Milano. La cornice è quella della Microsoft House in Via Pasubio, punto di riferimento per l’azienda di Bill Gates in terra italica e per gli amanti della nerditudine in generale.
In effetti, a vederlo, sembra provenire da un’altra epoca, da un futuro vicino e allo stesso modo lontano, cosa che del resto accomuna tanti altri edifici del capoluogo lombardo, forse l’unica città della penisola capace di guardare con consistenza verso il domani. È proprio di futuro che parla la conferenza di Gamerwall, start-up italiana che si occupa di tematiche complesse come gaming ed eSports in una maniera nuova ed innovativa, tanto da meritarsi l’attenzione delle più grandi realtà videoludiche.

Non a caso, a presenziare l’evento troviamo Paolo Bagnoli, il direttore della divisione Xbox per quanto riguarda l’area mediterranea. “Noi siamo da sempre presenti e attivi nel campo dell’intrattenimento”. “L’Xbox One è la console più potente al mondo – spiega Bagnoli – e proprio per questo abbiamo deciso di supportare una realtà come Gamerwall, un qualcosa di inedito a livello nazionale che sta facendo molte cose importanti nel campo degli eSports, dove al momento ci troviamo all’anno zero perché per la prima volta ne stiamo parlando in maniera seria. Ed è un dovere nostro, in quanto Microsoft, aiutare questo settore affinché possa crescere.”

Un settore che, negli ultimi anni, sta vivendo una grande riconsiderazione, una sorta di rilettura che pare averla avvicinata anche agli ambiti a cui normalmente non riusciva a parlare, più per una chiusura quasi ideologica nei suoi confronti che per un’incomunicabilità di fondo. Ma dove si innesta, in questo senso, il contributo di Gamerwall? “Il progetto Gamerwall – racconta Gianpiero Miele, CEO della società – è nato da tre amici, laureati, con la passione dei videogiochi. Inizialmente, avevamo creato un portale di informazioni pensato soprattutto per noi, per far conoscere la nostra passione e il nostro punto di vista per quanto riguarda giochi, titoli e tornei. Successivamente mi sono reso conto che c’erano alcuni problemi che andavano affrontati. Quante volte mi sono sentito da mia madre, da mio padre: ‘I videogiochi sono solo una perdita di tempo. Non ti porteranno mai un lavoro e non ti porteranno mai da nessuna parte nella vita?
Io mi sono accorto, dopo aver lavorato, dopo aver studiato economia, che con il passare del tempo il mondo dei videogiochi stava diventando sempre più grande e che il mercato era uno dei pochi a crescere costantemente. Quindi in realtà portano lavoro, portano soldi. Sentivamo che era importante cercare di far capire questa visione del fenomeno, partendo dagli ambiti dello studio. Ci siamo allora chiesti: ‘Come portare il mondo dei games nelle università?’ Perché è negli atenei che spesso si trovano le possibilità per presentare le proprie idee, gli spazi adatti per concedere una gestazione, così da vedere quali cambiamenti potrebbero causare. Anche perché quelle aule sono piene di ragazzi che hanno un certo feeling coi videogames.

“Volevamo unire due realtà considerate diametralmente opposte, agli antipodi – aggiunge Miele – quella dello studio e quella del gaming. Abbiamo deciso di dare vita al progetto University League, creando questo format che consente agli studenti di praticare il gioco all’interno della propria università attraverso un percorso a tappe, che incentiva lo studio e l’interazione sociale. Così,ì i giovani si riuniscono per partecipare alle diverse competizioni, dando vita a dei processi di integrazione che poi potrebbero essere impiegati per facilitare lo studio”.

