Abbiamo intervistato i due autori di Salvezza. Ecco cosa ci hanno raccontato.

Allora, parlateci della vostra esperienza sull’Acquarius… Cosa diavolo vi è saltato in mente?

Rizzo: È coerente con le nostre follie. Intanto l’opportunità che ci ha concesso Feltrinelli di poter fare una cosa del genere. Non è il “solito” (non per sminuirli, ma è che ne abbiamo fatti tanti) approccio legato alla ricostruzione di fatti realmente accaduti, è quasi una ricostruzione in presa diretta. Dico “quasi” perché non abbiamo potuto fare materialmente il fumetto a bordo, ma poco dopo. Però è coerente con quello che volevamo raccontare: storie che ci aiutino a capire il presente, che forniscano informazioni, storie che aiutino a gettare luce su vicende che sono poco note o poco chiare su cui, purtroppo, si tende a straparlare. Quindi, ci è “saltato in mente” di fare un’avventura, una crociera, come ha detto qualcuno, che però ci aiutasse a capire meglio il fenomeno dell’immigrazione che avevamo già affrontato nell’Immigrazione spiegata ai bambini, con delle storie brevi su Wired e su un’antologia di BeccoGiallo, ma che aveva bisogno di più respiro.

È stato il vostro primo contatto in assoluto col mondo della cooperazione o avete fatto altre esperienze in passato?

Rizzo: In maniera così strutturata, sì. I libri precedenti erano stati realizzati, sia per quanto riguarda l’Immigrazione spiegata ai bambini, sia per il mio romanzo uscito qualche mese fa Lo Scirocco femmina, con alla base i racconti raccolti in dei centri d’accoglienza. Quindi sono potuto entrare nei centri d’accoglienza per raccogliere la documentazione. Il viaggio con l’Acquarius, invece, è stato organizzato con l’aiuto di una giornalista, Francesca Mannocchi dell’Espresso e di La7, che era già stata a bordo.

Com’è cambiata la vostra percezione del fenomeno della migrazione dopo questa esperienza? Se è cambiato, ovviamente, perché immagino che guardare la tv, leggere un giornale o vedere le cavolate su internet sia completamente diverso da vivere un’esperienza in presa diretta. Prima abbia guardato qualche foto che condivideva Marco sui social e immaginiamo che non sia facile digerire cose di questo tipo.

Assolutamente no. Infatti quando prima avete fatto la domanda, mi è saltato in mente: perché no? Perché non andare a vedere realmente come sono le cose? Noi quello che abbiamo trovato è che qui non si tratta solamente di una questione di migrazione, di gente che parte alla ricerca di una nuova vita. Si tratta del fatto che in questo momento ci sono dei veri e propri lager, degli autentici campi di concentramento, dove la gente muore per una sciocchezza. È questa la cosa che non è chiara, e che soprattutto c’è una responsabilità non solo da parte dell’Italia ma di tutta la comunità europea. Vediamo anche su internet come si comporta la guardia costiera libica rispetto a queste persone. Ma i mezzi, a questi qui, chi li dà? C’è una grossa responsabilità se migliaia di persone perdono la vita e nessuno saprà mai esattamente quante sono. Perché oggi ci si vanta del fatto che gli sbarchi sono diminuiti, ma questi numeri che mancano stanno mancando perché quella gente muore nelle prigioni libiche o in mare. È una cosa accettabile?Certo che no. Ed ecco perché abbiamo fatto quello che abbiamo fatto. Riguardo alla percezione vi posso dire, rispetto a quello che anche noi vedevamo del fenomeno in tv, è che un’esperienza lì è un’esperienza totale, presente. È completa anche dei sensi. Quando abbiamo visto le prime persone arrivare a bordo, al primo salvataggio, c’erano degli elementi che colpivano che erano impossibili da percepire attraverso lo schermo del televisore. Senti le grida, senti i pianti, senti i genitori che dicono “prendi mio figlio, prendi mio figlio”, i bambini strillare, senti gente che festeggia perché viene salvata. Poi ci sono altri sensi che nessuna trasmissione televisiva potrà mai coinvolgere e neanche il nostro fumetto potrà riuscirci. Ma potete immaginare: 150 persone che vengono da situazioni drammatiche che si vomitano addosso, che si urinano addosso… Non è certamente piacevole. Gli odori completano i sensi e rendono l’esperienza totale. E rende anche nella sua portata, perché pur avendo affrontato questo argomento dai centri di accoglienza, che vuol dire intervistare le persone una a una e poi tornarsene a casa, dalla nave non puoi scappare e lo vivi continuamente.

