La morte del mito, la celebrazione, la rinascita

Il mito, la sua potenza, l’estasi che scaturisce dalla scoperta e dal viaggio. God of War è questo. A ben pensarci lo è sempre stato, ma lo era nella forma di una sintesi, di uno spettacolo passivo, in cui noi, giocatori, eravamo solo un mezzo per un fine, e quel fine era la vendetta di Kratos, l’apoteosi della sua violenza. Eravamo un mezzo, e non dei veri partecipi del viaggio perché, in effetti, quello che si poteva provare per God of War era più affetto che empatia. Era l’affezione data dall’epoca, dai successi del marchio PlayStation e, ovviamente, dall’ottimo gioco che God of War è sempre stato, anche nei suoi momenti più bui quando, cioè, ha cominciato a mostrare il fianco al peso degli anni. Chi vi scrive, magari lo saprete, è un fan duro, puro, che ha giocato sino alla nausea ogni capitolo e che nonostante questo non ha mai negato quel certo grado di ripetitività su cui la serie aveva di tanto in tanto stagnato. Certo c’era quel brivido dato dalla violenza, dal fare a pezzi mostri e soprattutto dei, ma non era empatia, come poteva esserlo? Del resto Kratos non ha mai preteso di essere un eroe, ed anzi viveva, quasi si crogiolava, nel rinnegare ogni aspetto dell’eroismo, secondo il più tipico canovaccio della tragedia ellenica. God of War era piuttosto pura azione, ed in essa trovava la sua perfezione, e noi in quella la nostra catarsi. Certo non era un titolo realmente esente da difetti, talvolta minimi, altre volte forse più marcati, ma aveva quel pregio di saperci comunque coinvolgere, quanto meno muscolarmente, tenendoci sempre vigili, galvanizzati, in preda alla frenesia concessa agli uomini dal dio della guerra. Una frenesia che sapeva creare quel genuino senso di meraviglia dato dal connubio tra regia, tecnica e il suo gargantuesco bestiario, tale da renderlo un esempio, un caposaldo, il titolo da giocare a tutti i costi. C’era qualcosa che mancava però, c’era la sensazione di una storia troppo impersonale, di un personaggio troppo bidimensionale. Occorreva andare avanti, in qualche modo, oltre quella forsennata ricerca della vendetta a tutti i costi. Occorreva che quella partecipazione affettiva diventasse empatica e che noi, in qualche formula che non fosse il semplice finale di GoW III (leggasi: la fine della saga originale), diventassimo tutt’uno con il racconto. Occorreva insomma riscrivere God of War, non solo per renderlo alla portata di tutti i nuovi giocatori, ma soprattutto per dare a Kratos quel qualcosa che gli era sempre mancato: un’identità. Una personalità che gli desse maturità, che gli concedesse sfumature, che donasse un significato al dolore del suo protagonista, e così è oggi, adesso, e lo sarà certamente anche domani. Ora voi direte che questo non è God of War. Ma io, da fan, ho letteralmente giocato questo capitolo ad occhi sgranati. Con il fiato così contratto che a volte l’ho sentito quasi spezzarsi assieme alle ossa dei miei nemici. Perché God of War è andato oltre la violenza ma non l’ha dimenticata.

 

Ecco, vedo mio padre e mia madre

vedo tutti i miei parenti morti

che se ne stanno seduti

vedo il mio padrone seduto nel Valhalla

e il Valhalla è bello e verde

con lui vi sono servi, uomini e ragazzi.

Egli mi chiama.

Portatemi da lui.”

(Ahmad Ibn Fadlan – 922 d.C.)

 

