Il ritorno di un vecchio mito

Se il nome Gauntlet non fa suonare in voi nessun campanello, probabilmente siete molto giovani, e se da un lato vi odiamo per ovvi motivi anagrafici, dall’altro vi siete persi l’età d’oro dei cabinati, quando la scritta “Insert coin” non campeggiava solo su magliette indossate dagli hipster e il Game Over era la cosa più temuta dopo gli incontri scuola-famiglia. Altri tempi insomma. Siamo nel 1985 e, senza dilungarci in inutili discussioni su chi sia il padre dei dungeon crawler, il cugino del fondatore del multiplayer o lo zio dei GDR, partiamo semplicemente dal fatto che Gauntlet, oltre che essere un classico dei videogame, era principalmente un gioco divertente.

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C’ERANO UN ELFO, UN MAGO, UN GUERRIERO E UNA VALCHIRIA…

Si partiva scegliendo uno dei quattro personaggi principali del gioco, guerriero, elfo, valchiria e mago, e si veniva catapultati in un mondo in cui la trama non aveva praticamente alcuna rilevanza, ma tutto quello che contava era mazzuolare il più possibile le orde di mostri che ci assalivano nelle varie stanze del dungeon, da soli o in compagnia di fino ad altri tre amici. Già, perché era lo stesso cabinato ad ospitare lo spazio per ben quattro controller; o meglio, quello che all’epoca si poteva definire tale, ossia quattro manopole corredate da una pulsantiera a due tasti, uno per l’attacco normale, l’altro per quello speciale, e permetteva di passare tra amici qualche ora a dividersi gettoni, spaccare ossa e maledire divinità a piacimento una volta terminate le vite. E sotto molti punti di vista, il remake già apparso un annetto fa su PC e riproposto adesso in versione Slayer Edition su PlayStation 4, è fedele al suo glorioso predecessore. Anzi, tornando alla questione delle parentele, non è sbagliato riesumare il detto “tale padre, tale figlio”, perchè le classi tra cui scegliere sono rimaste le stesse (con l’aggiunta del necromante, scaricabile come DLC), giocarlo in multiplayer è sempre più divertente, e il rischio scomunica è ancora dietro l’angolo, considerando il livello di sfida del gioco che davvero strizza l’occhio al passato, facendo dimenticare un presente fatto di autosave ogni cinque passi. Ma andiamo per ordine.

TRAME? DOVE ANDIAMO NOI NON SERVONO… TRAME

Anche in questo caso la trama è pressoché nulla, e una volta esaurita la premessa iniziale in tre righe di dialogo, si viene subito catapultati nell’azione. Si entra nel dungeon, si incontrano orde di mostri da fare a fettine, si va avanti. Il tutto con una bella dose di difficoltà, perchè non c’è la possibilità di auto-curarsi, e l’unico modo per riprendere energia è mangiare il cibo che si trova di tanto in tanto nelle stanze (chi è che va a cucinare tacchini e prosciutti in un dungeon, vallo a capire). È limitata anche la quantità di vite, o meglio di “gettoni teschio”, che si potranno guadagnare o uccidendo nemici e riempiendo un’apposita barra rosso sangue, o semplicemente trovandoli all’interno del dungeon, anche se quest’ultima opzione è abbastanza rara. Una volta terminati sarà necessario ricominciare dall’inizio dell’ultimo quadro giocato, per cui se avete un vicino di casa particolarmente rumoroso e blasfemo, non spaventatevi: probabilmente sta giocando a Gauntlet e ha finito i gettoni teschio durante il boss di fine livello.

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Come facilmente intuibile tutte le classi hanno le loro peculiarità: l’elfo ha la sua forza nei ripetuti attacchi da lontano grazie all’arco di cui dispone, mentre al contrario il guerriero è il classico tank, che si butta nella mischia e prende e dà mazzate per far rifiatare i componenti del party. Il mago è forse il personaggio più divertente da usare, ma è anche quello più complicato, perchè per districarsi tra i vari attacchi elementali (un po’ come accade in Magicka, guarda caso degli stessi autori, Arrowhead Game Studios) ci vorrà un po’ di tempo, mentre la valchiria è un po’ una via di mezzo tra i primi due: attacca bene in mischia e grazie al suo scudo può sia parare i colpi dei nemici, sia farne un arma da lancio alla Capitan America. Ogni personaggio ha inoltre una propria abilità speciale, che dipende dalla classe, e delle abilità passive che dipendono invece da una reliquia, e che sono attivabili tramite l’utilizzo di una pozione. Purtroppo però questo Gauntlet non ha ereditato solo gli occhi azzurri dal padre, ma anche dei geni difettosi, perchè la varietà del gioco è quasi tutta qui.

