Il meccanismo della tensione

Monolith è un coraggioso ed ambizioso esperimento crossmediale che porta firme italiane.
La storia nasce dalla mente di Roberto Recchioni, ed è pensata in primo luogo per il grande schermo; si trasforma poi in fumetto, con una sceneggiatura in cui l’autore trova l’aiuto di Mauro Uzzeo e Ivan Silvestrini, e torna al contempo in auge l’idea del film, al punto che a distanza di pochi mesi dall’uscita della graphic novel nelle librerie, la pellicola verrà accolta dalle nostre sale cinematografiche. Precisamente dal 12 agosto.
La regia è affidata allo stesso Silvestrini, giovane ed audace cineasta romano.

Sandra (Katrina Bowden) è una giovane mamma in viaggio col suo bambino David, all’interno di Monolith, uno speciale SUV corazzato, infrangibile, inaccessibile, inattaccabile alla stregua di un carro armato, ed ovviamente un autentico frutto della tecnologia più avanzata. Purtroppo però, proprio in mezzo al deserto, la donna rimane fuori dal veicolo blindato, e il suo povero bambino è chiuso all’interno. Col sopraggiungere dell’alba il Monolith inizia a trasformarsi in una vera e propria fornace, e Sandra dovrà fare di tutto per aprire la macchina e portare in salvo suo figlio.

La singolarità del progetto crossmediale, pensato e realizzato contemporaneamente per carta e pellicola, si traduce in una meccanicità resa evidente dai risultati visti sul grande schermo. Chiariamo subito che non si tratta a tutti i costi di un difetto, come viene da pensare nelle prime battute, bensì di un affascinante test che col suo rodaggio si qualifica come un interessante strumento di analisi per i posteri. E l’esperimento, oltretutto, è in buona parte riuscito.


Monolith per il grande schermo è un’opera abbastanza asciutta, che evita voli pindarici e si concentra in maniera efficace e certosina su una particolare trasposizione del fumetto e sul rendere canonici e funzionali tecnicismi e struttura narrativa. Proprio lo script è uno degli aspetti che meritano maggiore attenzione in fase di analisi, in quanto non era affatto semplice replicare in un film una storia che su carta vive una diversa immediatezza, dettata dalle differenze – in tal senso – dei due medium. Silvestrini e la sua troupe sono bravi a rendere la frenesia e l’angoscia di una madre, coinvolgendo lo spettatore che da subito empatizza con Sandra, nonostante la donna non faccia altro che darsi colpe, probabilmente in parte autentiche, di ciò che le sta accadendo. In questo è importante il minimo di background dei personaggi che ci viene presentato in apertura, laddove per personaggi intendiamo sempre Sandra, ma anche suo marito Carl, che si vede solamente per pochi minuti attraverso una videochiamata sullo schermo della Monolith, ma è un tempo sufficiente per farci capire le difficoltà del loro rapporto di coppia, instillando in Sandra e nello spettatore il più che lecito dubbio che l’uomo abbia una relazione extraconiugale.

Dinamiche importanti in un’opera che va a scandagliare l’animo umano, di una donna costretta a fare i conti con se stessa e a mettere tutte le sue energie ed aguzzare l’ingegno per tirare suo figlio fuori dai guai.

Di fronte ha però ha l’ultima creatura partorita dal progresso: quel Monolith che è un chiaro omaggio di kubrickiane radici, e che identifica benissimo la concezione di un SUV granitico e sicuro al 99%, simbolo delle nostre ossessioni ed in particolar modo del popolo americano, che compie sempre più passi nella direzione di una elevatissima sicurezza, di una ricerca della perfezione e l’artificialità tecnologica, che però si scontra inevitabilmente con la fallacia e la naturalezza dei comportamenti umani.