Il viaggio tra i regni

Sono passati anni dalla fine del terzo capitolo e Kratos, forse alla ricerca di sé stesso, ha lasciato la sua terra martoriata e ormai senza controllo per migrare verso nord, nelle terre gelide di quella che i locali chiamano Midgard. Un luogo selvaggio, le cui poche costruzioni si perdono tra gli alberi e le montagne, dove la natura è rigogliosa e potente e non ha ancora lasciato spazio ai palazzi di marmo. Qui ha trovato una donna, e con lei ha avuto un bambino, un ragazzo, Atreus, un giovane dall’aspetto gracile la cui età è l’unico indizio sul tempo trascorso dagli eventi in Grecia. Saranno passati 10, forse 13 anni da quando Zeus cadde sotto i colpi dello spartano. Anni in cui Kratos ha abbandonato il suo retaggio come Fantasma di Sparta e si è dedicato ad una vita tranquilla, di caccia nei boschi e di pace, non più tormentato dal suo passato, ma quasi rassegnatosi ad esso, nella speranza che nulla più lo tormenti, rabbia compresa. Kratos ha rinnegato il Fantasma, anzi quasi se ne vergogna, come dimostrano i suoi avambracci strettamente coperti, come se le cicatrici delle catene di Ares non facessero sparire il dolore che, da qualche parte, ancora alberga in quel cuore martoriato. Perché la vendetta, in ultima istanza, non ha portato alcuna gioia, se non tanta amarezza, ed un senso angosciante di una vita sprecata. L’idillio, tuttavia, finisce, e come macchiato dalla maledizione della perdita, Kratos perde anche la sua nuova compagna, che muore, lasciandolo vedovo con addosso il peso di una paternità che sembra andargli stretta, troppo. Non sappiamo come e perché la sua donna sia morta, ma solo che questa ha lasciato a marito e figlio un ultimo desiderio, quello che le sue ceneri siano sparse dalla cima di un monte da entrambi, obbligando quindi marito e figlio a viaggiare insieme, e per la prima volta, per portare a termine la missione.

Ma il giovane non è pronto. Il suo corpo gracile è inadatto al viaggio, e nonostante sia forte in entrambi il desiderio di portare a termine la promessa alla donna morente, Kratos cerca di mettere un freno all’impazienza del ragazzo, la cui mancanza di metodo e disciplina mal si accostano al retaggio spartano, forgiato alla battaglia ed alle insidie sin dalla più tenera età. Occorrerà un deus ex machina affinché il viaggio cominci. La visita inattesa di un rissoso straniero che dopo aver bussato alla porta dei due, costringerà padre e figlio ad abbandonare casa ed adempiere al compito ereditato dalla madre. Comincerà così il viaggio, che metterà a confronto padre e figlio, ma che soprattutto porterà Kratos a porsi tante domande sul retaggio genitoriale, e su come questo debba essere affrontato per dare al ragazzo, ad Atreus, un futuro che a differenza del suo non sia già scritto dal disegno beffardo del destino.

God of War inizia quindi così, con alle spalle di nuovo un lutto per la vita di Kratos. Un momento simbolico, che tuttavia si carica di un significato nuovo e diverso. A mostrarcelo è lo stesso incipit del gioco, nel suo menù di avvio, che abbandona l’ormai iconico volto incazzato del suo protagonista, e lascia spazio ad un personaggio triste, sconsolato, i cui sentimenti non sono appianati dal martellare costante dell’ira, della sete di vendetta, ma dal tormento, dal dolore più sincero e luttuoso, a cui ben presto si unirà una certa inadeguatezza. È l’inadeguatezza dell’essere genitori, del dover insegnare ai figli, del dover far sì che le colpe dei padri non pesino sul destino dei propri cari. God of War spezza un cerchio, in modo quasi metatestuale. È un cerchio narrativo forte, la cui origine era andata a ripescare nel mito della titanomachia, quando cioè Zeus sconfisse e quasi uccise suo padre Crono per prenderne il posto. Un ciclo di dolore di cui lo stesso Kratos era stato partecipe alla fine della quadrilogia originale di God of War, ed i cui segni sono rimasti tanto sulla pelle, marchiata dalle cicatrici delle battaglie e dai segni delle Lame del Caos, quanto nell’animo. Atreus, infatti, non sa di essere un dio, ed anzi guarda agli dei con naturale curiosità e reverenza, nato e cresciuto in una Midgard in cui l’era degli uomini sembra al crepuscolo, ma in cui il mito ed il culto degli Asi è ancora forte e viene tramandato da racconti di gesta antiche e leggendarie.

La storia del nuovo God of War è dunque quella di un classico racconto di formazione, che come nella più tipica delle tradizioni scritte comincia con un viaggio, e termina con una grande scoperta. Una rivelazione. Nel mezzo c’è il patimento, ci sono le difficoltà, e soprattutto c’è il rapporto tra padre e figlio, che partendo da una certa acerbezza finisce per diventare qualcosa di molto definito e preciso. Un legame profondo, che verrà forgiato dalla battaglia, ma anche dall’incapacità dei due di rapportarsi adeguatamente. Il primo quasi timoroso di dare al ragazzo quell’amore che forse lo renderebbe ancor più debole, il secondo insofferente di trovarsi vincolato ad un padre che, forse, mai ha amato. Il pregio è che tutto si muove su di un unico piano sequenza. Non ci sono flashback, non ci sono bruschi cambi di inquadrature, ma anzi tutto procede ordinatamente affinché nel giocatore ogni scoperta, ogni informazione, sia vissuta direttamente tanto dentro che fuori lo schermo assieme ai suoi protagonisti. Si crea, dunque, quella necessità di empatia che negli originali capitoli era messa da parte in favore di una più caotica e insensata violenza, e si cerca attraverso l’azione di raccontare tutto. Ogni incertezza, ogni dubbio, ogni scontro, ogni dolore. I personaggi, e Atreus in particolare, sono vivi e dinamici e hanno da capire, imparare e scoprire tanto quanto il giocatore.

