Watchmen di Alan Moore e Dave Gibbons, un mondo all’ombra del Doomsday Clock

A volte, trascuriamo l’importanza che i grandi capolavori hanno delle rispettive discipline. La letteratura, ad esempio, non sarebbe la stessa senza Omero o la Divina Commedia. Anche il cinema sarebbe diverso se non ci fossero Nascita di una Nazione e Ben-Hur, idem per i videogiochi senza Crash Bandicoot o Final Fantasy e le serie televisive se fossero sprovviste di pietre miliari come Breaking Bad o Ai confini della realtà. Perché questo sono, di fatto, le grandi idee: entità infettive che si propagano ovunque e cambiano interi organismi. Anche il fumetto ha i suoi miti, naturalmente. Superman, Batman, Capitan America, Tex, Asterix e Obelix… Certo, sembra che i tempi moderni (salvo sporadici casi) non abbiano più prodotto niente di così travolgente. Ma forse è perché alcune di quelle vecchie non hanno ancora esaurito il loro effetto-onda. Watchmen di Alan Moore e Dave Gibbons è una di queste.

Tutti voi, almeno una volta, avete sentito parlare di Watchmen. Anche se non lo avete mai letto, vi basterà posare lo sguardo sulle didascalie scritte da Alan Moore e sulle inquadrature iniziali illustrate da Dave Gibbons per riconoscere in quelle pagine un pezzo del vostro bagaglio culturale.
È quello che è successo a me: dopo averlo letto, impattò sul mio cervello con la stessa potenza di una Bomba Atomica. O Bomba H, visto che siamo in tema. Ancora oggi lo risfoglio periodicamente, come in una sorta di ritiro spirituale. E quando mi sembra di aver capito, di essere arrivato in fondo e di aver percepito le varie stratificazioni, gli infiniti rimandi e significati, ecco che un particolare prima ignorato spalanca le porte verso nuovi orizzonti narrativi. Un po’ come la realtà che, anche quando sembra prevedibile e scontata, apre scenari illimitati e impensabili. E Watchmen somiglia terribilmente alla realtà. Anzi, Watchmen è reale.

Un mondo messo a nudo

In fondo, basta riflettere sul forte realismo dell’ambientazione per rendersene conto. La Terra di Watchmen (non Terra-002, Terra-616 o 1610) ideata da Alan Moore si trova in un anno 1985 molto simile al nostro, solo che tanti avvenimenti sono accaduti in modo diverso. La politica internazionale è ancora preda delle tensioni tra USA e URSS, e il livello di guardia simboleggiato dal Doomsday Clock (l’Orologio dell’Apocalisse) è sempre alto. Ed ecco che da questa situazione familiare e consueta, scritta e immaginata da Alan Moore quasi in contemporanea (le prime bozze del progetto Watchmen sono del 1984), cominciano a fare capolino gli eventi che la diversificano.

In primo luogo, i Supereroi sono reali e negli anni ’40 hanno avuto un’autentica Golden Age che li ha lanciati alla ribalta mediatica. Questo ha causato tutta una serie di conseguenze più o meno tangibili. Per prima cosa, l’arrivo di un crimine molto più pittoresco, feroce e organizzato. Ma questi sono anche tempi di mitomani e pazzi di ogni tipo che cercano di godere della luce riflessa della loro fama, di campagne promozionali, merchandasing, interviste, talk show... Cosa che, naturalmente, porta alla formazione di un team chiamato i Minutemen e composto da alcuni dei paladini più famosi del periodo: Capitan Metropolis, Spettro di Seta, Gufo Notturno, Fratello Notte, Dollar Bill, il Comico, Falena e Silhouette.
Tutte queste svolte sono evidenti, conseguenziali e non vengono mai messe in discussione in un mondo che brilla per il suo realismo.

In una Terra dove i Supereroi sono reali, queste cose probabilmente accadrebbero davvero. Infatti, questi “Supereroi” non sono dei veri superumani: non hanno poteri, non hanno capacità fuori dal comune né, salvo alcuni casi, intelligenze oltre la norma.

