Un elogio della sconfitta

Gli appassionati di videogame e quelli di eSports negli ultimi giorni hanno assistito allo svolgersi di una dolorosa vicenda. La sparatoria di Jacksonville in Florida ci ha costretto a fare di nuovo i conti con la dura realtà della diffusione delle armi sul suolo statunitense, ma ha portato con sé ulteriori strascichi, a cui pochi hanno realmente dato considerazione.

No, non stiamo parlando del nuovo attacco rivolto alla presunta devianza sociale derivata dal videogioco, secondo un’ingenua corrente di pensiero dura a morire. Ma andiamo per ordine e tentiamo, per quanto possibile (le indagini sono ancora in corso mentre scriviamo questo editoriale, e non possiamo escludere nuovi sviluppi) di ricostruire la vicenda.


Nel weekend appena trascorso Electronic Arts ha organizzato un torneo dedicato a Madden NFL 2019. Si tratta di un gioco che per noi europei non gode di elevata popolarità, ma che per gli statunitensi è un “must have” videoludico: un gioco dedicato al football americano, quella variante del nostro rugby. Ogni anno il Superbowl, l’evento finale della stagione destinato a sancire il campione, diventa un momento di sospensione per gli Stati Uniti e i suoi abitanti, capace di attirare tanto i fan adoranti quanto i mass media e gli sponsor.

Una premessa doverosa, per cercare di far capire quando, di riflesso, fosse importante l’evento eSport organizzato attorno al gioco di EA e, di conseguenza, il risalto (ulteriore) avuto dal caso mediatico negli States e quindi nel mondo.

Gli eSports sono un movimento in continua crescita. Questo perché riescono a trasformare sempre più in un fenomeno di massa qualcosa di casalingo e familiare come il videogioco, qualcosa in cui tutti noi conosciamo e amiamo. Sempre più brand decidono di indire competizioni per eleggere i migliori videogiocatori al mondo, uno spirito di competizione capace di elevare il semplice intrattenimento proprio del videogames a uno sport. Applicare a Pokémon, Madden NFL, Fifa o Splatoon lo spirito di Pierre de Frédy, barone di Coubertin, quel dare il massimo per entrare a far parte di una élite sportiva.

Chissà se David Katz conosceva De Coubertin. Difficile dire con quale umore il giovane si sia approcciato a questo torneo. I suoi avversari hanno detto di averlo visto “strano” nel corso della manifestazione. David parlava poco con gli altri giocatori. Se ne stava in disparte, isolato, concentrato su quello che era il suo obiettivo. Vincere, a qualsiasi costo.
Purtroppo l’obiettivo prefissato è rimasto un miraggio: David è stato sconfitto.

Questo evento avrebbe fatto scattare qualcosa in lui: deluso, amareggiato e, stando agli investigatori, incapace di accettare la sconfitta, avrebbe preso una pistola e aperto il fuoco sugli spettatori e gli altri partecipanti al torneo, uccidendone due, Taylor Robertson e Elijah Clayton, e ferendone altri nove, prima di rivolgere l’arma contro di sé per togliersi la vita.

David era stato un campione di questa competizione. Nel 2017 aveva vinto un torneo a Buffalo, ricevendo anche i complimenti della squadra di football locale, i Buffalo Bill. Una vittoria che gli era valsa un certo prestigio nel mondo degli eSport e la partecipazione a un torneo a Los Angeles, oltre a un premio di 10000 $.

Insomma, la stella di David Katz, dal 2017, sembrava in ascesa. Si era costruito un nome e nel mondo delle competizioni era diventato famoso per il suo comportamento, così glaciale. Di certo questo modo di fare gli aveva alienato la simpatia di molti, attirandosi anche la nomea di baro per il suo gioco rude, volto a innervosire gli avversari a proprio vantaggio. Lo stesso speaker, al momento di presentarlo a quel fatidico torneo di Madden NFL, si era lasciato scappare un semplice commento sul suo comportamento: “Non è qui per farsi degli amici”. Un concetto che, in qualsiasi modo la si possa vedere, sembra alieno a quella che dovrebbe essere la natura di una competizione sana. Forse è il romanticismo a parlare, ma la mente corre subito a Jesse Owens e Luz Long, i quali nonostante appartenessero a nazioni rivali e nonostante fossero stati divisi dalla guerra, riuscirono a instaurare un’amicizia in quella manifestazione Olimpica del 1936, un sodalizio che durò fino alla morte del secondo e anche oltre, quando Owens patrocinò gli studi del figlio di Long.

Quello che lascia attoniti in questa vicenda è appunto l’importanza data da Katz alla vittoria. Non alla competizione, semplice mezzo per riuscire a ottenere uno scopo. Per quel ragazzo di Baltimora, già vincitore di altri tornei, trionfare era tutto. Anche nelle parole del suo avversario riscontriamo questa sua ossessione, quando ricordando la vittoria ottenuta contro di lui al torneo di Jacksonville ha cercato di congratularsi per la bella partita e stringergli la mano, salvo ottenere nient’altro che uno sguardo vacuo, distaccato da tutto ciò che stava accadendo attorno a lui.