Non bastasse, anche dal punto di vista recitativo siamo dinanzi ad un lavoro di altissimo livello, con un Kratos inaspettatamente espressivo, con attori digitali che riescono a mostrare emozioni, sentimenti e dolore anche in momenti di assoluto silenzio. La risultante è una recitazione emozionale, bellissima, che non mostra mai il fianco all’infantilismo o alla banalità, e che non di meno cerca di forzare l’affezione del giocatore per i personaggi. Pensare, insomma, che abbiano appiccicato un impianto narrativo a là “The Last of Us” su God of War è errato, perché pur simili nella filosofia, sono i background narrativi dei personaggi (ed i loro sviluppi) a dettare il passo preciso e maturo del rilancio ad opera di Cory Barlog. Ci sono poi dei dettagli che fanno la differenza, e che permettono ai personaggi di approfondire, agli occhi del giocatore, la loro umanità. Atreus ad esempio gironzola, fa domande, si porta le mani alla testa in segno di esaltata meraviglia quando il padre termina uno scontro, o si imbarazza e si imbroncia quando il padre lo richiama. Sono piccolezze che forse neanche noterete, ma che dimostrano una cura per il dettaglio, fisico e narrativo, che dà ai personaggi uno spessore che trascende i poligoni di cui sono composti. Inoltre – e non è lavoro da poco – a supporto del racconto c’è il mondo di gioco, percorso costantemente dai resti di quel mito che narra degli dei e dei loro capricci. Un lavoro del tutto opposto a quanto fatto nei precedenti titoli, e che può essere letto e compreso solo giocando, anzi vivendo, il viaggio di Kratos e Atreus verso il monte, meta della loro promessa.

Se nei precedenti God of War tutto ciò che era il mito greco era raccontato quasi direttamente per mezzo degli eventi di cui ci trovavamo partecipi, rendendo di contorno i personaggi che della mitologia facevano parte, posizionandoli lì dov’erano nelle vesti di mezzi per un fine (pensate a Dedalo ad esempio, a suo figlio Icaro, o anche solo ad Efesto o all’Idra), in questo God of War il mito è qualcosa che prescinde dal protagonista ed è raccontato tramite racconti, indizi, leggende, o più spesso attraverso gli stessi luoghi, che si presentano per come sono proprio grazie all’influenza degli dei e delle creature che lì sono passate o hanno abitato. La differenza forse è labile, e per qualcuno potrà essere impercettibile, ma è in realtà fondamentale nell’economia di gioco e aumenta di molto lo spessore narrativo dell’opera, avendo peraltro il pregio di puntare, e non poco, sulla curiosità del giocatore.

Una curiosità che si manifesterà fortemente attraverso l’esplorazione, che perde gran parte della sua linearità originale proponendoci un mondo aperto, ricco di storia, di segreti e di luoghi da esplorare del tutto accessori alla trama principale. God of War insomma perde parte di quell’animo di titolo “a corridoi”, e riconsegna nelle mani del giocatore una bella porzione di mappa esplorabile, con una Midgard che regala non solo una gran quantità di finezze esplorative, ma anche un colpo d’occhio maestoso e imponente, eccezionale nella sua complessità di strutture, nonché nella continuità con cui queste si amalgamano, offrendoci un viaggio dal grande potere immaginifico.