Sono poco più che dei normali vigilanti mascherati a cui ne seguono poi altri, in una sorta di Silver Age che si preannuncia meno gloriosa rispetto alla precedente. O, almeno, fino al 1959 quando un incidente trasforma Jonathan “Jon” Osterman in un vero superessere dalla pelle blu in grado di fare cose che vanno al di là dell’umana comprensione.
Il Super-uomo esiste ed è americano“, esclama l’anchorman che annuncia l’incredibile trasformazione. Da quel giorno, seguendo le direttive del governo, Jon Osterman diventa il Dottor Manhattan. La notizia rinfocola le speranze dei gruppi di Supereroi, tant’è che Manhattan finisce per fare squadra con altri colleghi come la nuova Spettro di Seta (Laurie Juspeczyk), Ozymandias (Adrian Veidt), il nuovo Gufo Notturno (Daniel Dreiberg), Rorschach (Walter Kovacs) e ancora il Comico (Edward Blake).

Ma l’idillio dura poco. La possibilità di poter contare su un uomo (Super-uomo? Extra-uomo? Oltre-uomo?) capace di annientare i missili sovietici in volo ha dato un enorme vantaggio agli USA, che hanno vinto la Guerra del Vietnam e Nixon è stato rieletto per ben 5 mandati consecutivi. Ancora una volta, tutti questi avvenimenti sono probabili e conseguenziali. Inoltre, l’esistenza di Manhattan ha creato un forte senso d’inferiorità nei confronti degli eroi mascherati da parte della gente comune, che si è sentita messa da parte, minimizzata, superata. E le sommosse popolari hanno costretto il governo ad applicare una legge, il cosiddetto Decreto Keene del 1977, che ha messo al bando i vigilanti. Alcuni si sono ritirati, altri si sono dati alla clandestinità e altri ancora hanno deciso di collaborare col governo. Ed è proprio quando uno di loro, il “Comico” Edward Blake, viene brutalmente assassinato che comincia la storia di Watchmen.

Dietro la maschera

 

C’è un motivo se Alan Moore viene considerato uno dei più grandi scrittori di fumetti di tutti i tempi. Abbiamo trascorso decenni a lodare il talento mostruoso del Bardo di Northampton e spesso abbiamo scherzato sulla sua abitudine di realizzare sceneggiature piene dettagli. Ma i dettagli sono una conseguenza del suo modo onnicomprensivo di ragionare, di studiare e pensare i personaggi.

Quando Alan Moore crea i suoi eroi, crea tutto ciò che li circonda. “Parlare di questi personaggi“, spiega nei materiali preparatori inseriti in appendice, “significava parlare anche del mondo che li aveva formati, e non potevamo parlare di quel mondo senza riferirci in qualche modo al nostro, anche solo per vie trasverse”. Credo che in queste parole sia possibile rintracciare il senso profondo di Watchmen.

Com’è possibile, mi sono sempre chiesto, che il progetto di una serie unica su un vecchio gruppo di supereroi (quelli della defunta Charlton Comics, di cui la DC aveva acquisito i diritti) si sia trasformato in un capolavoro quasi biblico? Per il suo profondo e inaspettato realismo, nato dalla geniale intuizione che ogni essere umano è frutto del mondo e della società in cui vive, virtù e problemi compresi. Quindi quelli di un gruppo di Supereroi, in questo spaventoso 1985 alternativo, non potevano altro che essere “Super”. Ma siamo lontani anni luce dalla formula coniata dal compianto Stan Lee, che spesso si divertiva ad ideare situazioni assurde al limiti dell’umoristico.

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Qui Alan Moore non ha bisogno di inventarsi niente, si lascia guidare dalle naturali reazioni dei suoi protagonisti all’ambiente. Ed ecco dunque che le manie di Rorschach ci appaiono perfettamente normali, insieme al suo religioso senso di giustizia, risposta estrema ad un’epoca estrema. Come il Comico, convinto di aver capito il “grande scherzo” della vita e per questo incapace di prendere tutto sul serio.
Che dire poi di Daniel e Laurie, apparentemente liberati da un’identità segreta ingombrante e che riabbracciano casualmente, come via d’uscita dalle delusioni delle loro esistenze? O il Dottor Manhattan, che divenuto un uomo oltre l’umano non può far altro che distaccarsi dalle faccende terrene, provando sempre meno interesse nei confronti dell’umanità? Perfino Ozymandias, sulla carta il più razionale degli altri, decide di optare per una soluzione definitiva per salvare un mondo sull’orlo di un collasso definitivo. Messa in questi termini, Rorschach e Ozymandias sembrano due facce della stessa medaglia, risposte estreme, tramite due strade diverse (la follia e il genio), ad un ambiente estremo. Ma anche loro, come gli altri, sono solo le conseguenze del mondo che li ha forgiati. E questo è il motivo per cui non riescono a salvarlo: il mondo stesso li ha già trascinati nel baratro.