NO, NON HO DETTO GIOIA…

Le differenze tra le classi sono una delle pochissime cose che cambino un po’ le carte in tavola tra una partita e l’altra, perchè gli effetti delle reliquie non sono così fondamentali, nè sono in grado di cambiare lo stile di gioco di un giocatore. Sono semplicemente dei bonus passivi (più velocità di attacco, maggior resistenza o la possibilità di evocare un demone che combatta al proprio fianco, per citarne alcuni) di breve durata, che una volta rimasti a secco di pozioni sono inservibili. L’oro che si guadagna sterminando mostri e aprendo casse qua e là, può essere speso oltre che per comprare nuove reliquie, anche per cambiare un po’ l’equipaggiamento del nostro eroe. Peccato che la cosa non abbia alcun effetto sulle sue statistiche, e che quindi scegliere un’arma o un’armatura piuttosto che un’altra, dipenda unicamente da fattori estetici. E a contribuire ulteriormente alla noia sono gli stessi livelli, che per quanto presentino una buona varietà di mostri, miniboss e boss veri e propri, hanno praticamente tutti la stessa struttura: entri in una stanza, ti si chiude la porta alle spalle, uccidi tutti, vai avanti. Non esattamente il massimo della varietà.

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FARE O NON FARE, NON ESISTE PROVARE.

Ed è un peccato, perchè gli sforzi fatti dai ragazzi di Arrowhead si vedono. La grafica per quanto non eccelsa, offre un bel colpo d’occhio: belle atmosfere, gioco fluido anche in quattro e senza rallentamenti di sorta.
Nella campagna, a intervallare i livelli normali ci sono i quadri “catacombe” che offrono una buona dose di sfida a causa della praticamente costante presenza della Morte, che insegue il personaggio per tutto il livello costringendolo a stare sempre sull’attenti, e a colpire il nemico e scappare, perché entrare il contatto col Tristo Mietitore significa, sorpresa sorpresa, morte istantanea. C’è poi la modalità “Senza fine” che può offrire un po’ di motivazioni nel tentare di superare il record di amici o giocatori online.
E c’è il “Colosseo”, che consiste nell’affrontare nella stessa stanza orde di mostri sempre più difficili ed un boss finale, in cambio di ricompense in denaro e di… un mantello ricordo. Niente però che dia davvero una sensazione di cambiamento, e l’aria di ripetitività che si respira già dopo già tre o quattro livelli giocati consecutivamente è davvero difficile da mandar via. Diverso è invece il discorso multiplayer, dove l’interazione fra le classi (a proposito, nel party può esserci solo un personaggio di ogni classe. Niente armate di maghi o orde di guerrieri, insomma), l’azione ancora più frenetica e in generale tutto il divertimento che sa regalare una bella sessione di co-op old style, rendono l’esperienza di gioco davvero piacevole, anche sulle run prolungate. Insomma, chi trova un amico trova un tesoro. E dei mostri. E un prosciutto. Di nuovo, chissà chi lo avrà cucinato…

Gabriele Atero Di Biase
Diplomato al liceo classico e all'istituto alberghiero, giusto per non farsi mancare niente, Gabriele gioca ai videogiochi da quando Pac-Man era ancora single, e inizia a scriverne poco dopo. Si muove perfettamente a suo agio, nonostante l'imponente mole, anche in campi come serie TV, cinema, libri e musica, e collabora con importanti siti del settore. Mangia schifezze che lo fanno ingrassare, odia il caldo, ama girare per centri commerciali, secondo alcuni è in realtà il mostro di Stranger Things. Lui non conferma né smentisce. Ha un'inspiegabile simpatia per la Sampdoria.