Il cuore del gioco è il Lago dei Nove, una sezione centrale che raggiungeremo già nelle prime ore, e che farà da snodo per i diversi luoghi che si apriranno nei dintorni. Il lago è vasto, completamente esplorabile, e come predetto da Cory Barlog, richiederà l’uso di un’imbarcazione per essere scandagliato, offrendo al giocatore innumerevoli punti di attracco per procedere tanto nelle sue ricerche accessorie quanto nella quest principale. Al centro di questo vi è poi il tempio di Tyr, non a caso il locale dio della guerra, e nel cuore dell’edificio c’è la sala del Bifrost, il leggendario ponte magico che unisce tutti i nove regni che compongono la cosmogonia norrena. Il gioco ci permetterà quindi non solo di esplorare parte di Midgard, con le sue fitte foreste, le sue montagne, le sue miniere, ma anche diversi altri regni abitati dalle più disparate creature, ognuno dei quali con delle proprie caratteristiche uniche, tanto ambientali quanto architettoniche. Un lavoro a dir poco gargantuesco, che si alternerà costantemente tra un’esplorazione più libera, in porzioni di mappe non troppo vaste, ad una più lineare e “tradizionale”, che ci vedrà indaffarati nell’apertura di porte o nella risoluzione di enigmi ambientali più o meno complessi, secondo quello che è un canone che la serie abbraccia ormai dal suo primissimo capitolo. La risultante è un compromesso ottimo e funzionale tra avanzamento e backtracking, peraltro talvolta persino suggerito dalla trama, che ci chiederà spessissimo di indugiare liberamente per certi luoghi alla ricerca di collezionabili, segreti e risorse, e portando l’ammontare complessivo delle ore di gioco oltre la soglia delle 40, da ridurre di circa la metà qualora decidiate di tirare dritti.

Ovviamente a chiunque si aspetti un titolo open world occorre specificare che il nuovo GoW non è un gioco a là Horizon: Zero Dawn, in cui è possibile sin da subito vagare in lungo in largo. L’approccio è più simile a quello di Uncharted: l’Eredità Perduta, con una mappa molto vasta che si presta a molteplici approcci, e ad ancor più divagazioni. La differenza, semmai, è che rispetto ad Uncharted qui la scala è di diversi gradi più ampia, permettendo quindi un’esplorazione veramente ricchissima e sfaccettata, tanto durante la campagna principale quanto in endgame dove, ottenute tutte le abilità del caso, potrete andare a ripescare quegli anfratti, quei tesori e soprattutto quei luoghi che precedentemente, per qualche motivo, vi erano preclusi. Il lavoro è quasi indescrivibile a parole, tanto per l’estetica, che non conosce pigrizia, tanto per la continuità con cui le varie location si cedono progressivamente il passo, tanto ovviamente per l’introduzione nella serie del backtracking, con la possibilità di ritornare sui propri passi per curiosità, ricerca, o anche solo per il puro piacere di farlo. Peraltro a tutto questo va unito un ampio sistema di incarichi secondari, che pur non potendo competere con titoli più generosamente open world, riesce a mantenere alto l’interesse del giocatore ben oltre i titoli di coda. Si va da incarichi molto semplici come la pulizia di aree dai nemici, al reperimento di specifici oggetti, passando persino alla ricerca delle chiavi di regni originariamente preclusi, e la cui esplorazione è del tutto accessoria, ma non superflua, se si ha l’intenzione di eccellere nel combattimento onde affrontare le sfide più ardimentose, come quelle con le terribili Valchirie.

I fratelli si aggrediranno

e alla morte giungeranno,

tradiranno i cugini

i vincoli di stirpe,

prova dura per gli uomini,

immane l’adulterio.

Tempo di asce, tempo di spade

s’infrangeranno scudi,

tempo di venti, tempo di lupi,

prima che il mondo crolli.

Strepita il suolo;

volano via le streghe.

Neppure un uomo

un altro ne risparmierà.”

(Vǫluspá – Gli ultimi giorni)

Per ciò che riguarda il sistema di combattimento, come avevamo anticipato in fase di anteprima, God of War è completamente cambiato. Non più una telecamera fissa, ma una camera alle spalle, con il personaggio leggermente decentrato verso la sinistra dello schermo, scelta tra l’altro utilissima quando si passa alla mira con l’ascia, soprattutto nel bel mezzo dei combattimenti. Proprio la telecamera è la più grande rivoluzione per la serie, non solo perché questa, ovviamente, obbliga il giocatore a combattimenti più attenti e ponderati (il controllo del campo di battaglia è, per ovvi motivi, più limitato che in passato), ma soprattutto per il modo in cui il succitato “piano sequenza” riesce a seguire i dialoghi, le discussioni e ogni altro aspetto, anche passivo, della storia. La telecamera si avvicina perché siamo noi, in primis, a farci più vicini al protagonista, partecipando più intimamente al suo patimento, al suo tormento, alla sua inadeguatezza. Il punto è che se temevate che il tutto avrebbe rallentato, o semmai mitigato, la frenesia tipica di God of War, allora sarà un piacere scoprire che così non è stato, ed anzi il lavoro di rifinitura e pulizia per rendere il tutto funzionale ed esteticamente violento è, senza mezze misure, ineccepibile.