Questo complesso connubio è una costante ed una delle fondamenta del film, ed il modo in cui ci viene proposto è convicente seppur lineare.
Linearità che diviene croce e delizia dell’opera.
Come già detto, è apprezzabile il modo schematico in cui viene realizzato il tutto, sintomo di una maniacale cura e forse della paura di prendere una deriva troppo distante dalla graphic novel, ma al contempo è logico che questo si ripercuota sulla staticità della narrazione, supportata esclusivamente dalla frizzante tensione di fondo e da qualche accorgimento tecnico.
A questo aggiungiamo la saggia scelta di una durata di poco superiore agli 80 minuti, che è il tempo che non permette allo spettatore di sbadigliare o di iniziare a stancarsi di una certa ripetitività di fondo; motivo per cui la maggior parte dei film provvisti di una trama esile e con poche ambientazioni tendono a non superare mai l’ora e mezza complessiva, ma per i quali si rende necessario scavallare la linearità con qualche vezzo o con una sottostruttura con i cosiddetti.

Monolith ha entrambe le cose, seppur il secondo aspetto resti un po’ sulla via dello stereotipo, con la crisi familiare e i drammi esistenziali di una madre, ma la maniera in cui viene proposto è convincente e persuasiva, anche grazie a Katrina Bowden, che si carica tutto il film sulle spalle.
Forse a volte sbanda un po’, al pari del suo avatar cinematografico, quando le responsabilità diventano un carico troppo pesante da reggere, ma con le urla di rabbia e con una invidiabile tenacia si riprende le redini ogni volta che sembra stia per perderle.

I vezzi a cui accennavamo invece sono un mirabile esercizio di stile, per cui già dalle prime sequenze è ben chiaro il particolare taglio fotografico che si vuole dare a questo Monolith, con inquadrature schizzate e dai contorni non sempre definiti, che ricordano a volte il fumetto, ed in questo è manifesto l’inserimento a gamba tesa di LRZN. Oltre a ciò abbiamo ambientazioni desertiche alla Prey (il film del 2007, non il videogioco n.d.R.), che ben si sposano con la tensione narrativa e la solitudine, anche umana, della donna.

In sostanza Monolith è un’opera che prende forza dai cliché di genere, tratteggiando delle linee autentiche e dando vita ad un esperimento accattivante e di indiscutibile interesse. Considerando che tutto questo è avvenuto nel panorama italiano (seppur in suolo americano), non è affatto cosa da poco.

Verdetto:

Monolith è un interessante esperimento crossmediale, pensato e realizzato contemporaneamente per carta e pellicola, che sul grande schermo si traduce in un’opera lineare, sintomo però di una maniacale cura del dettaglio e di evidenti tecnicismi, che non sono dei vezzi di stile fine a se stessi.
Asciutto e meccanico in alcuni aspetti, Monolith prende forza dai cliché di genere per supportare una sottostruttura narrativa attenta ed efficace, e una tensione costante che va di pare passo con l’empatia dello spettatore con la protagonista.

Tiziano Costantini
Nato e cresciuto a Roma, sono il Vice Direttore di Stay Nerd, di cui faccio parte quasi dalla sua fondazione. Sono giornalista pubblicista dal 2009 e mi sono laureato in Lettere moderne nel 2011, resistendo alla tentazione di fare come Brad Pitt e abbandonare tutto a pochi esami dalla fine, per andare a fare l'uomo-sandwich a Los Angeles. È anche il motivo per cui non ho avuto la sua stessa carriera. Ho iniziato a fare della passione per la scrittura una professione già dai tempi dell'Università, passando da riviste online, a lavorare per redazioni ministeriali, fino a qui: Stay Nerd. Da poco tempo mi occupo anche della comunicazione di un Dipartimento ASL. Oltre al cinema e a Scarlett Johansson, amo il calcio, l'Inghilterra, la musica britpop, Christopher Nolan, la malinconia dei film coreani (ma pure la malinconia e basta), i Castelli Romani, Francesco Totti, la pizza e soprattutto la carbonara. I miei film preferiti sono: C'era una volta in America, La dolce vita, Inception, Dunkirk, The Prestige, Time di Kim Ki-Duk, Fight Club, Papillon (quello vero), Arancia Meccanica, Coffee and cigarettes, e adesso smetto sennò non mi fermo più. Nel tempo libero sono il sosia ufficiale di Ryan Gosling, grazie ad una somiglianza che continuano inspiegabilmente a vedere tutti tranne mia madre e le mie ex ragazze. Per fortuna mia moglie sì, ma credo soltanto perché voglia assecondare la mia pazzia.