più avanti o di rivedere lo svolgimento del racconto.

Ovviamente assumo di aver già costruito quantomeno i personaggi principali, come abbiamo visto nella seconda puntata. Ora devo decidere quando farli apparire nella fase iniziale della storia. Con chi inizio? Come lo presento? Perché? Da qui poi porto sulla scena, uno per uno, tutti i personaggi importanti, a meno che qualcuno non debba apparire in un momento specifico dello svolgimento della storia. Spesso nell’inizio si presentano comunque tutti i personaggi più importanti, incluso l’antagonista, anche se non si svela necessariamente subito il loro ruolo. Nel film “Guerre Stellari” Obi-Wan Kenobi compare abbastanza presto, ma solo dopo acquisisce una sua rilevanza. Stessa cosa Gandalf in “L’Hobbit”. Questo si fa per far abituare il lettore a quei dati personaggi, per dargli il tempo di capirne il carattere, le caratteristiche. Un personaggio importante introdotto dopo, nel vivo della storia, può mettere in difficoltà il lettore a meno che non si crei poi uno spazio opportuno per generare il giusto livello di confidenza con il nuovo arrivato.

Ovviamente, ognuna di queste “regole” può essere violata ed esempi ce ne sono a iosa sia nella letteratura che nel cinema, ma il punto non è se violare o meno la regola, ma perché farlo. Cosa suscito nel lettore se uccido a un certo punto un certo personaggio?

Facciamo un esempio. Abbiamo un eroe e qualcuno gli uccide la moglie; a questo punto lui pianifica e porta a termine la sua vendetta. Un classico. Qui non è drammatico uccidere la donna, anche se creo subito un dolore nel lettore che si sta affezionando al protagonista, perché non gli ho dato il tempo di conoscere e affezionarsi anche alla moglie. Caso opposto: storia travagliata di un amore ostacolato dall’antagonista. Alla fine il cattivo muore ma rimane uccisa anche la moglie del protagonista, magari nel cercare di salvare quest’ultimo. Qui ho un effetto drammatico e pur tuttavia accettabile. Fa parte del gioco la morte a fine romanzo. In questo caso è il fatto che la storia sia finita a far sì che il lettore non porti a lungo il lutto. Ma che succede se la moglie la faccio morire a metà romanzo, quando il lettore ci si è ormai affezionato, costringendolo poi a leggere il resto del romanzo senza di lei? Questa è la situazione peggiore, che può creare una reazione negativa in chi legge; infatti ben pochi la adottano.

Ecco allora che rompere un paradigma vuol dire suscitare in chi legge una reazione: devo essere sicuro che sia quella che voglio io e che sia funzionale alla storia.

Passiamo alla fine. Come si conclude una storia? Innanzi tutto, a meno che non abbia lasciato qualcosa in sospeso volutamente per un eventuale sequel, devo assicurarmi che tutti i fili che ho tirato abbiano un capo. Il lettore non si deve domandare: “Ma che fine ha fatto quel personaggio?” oppure “Ma allora, cos’era davvero successo quella volta?”. In pratica, devo essere sicuro che ogni personaggio secondario — escudo le comparse, ovviamente — abbia avuto anche lui la sua conclusione nel corso della storia. Se non è così, questo è il momento giusto per farlo, anche perché non ne avrò altri! Ovviamente, dato che la fine deve essere abbastanza corta, devono essere pochi i personaggi secondari menzionati nell’ultimo capitolo o quantomeno li devo raggruppare e dare una collocazione a ogni gruppo. Analogamente, qualsiasi evento sia rimasto in sospeso, qualsiasi mistero sia rimasto irrisolto, devo darne ora risoluzione. Non devono restare domande in sospeso.

La fine è anche uno dei momenti “emotivi” della storia: la conclusione deve creare un’emozione precisa nel lettore: soddisfazione, gioia, tristezza, malinconia, senso di perdita. L’unica emozione da NON creare è la rabbia, perché la rabbia è un’emozione che richiede un seguito, al contrario di altre emozioni “negative” come la tristezza o la delusione che sono comunque “definitive”. Quindi, un consiglio: non fate “arrabbiare” il vostro lettore proprio alla fine!

Sullo svolgimento c’è poco da dire, o meglio, ci sarebbe molto, ma solo entrando in merito di specifiche tematiche, perché lo svolgimento è la storia vera e propria, quindi è qui che l’autore impegna tutta la sua creatività, oltre che la tecnica. Di questo, quindi parleremo un’altra volta. Vedremo ad esempio come si sviluppa un dialogo, come si descrive una scena, come si genera una specifica emozione, e così via. La prossima puntata, tuttavia, sarà una sorta di inciso, ovvero parleremo di tutto ciò che si deve fare per scrivere un romanzo purché non sia… scrivere.

A cura di Dario De Judicibus