Sfogliando il vostro lavoro abbiamo cercato di basarci sui sentimenti che volevate comunicare. Oltre a tutte le cose che potete aver vissuto, dormire sulla nave e tante altre, è importante capire le sensazioni vissute dal vivo e quelle che potete trasmettere tramite il vostro lavoro. Una è stata l’ammirazione per quello che avete fatto. E un’altra è stata una forte tristezza, che passa attraverso la sofferenza delle persone. Però sembra quasi una tristezza che deriva dall’impotenza. Qual è l’emozione che è stata più coinvolta durante il viaggio e qual è quella che volevate trasmettere?

Rizzo: Mi hanno colpito moltissimo gli sguardi di quelli che salivano sulla nave. Perché appena salgono, molti non sanno dove li stai portando, hanno paura di essere riportati indietro. Loro hanno il terrore assoluto di essere riportati in Libia. Quando capiscono che sono salvi, ti guardano con quegli occhi di persone che hanno visto cose allucinanti: gente imprigionata, uccisa… Ti guardano e ti dicono grazie. Io ho sentito un grande senso di colpa da parte dell’Occidente intero che, parliamoci chiaro, vive al di sopra delle sue possibilità perché ci sono popoli che soffrono determinate cose. Poi una cosa ci ha fatto commuovere è stato il primo rescue. Siamo usciti sul ponte, ci siamo avvicinati a questo gommone che era a tipo cento metri, pieno di persone che urlavano, sbracciavano… Ma non era finto. Era vero. Questi gridavano e dicevano “aiutateci”, perché da un momento all’altro potevano affondare. Quando sono saliti ed eravamo lì, con la macchina fotografica, sul boccaporto dove vengono tirati a bordo e li vedevamo piangere, pregare, saltare dalla gioia, mi è venuto da piangere. Mi tremava la mano sulla camera, perché era troppo.

Troppo. E lì riprendi, ti spogli di qualsiasi sovrastruttura e cogli il senso dell’umanità. Lì, secondo me, l’essere umano sente il senso della fratellanza perché capisci che quello è un altro te, ti liberi di tutti gli orpelli e delle cavolate che ti porti dietro, vieni ridotto all’osso. Infatti tutti quelli che vivono l’esperienza della nave diventano, per te, una specie di tribù: tu li riconosci, gente che sanno cosa hai provato e questo vi accomuna. Quando siamo tornati la cosa allucinante è che siamo entrati in una routine di normalità e questo mi ha fatto incazzare. Prima avevi a che fare con persone che avevano subito soprusi, stupri, atti di violenza e lì era quella la normalità. Poi una volta tornati nel mondo di tutti i giorni vedevo la gente e mi arrabbiavo, dicevo “ma come? Continui a fare finta di niente mentre succedono cose del genere?”. Sotto questo punto di vista il fumetto è stato terapeutico. Abbiamo vissuto un turbinio di emozioni che probabilmente non siamo riusciti a controllare, una sorta di flusso di coscienza perenne.

Bonaccorso: La prima sensazione una volta scesi è stata l’incazzatura, ma una volta saliti sulla nave è stata la commozione, che è spesso legata alla rabbia.

