Una riflessione sul valore dei trailer promozionali per le esperienze videoludiche.

Tra i titoli più attesi di quest’anno, annoveriamo di certo Anthem e The Division. Il primo, già pubblicato e ricevuto con un’eufemistica freddezza da parte della critica e del pubblico, si è avvalso della partecipazione del ricercatissimo Neill Blomkamp per la creazione di uno spettacolare trailer live action, a metà tra un episodio di una piccola serie TV e un prodotto esclusivamente promozionale. Il nuovo capitolo del brand Ubisoft, in arrivo a fine marzo, è stato invece pubblicizzato da un doppio trailer diretto da Refn, uno dei registi più acclamati degli ultimi anni. Al di là della qualità di ognuna di queste produzioni, ciò che sembra interessante notare è un’evidente contraddizione tematica ed emotiva tra le storie e le esperienze narrate nei trailer, e quanto esperibile effettivamente nel gioco. Ma è un problema legato solo al differente linguaggio utilizzato? In realtà no, affatto.

Partiamo dall’analisi di questi trailer e cortometraggi per comprenderne il portato tematico e lo stile narrativo.
Nel trailer di Anthem diretto da Neill Blomkamp, chiamato “Conviction – an Anthem Story”, veniamo introdotti in qualcosa che non segue una sceneggiatura lineare e una sinossi tradizionale, offrendo suggestioni ed elementi visivi che catturano l’occhio e l’attenzione dell’osservatore, senza però esaurire o esporre le storie potenzialmente descritte al suo interno. A fine visione, non sapremo di cosa esattamente parlano molti dei protagonisti del trailer, così come non ci sarà chiaro quanto di ciò che abbiamo visto sarà parte integrante del racconto di BioWare, o solo frutto della libertà creativa del regista.

Ciò che però possiamo subito notare, tenendo anche conto del fatto che la community ha potuto provare con mano il nuovo gioco dello studio canadese, è che nel trailer del regista sudafricano c’è un’attenzione verso la scrittura dei personaggi, delle loro relazioni umane e sociali che sembra completamente mancare nella controparte videoludica. Interpretazioni attoriali, regia, messa in scena e montaggio curano non solo le strepitose sequenze d’azione, ma anche (considerando il minutaggio) le vicende più umane che coinvolgono i protagonisti, ponendo l’accento su un’umanità e una costruzione del profilo psicologico dei personaggi che nel prodotto Bioware si perde dopo qualche ora, coinvolti e assillati (a seconda dell’apprezzamento) dalle varie missioni disponibili e dalle meccaniche offerte dal gioco. Il conflitto tematico tra trailer e prodotto finale si sostanzia dunque nel contrasto tra profondità psicologica e leggerezza ludica, attenzione per la scrittura dei personaggi e della storia e ripetizione meccanica di esperienze pensate in blocchi.

Nel caso dei trailer di Refn, sono presenti due prospettive diverse, decisamente opposte tra loro, sia nel gusto registico, sia nel contenuto tematico. Nel primo, chiamato “Drawing” (il disegno), una serie di primissimi piani alternata a soggettive e campi medi descrivono il rapporto tra un padre e il disegno del figlio, probabilmente l’ultimo ricordo materiale rimastogli della sua famiglia, risalente a prima che iniziasse l’apocalisse che fa da sfondo alla storia di The Division 2. Dopo aver sottolineate l’inutilità di un simile oggetto in un mondo come quello descritto dal gioco Ubisoft, una voce fuori campo ricorda al protagonista che quello è però l’unico “piano” che ha, l’unica motivazione che lo spinge a proseguire. Viene descritto un mondo quasi privo di speranza, distrutto, annientato, in cui si sopravvive continuando a credere in sogni quasi irrealizzabili.

Nel secondo trailer, chiamato “The Good Guy” (il bravo ragazzo), una soggettiva alternata a brevi campi medi mostra un’incursione di un gruppo di agenti della divisione contro dei nemici non meglio specificati, su cui si concentra il racconto: chi erano prima di tutto questo? Che vite hanno perso? Cosa significa ciò che stiamo facendo? Solo la storia ci dirà chi è stato un eroe, in quest’epoca di atrocità.
In entrambi i casi, non possiamo fare un paragone con il gioco completo, ma possiamo basarci sul capitolo precedente, e sulle varie prove pubblicate fino a oggi. Se il primo trailer offre un contesto almeno tematicamente simile a quello del gioco, non riesce comunque a reggere a un’analisi un po’ più approfondita: infatti, la percezione di disillusione e malinconia sembra essere solo suggerita in The Division 2, costruito su una struttura di costante potenziamento e ripetizione, mentre è cuore pulsante di questa piccola storia, narrata tramite il linguaggio cinematografico.