L’approccio iniziale è spiazzante, ci si sente forse inadeguati, ma basta un po’ di pratica affinché la memoria muscolare cancelli il ricordo del vecchio per far strada al nuovo. Dal punto di vista della violenza, dell’azione, della frenesia, Kratos è sempre lo stesso, ed i combattimenti esprimono più che bene questo concetto, semplicemente si è evoluto il modo in cui lo fanno. Gli attacchi violenti, le combo lunghe e potenti, il juggling in aria dei personaggi, è ancora qui, ma è stato rivisto, raffinato, e non premia più il button mashing forsennato. I combattimenti richiedono più impegno, più strategia, e soprattutto più attenzione per ciò che concerne parate, parry e schivate, specie per il punto cieco alle nostre spalle, che facilmente ci lascia scoperti agli attacchi nemici e che viene in parte arginato da un sistema di indicatori, che indica prontamente gli avversari alle nostre spalle. Non particolarmente ingombrante in termini di HUD, ma ammettiamo non proprio bellissimo da vedere in un gioco che fa della pulizia dell’interfaccia una sua prerogativa. Un compromesso doveroso e utile, che per fortuna ben presto non noterete ed anzi apprezzerete per la sua funzionalità, questo perché, nonostante il cambio drastico dell’arma di gioco, l’azione vi lascerà sempre e comunque col fiato corto, galvanizzati e troppo impegnati a fronteggiare i nemici per concentrarvi sull’interfaccia, che diventerà quindi un qualcosa di naturale in quel vorticare di lame che come una danza macabra di morte e sangue ci ha fatto innamorare dello spartano.
L’ascia Leviathan è veloce, potente, versatile, e con la progressione diverrà una compagna efficiente e letale, con in più quel vezzo da “arma ritornante” che le conferisce ulteriore flessione in battaglia, ampliando non di poco l’approccio strategico allo scontro, nonché ovviamente la sua tamarra bellezza.

Addio alla pressione forsennata dei tasti frontali dunque, che lasciano il posto ai dorsali destri, R1 per l’attacco debole, R2 per quello potente, con la possibilità di lanciare l’arma, previa la mira con L2, e la possibilità di richiedere ad Atreus di scoccare frecce verso un determinato obiettivo, con dei tiri dal numero limitato, e richiamabili alla pressione del tasto quadrato. Non che Atreus, comunque, non si dia da fare, ed anzi ora dopo ora acquisirà sempre più confidenza con gli scontri, diventando spesso a dir poco determinante per la buona riuscita delle battaglie. Il ragazzo è all’inizio impacciato, quasi un peso durante il combattimento, tanto che spesso verrà preso di mira dai nemici che cercheranno di rapirlo innescando una sorta di timer prima del game over. Una sensazione che andrà via via svanendo quando comincerà a coordinarsi autonomamente col genitore per sferrare attacchi al malcapitato di turno o quando, ancora, bloccherà un nemico o lo farà inciampare per aprirne la difesa ai nostri fendenti.
La coordinazione tra padre e figlio funziona, e lo fa dannatamente bene, il tutto grazie ad una IA mai ingombrante o invasiva, ma che anzi sa scegliere intelligentemente cosa fare e quando farlo, e che sa come non inciampare quando, magari durante una combo, le si chiederà di intervenire a suon di frecce. Anche qui, dunque, il lavoro è egregio, il che non fa che aumentare quel senso di empatia e di affetto che si va pian piano provando per il personaggio, che non è impersonale, ma è anzi curioso, dinamico, eccezionalmente fedele all’idea che si potrebbe avere di un preadolescente che, di punto in bianco, si ritrova a combattere con suo padre contro mostruosità e dei.

Certo, c’è qualcosa che potrebbe farvi storcere il naso. La sostanziale impossibilità di Atreus di morire, interferendo con lo scontro, è forse un difetto che può esser tenuto in conto, ma che a ben pensarci non poteva essere gestito in altro modo. God of War ha una scala di creature che partendo da dimensioni contenute, finisce per fare i conti con amenità di proporzioni mitiche, tra troll, orchi, draghi o anche solo nemici particolarmente abili nel causare considerevoli danni ad area. Rendere il ragazzo troppo vulnerabile, avrebbe significato – ci scommettiamo – un game over quasi continuo per il giocatore, che specie durante certe boss fight è flagellato da ogni dove da attacchi continui. La scelta di Santa Monica, dunque, al prezzo di una leggera incredulità, rende tutto più equo e funzionale, senza poi troppo interferire con la buona riuscita dei nostri scontri che, Atreus o meno, spesso offrono una sfida interessante e frenetica, con nemici numerosi e situazioni martellanti. Come da tradizione insomma.