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Un cast corale

 

Il realismo di Watchmen sta anche nella sua coralità, nel suo sapere dare spazio ad ogni personaggio. Sintomatico di questo è il frequente cambio di narrazione che permette a ciascuno di loro di raccontare la storia attraverso la propria prospettiva, seppur per brevi sprazzi.
Una tendenza che si concretizza anche sul piano grafico, tramite un utilizzo reiterato dell’inquadratura in soggettiva. Niente viene lasciato al caso o sottinteso, il lettore pone il suo sguardo su ogni figura che ha sempre e comunque un perché all’interno del complesso mosaico di Watchmen. Come gli investigatori del primo episodio, che ci consentono di avvertire il polso dell’ambientazione, o i soldati che fugacemente si lasciano sfuggire un commento, i giornalisti e i redattori del New Frontiersman, o l’edicolante e l’appassionato di fumetti che aggiungono stratificazioni con i loro discorsi (letture, in questo caso), in un una ricerca di dettagli, riferimenti e significati che può durare all’infinito. 

E questo rende Watchmen un autentico classico che, secondo la definizione coniata da Italo Calvino, “non finisce mai di dire quello ha da dire”. Non a caso, ho perso il conto di tutte le ristampe, di tutte le retrospettive, di tutte le analisi uscite nel corso degli anni che passano ai raggi X il lavoro di Alan Moore e Dave Gibbons (alcune veramente colossali, come il recente Leggere Watchmen di Francesco Moriconi).

Forse continua a creare un tale dibattito perché il suo modo di raccontare, i suoi temi e la sua forza sono parte fondante del linguaggio creativo di tante opere moderne. Penso per esempio ai film del Marvel Cinematic Universe o al pathos di Infinity War, che non esisterebbero senza Watchmen, o alla corrente dei “Supereroi adulti” degli anni ’90, all’ascesa delle graphic novel e delle serie TV del nuovo millennio.

A volte credo che solo quando arriverà un nuovo modo di raccontare, quando avverrà un conclusivo taglio col passato, il pubblico smetterà di parlare di Watchmen e si trasformerà in un altro di quei tanti capolavori inattuali che ingolfano gli scaffali delle librerie. Invece, in altre occasioni mi immagino che trascenderà i secoli e verrà studiato dagli studiosi del futuro. E forse solo loro potranno veramente capire l’impatto che ha avuto Watchmen in quello che sarà allora un passato più che remoto.
Ma in fondo, cos’è il tempo per un fumetto che ha inventato un personaggio come il Dottor Manhattan, capace di trascenderlo completamente e di vivere ogni sua parte in qualunque momento?

 

Elia Munaò
Elia Munaò, nato (ahilui) in un paesino sconosciuto della periferia fiorentina, scrive per indole e maledizione dall'età di dodici anni, ossia dal giorno in cui ha scoperto che le penne non servono solo per grattarsi il naso. Lettore consumato di Topolino dalla prima giovinezza, cresciuto a pane e Pikappa, si autoproclama letterato di professione in mancanza di qualcosa di redditizio. Coltiva il sogno di sfondare nel mondo della parola stampata, ma per ora si limita a quella della carta igienica. Assiduo frequentatore di beceri luoghi come librerie e fumetterie, prega ogni giorno le divinità olimpiche di arrivare a fine giornata senza combinare disastri. Dottore in Lettere Moderne senza poter effettuare delle vere visite a domicilio, ondeggia tra uno stato esistenziale e l'altro manco fosse il gatto di Schrödinger. NIENTE PANICO!