Al contempo, il secondo trailer è sostanzialmente all’opposto di quanto offerto dal primo capitolo di The Division, e dalle esperienze presenti nelle closed e open beta del nuovo episodio. Da un lato abbiamo npc sostanzialmente piatti e privi di alcuno spessore, sia umano che sociale: pattern di movimento nella mappa ripetuti e privi di varietà, ondate su ondate di esseri umani a cui ci relazioniamo più come a dei numeri che non come a delle persone; dall’altro, un costante punto di domanda che descrive ogni proiettile esploso dalla canna da fuoco del protagonista, che per ogni vita spezzata si chiede cosa sta distruggendo, chi sta uccidendo. Il conflitto tematico è evidente e strutturale: il gioco offre una banalizzazione estrema dei temi della morte, della violenza e dell’uso della forza, rendendoli strumento per divertirsi e accumulare risorse e poteri, mentre i trailer puntano a descrivere prospettive squisitamente umane relative a un mondo post apocalittico.

Potrebbe essere facile affidare questi conflitti tematici alle differenze intrinseche del linguaggio: in fondo, se cinema e videogioco sono due media diversi, è anche perché riescono in elementi che all’altro non appartengono. In realtà, la situazione è decisamente più complessa.

Refn e Blomkamp non sono infatti gli unici registi coinvolti nella pubblicizzazione di videogiochi. Prendendo in esame gli ultimi anni, altri nomi di un certo rilievo hanno messo le loro qualità al servizio delle campagne pubblicitarie delle aziende videoludiche: John McTiernan per Ghost Recon Wildlands e Jordan Vogt-Roberts per Destiny 2. In entrambi i casi, però, la coerenza tematica e strutturale con i giochi pubblicizzati è estremamente più alta: nel caso di Ghost Recon, l’ironicità della situazione descritta, l’accompagnamento sonoro, l’elemento irrealistico delle reazioni dei personaggi e il generale tono canzonatorio suggeriscono una grande leggerezza nel rapportarsi ai i temi proposti dal gioco. Sì, certo, il contesto è comunque di un certo rilievo politico e culturale, considerando anche le numerose lamentele relative alla scelta dell’ambientazione, ma il trailer coglie in modo eccellente la leggerezza adolescenziale e liberatoria tipica del gioco online cooperativo, e che infatti si è poi riproposta in seno alla community anche nel caso di Ghost Recon Wildlands, per l’appunto.

Nel caso di Destiny 2, ci troviamo di fronte a un vero e proprio sfoggio di violenza e adrenalina, ironia e leggerezza, che ben descrivono i rapporti che si formano nel vivere l’esperienza dello sparattutto Bungie sin dall’uscita del primo capitolo. Distanziandosi da una profondità tematica poi completamente abbandonata nella maggior parte dei momenti della saga, il trailer diretto da Jordan Vogt-Roberts rispecchia coerentemente le possibili reazioni emotive del giocatore all’esperienza offerta da Destiny 2.

Di conseguenza, notiamo come non sembri essere solo una questione di linguaggio, o di grandi registi e incompetenti mestieranti: l’elemento rilevante sembra essere più che altro la coerenza strutturale dei contenuti del trailer con quelli espressi dall’esperienza videoludica.
Probabilmente, nel tentativo di intercettare un certo pubblico, si preferisce diversificare l’offerta commerciale in fase pubblicitaria, utilizzando diversi tipi di trailer con contenuti e messaggi a volte anche incoerenti tra loro. Ma siamo davvero sicuri che, sul lungo periodo, tutto questo convenga davvero? Quanto è alto il rischio di ritrovarsi con dei fan coinvolti emotivamente da una certa comunicazione, poi ritrovatisi però con qualcosa di completamente diverso, o in cui è comunque difficile relazionarsi nel modo descritto dai trailer e dagli annunci? In fondo, è quanto successo con una parte del pubblico del primo The Division, giusto per rimanere tra i giochi precedentemente citati.

D’altro canto, si potrebbe sostenere che un trailer non deve per forza rispecchiare i contenuti del prodotto o dell’opera a cui si riferisce, ma potrebbe anche offrire una prospettiva diversa su quel brand, universo o tema da parte di altri artisti, che siano registi, scrittori o designer. In tal senso, questa prospettiva sembra potersi adattare più al lavoro di Blomkamp che a quello di Refn, evidentemente indirizzato alla sponsorizzazione del gioco Ubisoft. In ogni caso, sebbene questa visione sia giustamente legittima e positiva da un punto di vista artistico, al contempo non possiamo negare che nel marasma generale della comunicazione odierna, un trailer (così come uno streaming, una beta, un’anteprima e molto altro ancora) costituisce parte integrante delle aspettative che si formano su una nuova opera, e bisogna tenerne conto in fase pubblicitaria. Sia dal punto di vista delle aziende, che certamente non vogliono correre il rischio di illudere l’utenze, ma soprattutto da parte degli utenti e di chi filtra questa comunicazione per loro (giornalisi, influencer, ecc.), per evitare che qualche realtà poco etica possa approfittarne.