Rizzo: Per quel che mi riguarda invece l’incazzatura mi è rimasta addosso. Io sono una persona passionale e le cose mi rimangono attaccate. M’incazzo quando penso che si potrebbe fare di più e non si fa… Voi avete letto il libro e l’avete recensito con grande attenzione, quindi avete presente quella scena dove noi ci siamo trovati ad attendere i libici per quattro ore con la gente che dal gommone si sbracciava che voleva essere salvata… E noi lì ad attendere senza sapere bene che cosa, ignorando ogni legge del mare aspettando che arrivassero quelli da Tripoli. Lì non puoi che incazzarti.

Bonaccorso: Stare lì, con tutti quelli che ti chiedono perché non li sta salvando…

Rizzo: E dopo l’incazzatura arriva la tristezza perché l’indomani i libici hanno fatto una conferenza stampa dove hanno detto che in quel tentativo di salvataggio sono morte trenta persone. Dicendo “divorate dagli squali”, che era proprio una stupidaggine perché ci siamo anche confrontati con degli esperti della Marina che ci hanno detto che lì squali non ce ne sono. O, se ci sono, non sono di quelli aggressivi che divorano le persone. Quindi, lì arriva la tristezza oltre la rabbia, perché queste persone potevano essere vive se ci avessero fatto fare il nostro lavoro. E dico “nostro” anche se noi eravamo lì a testimoniare. E queste sono persone piene di malattie non curate, donne sistematicamente stuprate nelle prigioni…

Bonaccorso: Ma ti ricordi di quello che è venuto da me a dire che aveva la malaria, il colera, cose così… E io chiedo al medico:”Oh, questo mi dice che c’ha il colera, che gli devo rispondere?” e lui mi fa “Non ti preoccupare, tutti dicono di averlo. Se uno riesce a parlarti, vedrai che non sta poi così male”.

Rizzo: Perché avevano la scabbia e pensavano che fosse altro.

Ma come si fa a dormire dopo una cosa del genere?

Rizzo: A bordo dormivano per stanchezza perché le giornate erano tremende, molto intense, anche prima che arrivassero i migranti perché abbiamo trovato parecchio maltempo.

Bonaccorso: Poi con 200 pagine in quattro mesi non abbiamo dormito neanche dopo.

Rizzo: Esatto. Al di là di questo, io ogni tanto me li sogno. Faccio dei sogni che mi riportano a bordo dell’Acquarius. Sono ipersensibile riguardo a questo tema. L’altra volta ho rivisto Terraferma e sono rimasto un’ora sul divano così, a fissare il vuoto. Sono esperienze che ti segnano. Alla fine, abbiamo anche assistito ad una cosa a lieto fine perché c’erano 1000 persone e tutte sono state salvate, tra cui molti bambini. Ci sono tante persone che abbiamo ritrovato dopo e ci hanno raccontato le loro storie. C’era un ragazzo eritreo che si stava laureando ad Asmara e poi ha preso una borsa di studio ed è all’università di Stoccolma. Una ragazza che parlava inglese, molto intelligente, che ci ha fatto da traduttrice, anche lei eritrea, ora sta in Germania in una casa famiglia… Quindi ci sono tante belle notizie, oltre le tragedie che ci sono state, perché abbiamo avuto anche una donna morta a bordo. A me fa tristezza pensare a tutte quelle persone di cui non sappiamo nulla, che muoiono nel deserto, nelle prigioni, in mare… Di quelli non sappiamo niente.

Secondo te questo fatto è un problema di informazione o di desensibilizzazione?

Rizzo: È un problema enorme. È un problema sociale, sociologico e politico. Banalmente, politicamente tu non puoi raccontare esattamente cosa succede in Libia, non puoi dire che stai finanziano i libici se poi si scopre che questi soldi stanno arrivando alle stesse milizie che gestiscono i centri di detenzione che sputano sui diritti umani. Non puoi promuovere i diritti umani se fai accordi con una nazione che già ai tempi di Gheddafi non aveva firmato la Convenzione di Ginevra. Prima di tutto è una questione di faccia, sociale e sociologica perché oggi siamo martellati continuamente da immagini diverse tra loro per cui tutto si mescola e tutto si perde. Non hai più la percezione del fenomeno. Ma questo è un problema sociale in cui certa politica sguazza per fare della propaganda. Del resto, questo succede quando spari numeri a caso senza spiegarli o contestualizzarli. Quando dici che ci sono il 70% di sbarchi in meno e non dici come è successo, come ha fatto il nuovo Ministro dell’Interno che ha promesso 500 mila rimpatri senza specificare dove mandarli, perché ci sono nazioni che non accettano i rimpatri. Quando spari numeri così a caso non fai altro che gettare fumo negli occhi.