Anche perché, spesso, nelle università arrivano ragazzi provenienti da diverse regioni che si trovano ad interagire in contesti per loro nuovi dove rischiano di sentirsi come i proverbiali pesci fuor d’acqua. “Per esempio – racconta Miele – è capitato che due studenti provenienti da Bari, che non sapevano di essere compaesani, si sono conosciuti durante una delle sessioni di gioco e poi hanno scoperto di avere una passione in comune che condividono ogni volta che tornano entrambi a casa. Per noi questa è una vittoria”. Attraverso il gioco, lo stare insieme, si riesce a creare dei legami duraturi capaci di rendere più semplice e sopportabile la vita universitaria. Ma come funziona nel dettaglio l’University League?
L’University League – spiega Emiliano Spinelli, Event Manager di Gamerwall – è strutturata come un percorso a tappe a cadenza mensile fino a luglio 2018. Durante ogni tappa gli studenti potranno partecipare attraverso tre modalità: il competitive, che prevede tantissime tipologie di gioco, dai picchiaduro agli sparatutto; l’academy, una collaborazione che vede sessioni di coaching fatte dai pro player, poi la promozione del mondo del gaming, in cui ogni mese proponiamo i titoli appena usciti.”

Una competizione dilatata nel tempo che accompagna l’anno universitario, permettendo a tutti di poter partecipare senza lasciare da parte gli studi. Anzi, tra i due aspetti il legame è molto più stretto di quanto si potrebbe pensare. “Il vero fattore innovativo del progetto – aggiunge Emiliano – è il ranking che abbiamo sviluppato. Oltre a tenere conto dell’abilità col pad alla mano, considererà la partecipazione agli eventi stessi e la media accademica dell’anno in corso, che inciderà del 60% sul risultato finale, caratteristica che ha subito calamitato l’attenzione delle università che ci hanno contattato. Tutte queste variabili sono state inserite per consentire a chiunque di partecipare, perché come premio finale per il vincitore c’è una borsa di studio per un anno pagata da noi. Quello che vogliamo fare è garantire a ciascuno la possibilità di guadagnarsi il proprio futuro giocando.”

Sembrerebbe un’utopia, o qualcosa che stona appena lo senti o che suona strano. Giocare per studiare? Ma i videogames non sono legati all’intrattenimento, al divertimento, al semplice svago? Anzi, spesso non portano chi li usa a stare solo, a vivere in un mondo fatto di schermi tremolanti che piano piano li allontana dalla realtà? “Ho amici – esordisce Andrea Resca, professore di Economia e Business alla LUISS Guido Carli, la prima università che ha creduto nel progetto – che litigano continuamente con i propri figli riguardo al gioco, al fatto che si isolino in questa nuvola, non vedano nulla e non sentano più nulla. Proprio per questo penso che sia importante quello fatto da Gamerwall. Il gaming è un fenomeno di massa che coinvolge una grande parte della popolazione, soprattutto giovanile, quindi è fondamentale cercare di dissipare questa nuvola e fare in modo che l’attività del gioco dia il meglio.

È proprio quello che questi ragazzi stanno facendo: cercare di far uscire dal ghetto queste persone e creare un contesto che sia stimolante, utile e aggregante, dove questa forte passione possa essere condivisa con gli altri e non vissuta in solitaria all’interno della propria stanza”. Ma non è solo un discorso che riguarda i videogames: qualunque attività, se eseguita in solitudine, per se stessi, rischia di diventare dannosa, indipendentemente dai suoi benefici. È nella condivisione che le passioni individuali trovano la loro definitiva sublimazione. Un concetto che andrebbe divulgato con maggiore impegno, fin dall’adolescenza. “In futuro, speriamo di poter raggiungere la scuola secondaria, ma è molto difficile – spiega Miele – perché ci sono degli ostacoli enormi, che riguardano soprattutto i permessi, dato che stiamo parlando di minori. Tuttavia è il nostro obiettivo, anche perché questo è un progetto pensato da studenti e realizzato per studenti”.
Perché soprattutto dai giovani possono arrivare le spinte determinanti per un cambiamento di mentalità, pur se prima è necessario il contesto adatto. Magari guardando anche allo Sport. “Il nostro obiettivo sarebbe un giorno arrivare a parlare degli eSport anche ai più giovani – aggiunge Emiliano – però non lo puoi fare se prima non c’è una cultura del gioco alle spalle. È un po’ come considerarsi automaticamente calciatori professionisti dopo una partita di calcetto. Per essere un proplayer e parlare di attività sportiva ci dev’essere una preparazione e una struttura dietro. Ed è qui che entriamo in gioco noi, sperando di poter far capire cos’è il gaming. Per me è una forma d’arte e di comunicazione. E anche i ragazzi la pensano così.”