Complice è poi la progressione del personaggio, che si è ibridata fortemente al modello ruolistico, senza però ripercorrerne in toto gli stilemi. Kratos, come i nemici, ha un proprio livello, e tutta una serie di parametri, come forza, vitalità e difesa, che il giocatore non potrà non tenere in conto. Avere un livello troppo basso in God of War, significa spesso finire riversi al suolo, perché a differenza di altri titoli con un sistema di combattimento anche solo vagamente simile, la frenesia, e soprattutto il gran numero di avversari, giocoforza richiede una certa prontezza che, anche nel migliore dei casi, rende il dislivello tedioso da affrontare, se non impossibile. Direste voi che basterà andare in giro a fare strage di nemici minori (che ovviamente respawnano nelle aree ogni volta che possono), ma il punto è che a differenza di quello che è il canone ruolistico, non sono i punti esperienza, ma è la raffinazione delle armi ed il loro livello ad aumentare quello del personaggio e le conseguenti qualità belliche. In pratica ognuno dei tre 4 oggetti equipaggiabili di Kratos (ovvero: le tre parti dell’armatura, l’ascia e i talismani che offrono bonus di difesa) ha un proprio livello, che contribuisce tanto all’aumento delle singole caratteristiche, quanto al livello generale del personaggio.
La furbizia di questo sistema, dunque, è quella di spingere costantemente il giocatore in giro per il mondo alla ricerca delle risorse utili al miglioramento dell’equip, nonché al reperimento di quanto occorra per poter creare, presso i negozi dei nani sparpagliati per il gioco, gli equipaggiamenti più rari e preziosi. Tutto si sposa quindi con l’esplorazione e ovviamente il combattimento, dato che proprio i nemici saranno la principale fonte per ottenere le materie prime, in modo non randomico, ma affidando agli avversari più coriacei e potenti quelle che sono le materie più rare, reperendo il resto durante l’esplorazione e l’ovvia apertura dei numerosissimi forzieri che abbondano praticamente ogni livello. Se insomma temevate che il crafting avrebbe inciso sul ritmo o sull’esplorazione, forzando il vostro peregrinare come sempre più spesso capita in titoli dalla mappa aperta, siete fuori strada. A Kratos, infatti, non importa picconare pietre o raccogliere fiorellini, e le materie che gli servono in forgia le strappa direttamente dai corpi impotenti dei nemici che gli si pareranno davanti.

Altro fattore a favore di questo sistema, è che i più alti livelli di equipaggiamento sono praticamente a servizio dell’endgame, e dunque non vanno a inficiare l’esperienza di gioco per chi, magari incuriosito dalla trama, deciderà di dedicare alle attività secondarie un tempo, tutto sommato, limitato rispetto all’avventura principale. Questo non solo perché durante l’avventura è comunque possibile reperire qualche equipaggiamento utile (previa l’apertura dei succitati forzieri ovviamente), ma anche perché grazie alla moneta in game è comunque possibile comprare sempre qualcosa di nuovo presso i vari negozi, potendo poi esprimersi anche in alcuni limitati, ma utilissimi, potenziamenti. Gli scontri stessi non perderanno di mordente, perché forieri di punti esperienza che nel gioco ci sono, ma che sono demandati a tutt’altra attività, ovvero lo sblocco di nuove abilità, e il miglioramento degli attacchi runici della Leviathan. Kratos e Atreus godono infatti di diversi alberi di abilità, con cinque livelli di progressione. In pratica al miglioramento delle armi attraverso i negozi, verrà sbloccato un nuovo livello dell’arma, e con esso un piccolo set di abilità che, tuttavia, non andranno ad aggiungersi automaticamente al moveset, ma richiederanno di essere acquistate per mezzo dei punti esperienza.

In questo modo non solo il moveset si amplierà progressivamente secondo quello che è lo stile di gioco che vorremo utilizzare (potreste pensare, ad esempio, di non dedicarvi affatto alle abilità di lancio dell’ascia per favorire i soli fendenti corpo a corpo), ma gli scontri stessi non resteranno mai fini a se stessi, mantenendo alta la voglia del giocatore di combattere anche quando magari potrebbe evitare lo scontro. La Leviathan, inoltre, ha in sé ben due slot per lo sblocco delle rune, che corrispondono, in soldoni, ad una mossa aggiuntiva per entrambi gli attacchi, leggero e pesante. L’aggiunta di una runa inserisce insomma un ulteriore attacco bonus al moveset, attivabile durante le combo o meno, grazie alla pressione congiunta della parata (L1) a grilletto predisposto al relativo attacco. Ovviamente anche queste rune di attacco richiedono di essere potenziate, e per far ciò intervengono pure in questo caso i punti esperienza, cosicché anche nelle fasi finali del gioco, ci sia comunque un modo per spenderli, magari in concomitanza al reperimento di un attacco particolarmente efficace che in precedenza non si era reperito. La sostanza è quella di un gioco che non cerca la forzatura tecnica per allungare l’esperienza, e che al contempo non svilisce quel feeling fisico, e assolutamente dinamico, tipico dell’azione di God of War che forse un sistema di livelli troppo libero avrebbe compromesso. La risultante è piuttosto un connubio di azione e strategia, il cui scheletro ruolistico fa da contorno e guida, senza mai costringere il giocatore verso il backtracking e l’endgame, con un risultato pulito e funzionale, ma soprattutto appagante. In barba a qualunque congettura relativa all’importante cambio registico, e soprattutto stilistico, contro cui Barlog e compagni sono andati incontro.