Bonaccorso: Ma voi, vi faccio una domanda, quanti italiani vedete in giro che si fermano a fare delle domande ai giovani che stanno qui fuori a chiedere soldi o che sono nei centri? Se la gente si fermasse a parlare con loro e non avesse nessun pregiudizio, saprebbero tutto di loro. Se sei un giornalista e vuoi veramente sapere cosa succede in Libia, chiedilo a uno di loro, non tirare fuori statistiche a casaccio. È sempre come diceva De Andrè: il dolore degli altri, è sempre un dolore a metà. Se la gente vedesse quello che abbiamo visto noi, non si farebbero questi discorsi perché si vergognerebbero.

Perché un giornalismo per immagini e non un giornalismo fotografico?

Rizzo: Perché siamo fumettisti, siamo appassionati di fumetti.

Bonaccorso: E perché le foto non le sappiamo fare.

Rizzo: Anche. Ma io sono convinto che il fumetto abbia una forza pazzesca, sia universale. È un mezzo potente, sempre più diffuso. Proprio a Catania, quando siamo stati a presentare il libro, è venuto da noi un ragazzo gambiano che era stato soccorso dall’Acquarius un anno fa. Noi non lo conoscevamo, ma una nostra amica lo ha portato alla presentazione. E ha detto a Lelio: “Ma tu sei stato in Libia?Allora come hai fatto a disegnare così bene queste cose?” Poi ci ha detto: “Grazie, perché con questo libro io farò capire ai miei amici italiani cosa ho passato”. Quel ragazzo parlava pochissimo italiano, eppure la forza delle immagini, del fumetto, gli ha fatto capire di cosa stavamo parlando.

Il limite del graphic journalism secondo voi è un limite dato dalla sua vendibilità o dalla sua difficoltà di indagare i fatti?

Rizzo: Banalmente, secondo me la prima difficoltà è tecnica, legata ai tempi per realizzare un’opera di graphic journalism. Lelio ha fatto il miracolo: 200 pagine in 4 mesi è un ritmo insostenibile. Se devi raccontare qualcosa di realmente accaduto devi scrivere e disegnare in un tempo il più vicino possibile a quei fatti. Devi correre e spesso devi farlo per due lire, perché il sistema editoriale non ti permette di dedicarti intensamente a un lavoro di questo tipo. Noi abbiamo avuto alle spalle Feltrinelli e Tito Faraci che da quel punto di vista ci hanno aiutato tantissimo. Poi c’è anche un problema legato ai pregiudizi del fumetto, per molti il graphic journalism non è abbastanza degno per parlare di argomenti di questo tipo. Ma questo sta un po’ cambiando, da quando io e Lelio abbiamo iniziato.

Qual è il vostro prossimo progetto?

Rizzo: Dormire.

Bonaccorso: Stiamo lavorando su alcune proposte, ma poi vedremo. Per ora, quella di dormire non è una cattiva idea. Anche perché siamo ancora nella fase di promozione del libro che per fortuna sta andando bene. Ma per questo dobbiamo ringraziare Feltrinelli, che ci ha mandato in viaggio sulla nave, e Tito, con cui ci siamo sentiti mentre eravamo a bordo e ci sta spalleggiando in ogni modo. A dimostrazione del fatto che se uno vuole fare una cosa, la fa. In particolare, loro sposano proprio il nostro pensiero. Ed è un valore aggiunto.

Grazie per il vostro tempo.