Sembra quindi che qualcosa si stia muovendo. È recente la notizia che il Cio, il comitato olimpico, abbia mostrato una piccola apertura per il riconoscimento degli eSports. Se questa primissima valutazione venisse poi riconsiderata e prendesse piede, chissà a dove potrebbe portare. “Spero – aggiunge Spinelli – che questo sia un primo passo verso il riconoscimento. Secondo me, una tappa importante saranno le Olimpiadi in Giappone, patria del gaming. Perché l’Asia ha avuto quasi 20 anni fa i primi World Cyber Games, quindi se non arriva da loro l’apertura non so da dove possa arrivare”.

Visione condivisa dai giocatori professionisti, la stessa che portano avanti giornalmente nella loro battaglia per far cambiare idea a quanti ancora considerano il giocare un mero intrattenimento.
Noi, nello specifico, cerchiamo da sempre di far risaltare la componente didattica del gaming – esordisce Thomas De Gasperi, rappresentante del Team Makers, famosi proplayer italiani – in modo tale che il gioco sia un mezzo per raccontare una storia che possa far crescere il giocatore. Certo, questo senza volere per forza ricondurre il gaming a qualcosa d’impegnato. Il gioco può essere solo un gioco, però se tu sei un appassionato e vuoi eccellere in quello, puoi farlo magari anche in un ateneo, così che questa passione possa venire riconosciuta anche in ambito accademico.” Del resto, “giocare” può essere sia un esercizio di puro svago che qualcosa di più complesso. In fondo è questa l’essenza che lega tra loro tutti gli sport: attività ricreative che poi, se eseguite in un certo modo, danno vita a un meccanismo profondo che ti cambia, dietro al quale si cela professionalità e cultura. Cosa che, d’altra parte, i ragazzi di Gamerwall sanno benissimo. “Noi – spiega Mele – non vogliamo demonizzare la perdita di tempo. Spesso rilassarsi, svagarsi, è propedeutico. Addirittura, la nostra idea è far capire che le due cose possono coesistere. Quante volte ci si trovava a casa dell’amico poi studiare e poi si finiva a fare i tornei a Fifa? Giocare vuol dire condividere momenti di studio ma anche momenti di relax. Il videogioco può essere tutto e non può mai essere niente.”

gamerwall

Non tempo buttato, ma ore della propria vita usate per qualcosa di ricreativo, che possa divertire e anche aprire nuove porte, nuove prospettive. Quindi esattamente come i film, le serie TV, gli sport canonici e qualunque genere di attività. Eppure sono in pochi a pensarla così, specialmente chi lo guarda da fuori. Proprio per questo, sarebbe importante coinvolgerli. “Bisogna cercare di invitare anche i “nemici” del gaming a farne parte – aggiunge Andrea Resca – i professori, i genitori, gli adulti appartenenti ad un’altra generazione che troppo spesso tende a parlare male del fenomeno o che non riesca a fruirne. Se si riuscisse a creare un dialogo con queste persone, penso che il gaming potrebbe acquisire delle connotazioni direzionate alla crescita personale e sociale di un ragazzo.”
Perché è di questo che si parla. Di esperienze condivise che portano a vivere avventure, storie, a divertirsi. In definitiva di crescere, in compagnia.

Elia Munaò
Elia Munaò, nato (ahilui) in un paesino sconosciuto della periferia fiorentina, scrive per indole e maledizione dall'età di dodici anni, ossia dal giorno in cui ha scoperto che le penne non servono solo per grattarsi il naso. Lettore consumato di Topolino dalla prima giovinezza, cresciuto a pane e Pikappa, si autoproclama letterato di professione in mancanza di qualcosa di redditizio. Coltiva il sogno di sfondare nel mondo della parola stampata, ma per ora si limita a quella della carta igienica. Assiduo frequentatore di beceri luoghi come librerie e fumetterie, prega ogni giorno le divinità olimpiche di arrivare a fine giornata senza combinare disastri. Dottore in Lettere Moderne senza poter effettuare delle vere visite a domicilio, ondeggia tra uno stato esistenziale e l'altro manco fosse il gatto di Schrödinger. NIENTE PANICO!