Proprio l’endgame è stato, in tal senso, una sorpresa. Concluso il gioco avevamo paura che GoW non avesse poi molto altro da dirci, vincolato fortemente com’è ad una natura fortemente narrativa, che mette al centro di tutto un racconto che, come detto, ha un forte mordente tanto sul giocatore quanto i suoi protagonisti. Invece anche in questo caso è tutto bilanciato, equilibrato e divertente ed il bello è che pur essendo riusciti ad arrivare ad un buon livello, il gioco resta nei suoi scontri acceso e molto stimolante. Vero è che forse le missioni secondarie in sé non sono tantissime, e talune potreste magari averle già affrontate, seppur con fatica, ben prima di arrivare alla meta, eppure nonostante questo avrete a compendio un buon numero di incarichi, sfide che prima erano semplicemente inaccessibili e che richiederanno, post credit, tutta la pazienza di questo mondo ed un costante rimpiattino tra il miglioramento del personaggio e la sfida in sé.

Ci sono, ad esempio, ben due regni tra quelli visitabili tramite Bifrost, che potreste sbloccare in maniera del tutto opzionale, e che richiederanno non poco sudore per essere portati a termine, grazie a due sfide intriganti e diametralmente opposte, che percorrono in modo nuovo e stimolante il vetusto cliché delle sfide ad arena. Persino in questo GoW riesce a trovare la sua dimensione, la sua differenza e, per certi versi, la sua eccellenza, obbligando il giocatore a superare la sfida per migliorare il proprio equipaggiamento, per poi affrontarne una nuova, e così via. Tenendo sempre attenzione e tensione al massimo, il tutto per il costante sollazzo del giocatore. Ci sono poi luoghi di Midgard che semplicemente potreste non aver trovato perché tenuti nascosti come segreti ben custoditi, o affrontare situazioni che sono tanto al servizio dell’azione quanto del racconto, con dettagli di ambientazione talvolta ingombranti, più spesso sommessi, quasi sottintesi, ma che nel loro insieme costruiscono un affresco maestoso e affascinante di quella che fu la cultura norrena di dei, semidei, giganti, uomini e draghi.

Dal punto di vista tecnico, infine, God of War è semplicemente il non plus ultra del mondo console. Il gioco è ampio, bellissimo e massiccio, e non si risparmia da nessun punto di vista. La fusione perfetta tra arte e tecnica ci rimette tra le mani un titolo il cui colpo d’occhio è impressionante, con scorci bellissimi e architetture enormi, mastodontiche, semplicemente “divine”. Il continuo giocare tra i mondi norreni, la diversità di questi rispetto a Midgard, offre una varietà da capogiro, tanto che spesso sembra di giocare giochi diversi con il medesimo protagonista. Un lavoro di ricerca, ma soprattutto di estro artistico, che trova poi la sua forza in una possanza tecnica che semplicemente non ha eguali. Ci sono ovviamente dei piccoli compromessi, come un leggero (anzi leggerissimo) effetto di sfocatura sui campi più lunghi, atto magari a coprire l’abbassamento della mole di dettagli per quei luoghi che, al momento, non sono a favore di camera, ma parliamo del puro orizzonte visivo, che non compromette in alcun modo né l’occhiata generale, né tantomeno l’indugiare della telecamera. Per il resto tutto, dai particellari alle nebbie, alla luce dinamica sino agli effetti ambientali, è ricreato con un occhio attentissimo al realismo, conferendo al gioco un aspetto che praticamente non ha eguali con il resto della produzione digitale. Il bello di tutto ciò è che il gioco non necessita praticamente di alcun caricamento, di alcuna interruzione, e viaggia spedito dall’inizio alla fine come un vero e proprio film, come da intenzioni del suo creatore. Ovviamente tutto questo è frutto di stratagemmi attenti che mascherano, specie se non si ha occhio, i caricamenti che invece ci sono eccome. Aree che vengono interrotte da strettoie, o da massi da alzare per poter proseguire, o porte chiuse che poi si richiudono alle nostre spalle, dettagli che dimostrano in realtà una maestria notevole nella costruzione del codice, al cui servizio c’è un level design che comunque non disdegna ambienti aperti e vastissimi, come situazioni architettonicamente ardite che, peraltro, sono spesso teatro di eventi registicamente assurdi ma bellissimi, come è da tradizione, e ci auguriamo sempre sarà, per la serie.