La vittoria. Una chimera da inseguire sempre, negli eSports come nella vita. Questo è un punto della tragedia di Jacksonville che non è stato discusso adeguatamente. Certo, la diffusione delle armi sul suolo americano è folle e incontrollata, era e resta oggetto di discussione, per la quale rimandiamo comunque ad altri lavori (a distanza di oltre quindici anni resta tristemente attuale il documentario di Michael Moore del 2002 “Bowling a Columbine”). E ovviamente non sono mancati anche in patria attacchi contro i videogiochi, vero motivo del degrado sociale secondo alcune testate del nostro paese.

Un altro è l’aspetto interessante e che vale la pena analizzare in questa vicenda, qualcosa che non è stato preso in sufficiente considerazione: la cultura della vittoria che vige in tutta la nostra società contemporanea.

David voleva vincere. Nient’altro era importante. E la sconfitta è stata per lui la fine di un’identità che si era costruito con fatica, quell’identità da vincente che la società aveva imposto a lui come a tutti noi. La sconfitta è qualcosa da evitare, un’umiliazione che priva le persone del proprio status, rendendo gli individui meno individui. Perdenti.

Taylor Robertson e Elijah Clayton, vittime del massacro di Jacksonville

Nel linguaggio comune essere un perdente è un insulto ormai generalizzato: un modo per porre la persona su un gradino più in basso rispetto a chi ha lanciato questa accusa e, per contro, elevare se stessi e la propria posizione. In fondo cosa importa che l’erba del proprio giardino non sia così verde, se si può dire al mio vicino che la sua è messa peggio. E questo assume spesso tratti paradossali, come immaginare la sconfitta anche laddove essa non esiste.

Un piccolo esempio: la scelta di molte persone di andare in analisi è vista ancora oggi, dalla maggior parte della gente, come qualcosa di scandaloso, un motivo per burlarsi di chi ricorre a questo mezzo di supporto psicologico. Nei fatti molti nella nostra società considerano l’assimilare questa condizione a una sconfitta. Lo stesso può dirsi della scuola, quando un ragazzo viene posto di fronte allo spettro della bocciatura, o di fronte al lavoro, quando magari si è costretti ad accettare un incarico meno prestigioso di quello che le competenze di una persona potrebbero permettergli di ottenere. Sconfitte che si trasformano in una gogna, un’esposizione al pubblico ludibrio.

Perché?

Perché dobbiamo essere tutti vincenti.

Perché nulla di buono e utile può derivare dalla sconfitta.

Perché tutto, nella vita, è assimilabile a una guerra.

Perdere non è più visto come qualcosa di naturale. Un tentativo fallito su un percorso, un tentativo che potrà essere ripetuto, ammaestrati da quanto è successo. La sconfitta non è più un tentativo di migliorarsi, ma è la fine. Non può esserci niente dopo.

jacksonville

Molti anni fa la maestra di scuola elementare Rosaria Gasparro espose un pensiero che, per la profondità e la vicinanza di contenuti, il popolo della rete ha recentemente trasformato in una citazione di Pier Paolo Pasolini. Nella prima frase di quell’intervento della Gasparro può essere colta l’essenza stessa di un’idea impopolare e mai del tutto compresa “[…] educare le nuove generazioni al valore della sconfitta”.

Belle parole. Potenti e capaci di dare anche una nuova prospettiva alla tragedia di Jacksonville. Non possiamo sapere molto di David Katz al momento. Certo, quando i media vorranno sviscerare la storia della sua vita per mettere il mostro in pubblica piazza forse ne sapremo di più.

Dando per scontato che quanto raccontato dai suoi avversari sia vero e quindi che, come ricostruito dagli investigatori, David abbia compiuto questa follia sconvolto dalla vergogna e dalla rabbia di aver perso, possiamo chiederci se forse non si sarebbe potuto evitare tutto ciò se fosse stato preparato a perdere. Se per tutta la vita la sua testa non fosse stata riempita dal concetto che l’unica cosa realmente importante era la vittoria, unica vera meta da raggiungere.

Forse ciò che è realmente mancato a quel ragazzo di Baltimora è l’autentica capacità di approcciarsi a questa competizione come se fosse una disciplina sportiva. La capacità di trasformare le emozioni negative scaturite dalla sconfitta, la rabbia, la frustrazione e l’umiliazione, in un carburante capace di portarlo verso una nuova meta. Per l’atleta la sconfitta è qualcosa di inevitabile, che prima o poi arriverà, a patto di sapersi poi rialzare. Una mancanza, quella di David Katz, che ha gettato un’ombra sul mondo degli eSports, disciplina giovane e che ancora stenta a trovare credibilità e riscontri presso il grande pubblico.

Del resto, per rubare le parole all’immortale Robert Louis Stevenson, “Il compito nella nostra vita non è di trionfare, ma di continuare a cadere serenamente”.

Federico Galdi
Genovese, classe 1988. Laureato in Scienze Storiche, Archivistiche e Librarie, Federico dedica la maggior parte del suo tempo a leggere cose che vanno dal fantastico estremo all'intellettuale frustrato. Autore di quattro romanzi scritti mentre cercava di diventare docente di storia, al momento è il primo nella lista di quelli da mettere al muro quando arriverà la rivoluzione letteraria e il fantasy verrà (giustamente) bandito.