A far la parte del leone, comunque, sono certamente le animazioni, in cui è evidente il lavoro di motion capture dei personaggi e dei nemici. I movimenti sono precisi, veloci, violenti, e vedere Kratos e Atreus combattere è semplicemente bellissimo, specie quando i due cominciano a collaborare per la buona riuscita dello scontro. A contorno, e giusto per essere puntigliosi, segnaliamo un codice di ineccepibile pulizia, privo di cali di frame rate o anche di qualunque bug sia ormai tradizione dei titoli al day one. Il gioco, peraltro, gode anche di un piccolo numero di opzioni grafiche atte a darvi la possibilità di giocare a favore di velocità o di risoluzione, nonché ovviamente a favore dell’HDR per le TV che possono supportarlo. Su PS4, inoltre, il titolo esce in 4K nativo mostrandosi in una forma smagliante, per certi versi anche più appagante di quanto visto in Horizon: Zero Down. Qualora poi non abbiate una TV 4K HDR atta a supportare tale ben di dio poligonale, sappiate che è disponibile comunque un’opzione nativa di supersampling per tutte le TV HD, con il risultato di un’immagine di ottima qualità a 2160p in checkerboard rendering (in soldoni, un’ottima prestazione visiva, con un impatto tutto sommato contenuto sulle prestazioni).

god of war

Verdetto

God of War è tornato! Forse a noi sarebbe bastato questo per convincerci a giocarlo, ma il bello è che è tornato in grande spolvero e che ha messo da parte la sua natura più caotica e sconclusionata per conformarsi come qualcosa di nuovo, di sorprendente e, in ultima istanza, di bellissimo. Santa Monica riesce nell’impresa, non da poco, di ricostruire quasi da zero il suo brand, il suo mito, senza che tuttavia questo perda i suoi distintivi marchi di fabbrica. Perché sì, God of War è ancora bellissimo, frenetico, violento e impenitente, lo è solo in modo diverso. Ora la serie nata da David Jaffe ha qualcosa di concreto da dire. Ha una storia da raccontare, un viaggio da compiere, e sceglie di non affidarsi ai facilismi della violenza a tutti i costi per attirare consensi. Sceglie invece di affrontare dei problemi, tutto sommato, umani, e di farlo in modo delicato, con i tempi che sono richiesti dal buon svolgimento della trama, senza dimenticare di metterci nel mezzo quegli aspetti più viscerali che hanno fatto la fortuna del brand. C’è in God of War tanta azione, tanta frenesia, tanta inenarrabile violenza, ma alla base di questi c’è uno scopo, che non è più fatto di urla, gemiti e di una vendetta un po’ campata in aria, ma di dolori molto più umani e dalla necessità, dopo tanto tempo, di trovare una dimensione per se stessi. Kratos ci ricorda che anche col potere di un dio in terra, ci sono situazioni che richiedono di essere responsabili, perché altrimenti non si sarà tanto differenti da quegli dei con cui in passato si è stati in contrasto. Forse l’unico vincolo che impedisce l’eccellenza è il racconto stesso, non nella sua interezza, ma solo nelle sue note finali, che non nella portata della sua conclusione, ma per il suo gesto anticlimatico risulterà per taluni indigesto. Ma la verita è che questo nuovo God of War esprime sin da subito la sua voglia di emozionare, e di farlo attraverso una sua definitissima e rinnovata identità, tanto da prendersi tutto il tempo che gli occorre per raccontare quello che vuole, senza negarsi momenti di silenzio o di “pausa”, che hanno il pregio di non spezzare il ritmo narrativo, ma anzi di trattarlo con rispetto, coccolando il giocatore al fine di renderlo, se possibile, più partecipe di quanto non sia. Certo tutto questo in fase finale resta troppo aperto, troppo “intentato”, però è forse il vizio di un gioco che è a tutti gli effetti l’inizio di una nuova saga e che, in quanto tale, doveva lasciarsi aperta la strada per un (speriamo non troppo lontano) ritorno.