Memoria, intelligenza artificiale, autocoscienza e ripetizione come momenti di riflessioni sul videogiocare

 

In concomitanza con l’uscita della Game of the YoHRa Edition, prevista per il prossimo 26 febbraio, abbiamo deciso di recuperare l’ottimo NieR: Automata e di analizzare alcuni dei suoi tratti peculiari in questo speciale. Nello specifico, il nostro intento è quello di gettare uno scampolo di luce intorno ad alcuni nuclei tematici, come la memoria, l’intelligenza artificiale, l’autocoscienza e la ripetizione, che riteniamo piuttosto rilevanti; come fossero dei veri e propri veicoli di senso dall’alto valore esperienziale, trasformativo e narrativo. Elementi che, sommati o posti gli uni di fianco agli altri, permettano di scorgere una struttura sì eterogenea e multiforme, cionondimeno riconducibile a un disegno d’insieme che, raccolte tutte le informazioni presenti, acquisti lo stesso moto di propagazione delle onde in uno specchio d’acqua: rotazioni concentriche di un messaggio plurivoco e stratificato. Obiettivo, dunque, non è esaurirne le possibilità interpretative, ma sospenderne la ricorsività per tradurla in un possibile senso.
Un senso in-finito, poiché soggiogato dalla continua possibilità offerta dal re-start, forse unico limite ludico ed extra-ludico imposto al videogame per come (ancora) lo concepiamo.

Premesse generali: breve “storia” dell’autocoscienza e dell’intelligenza artificiale

L’autocoscienza viene definita come l’attività riflessiva attraverso cui l’io diventa cosciente di sé e mediante la quale, avviando un processo introspettivo, è possibile indagare gli aspetti più profondi dell’essere (umano). Fondamento della riflessione di numerosi pensatori (da Socrate ad Aristotele solo per limitarci all’antica Grecia), a seguito dell’avanzamento tecnologico-informatico, l’attività speculativa nei suoi riguardi si è inevitabilmente intrecciata (per inclusione o esclusione) con quella relativa alla così detta Intelligenza Artificiale che Marco Somalvico definisce come la “disciplina appartenente all’informatica che studia i fondamenti teorici, le metodologie e le tecniche che consentono la progettazione di sistemi hardware e sistemi di programmi software capaci di fornire all’elaboratore elettronico prestazioni che, a un osservatore comune, sembrerebbero essere di pertinenza esclusiva dell’intelligenza umana”. Instauratosi tale rapporto, possiamo scorgere, all’interno della “filosofia dell’intelligenza artificiale”, diversi orientamenti provenienti soprattutto dall’area filosofico-scientifica anglosassone e uniti soltanto dall’intento reciproco di stabilire i fondamenti delle relazioni tra mente e cervello: il primo è chiamato “funzionalismo rigido e riduttivista”; il secondo “funzionalismo moderato”; e il terzo “emergentismo”.

Per quanto riguarda il primo orientamento: esso può essere considerato un “riduzionismo materialista” che recupera e prosegue il dibattito del materialismo tardo settecentesco e teorizza che “gli stati della mente sono stati del cervello”. Il secondo, non essendo riduzionista, considera la mente come un programma organizzato che non dipende dalla fisiologia cerebrale e dal sistema nervoso in generale; per questo la mente non è un prodotto, o un effetto causato, del cervello. Concedendo un certo ruolo alla causalità mentale rispetto al “funzionalismo rigido e riduttivista” incorrono in un discutibile “epifenomenismo” (posizione secondo cui la mente è incapace di causazione effettiva di stati mentali, i quali altro non sarebbero che semplici fenomeni collaterali, irrilevanti e poco significativi).

È importante segnalare come neanche il “funzionalismo moderato” prenda in considerazione il ruolo e la funzione dell’autocoscienza e del senso di sé, riproponendo perciò una posizione dualista fra il mondo della mente e la sfera corporea (sì di ascendenza cartesiana, ma senza la centralità dell’autocoscienza e dell’autoconoscersi che in Cartesio hanno un ruolo fondamentale). Oltretutto tali orientamenti incorrono in un nuovo dualismo: quello tra il cervello e il corpo, non senza particolari conseguenze nell’ambito della bioetica. La terza posizione, l’emergentismo, sembra la più critica, non senza qualche oscurità e/o contraddizione. L’emergentismo riconosce che non tutto può essere spiegato nella vita della mente con “programma” o con la causalità fisiologica e, conseguentemente, il ricorso all’interiorità dell’autocoscienza è inevitabile — Jonh Searle, riprendendo il concetto fenomenologico di “intenzionalità” della coscienza, in una sua celebre argomentazione detta della “stanza cinese” afferma che “ponendo una stanza ben chiusa in cui c’è una macchina che traduce dal cinese; l’ignaro richiedente la scambierebbe per un traduttore umano”; Searle ribatte che la macchina segue istruzioni e traduce, ma non per questo “comprende” e “conosce” il cinese e proprio per questo la mente ha qualcosa di “emergente” che non è interamente riducibile al cervello. Un altro autore abbastanza vicino a questa posizione è Donald Davidson con il suo “monismo anomalo” — la teoria secondo cui il sostegno ultimo della vita mentale è la corporeità, ma le leggi e i processi del pensiero e della vita psichica sono comprensibili anche autonomamente e indipendentemente da essa; la mente quindi emerge, è causata, ma la sua causalità ha un che di eccedente rispetto ai processi della fisiologia.

Autocoscienza e intelligenza artificiale in NieR: Automata

Il mondo post-apocalittico di NieR:Automata vede la contrapposizione, sotto forma di una guerra per procura, fra biomacchine e speciali androidi da combattimento. Le prime inviate da un’ostile razza alinea con lo scopo (raggiunto) di espugnare la Terra, i secondi creati dagli esseri umani per contrastare gli invasori alieni e riconquistare il pianeta. La storia ci vede impersonare proprio due esemplari di questi androidi, le unità YoRHa 2B e 9S, attraverso i quali seguiremo un percorso apparentemente circolare, a volte tedioso e ripetitivo, che, tuttavia, non mancherà di sorprendere il giocatore rinnovando più di una volta i concetti di New Game Plus e di ricorsività narrativa. Uno degli scarti più rilevanti, capace di mettere in discussioni alcune posizioni che credevamo certe e di problematizzare le conseguenze delle nostre azioni, avviene nel momento in cui ci rendiamo conto che entrambe le tipologie di macchina hanno iniziato a sviluppare delle emozioni, stati psico-fisici tipicamente umani. Ovvero hanno iniziato ad assumere atteggiamenti mimetici e simpatetici dei comportamenti umani che, da semplici anomalie, acquistano una sistematicità ontologica. In loro sembra essersi sviluppato un desiderio che li pone al di là di semplici contenitori programmati per portare a termine uno scopo, la loro stessa esistenza inizia ad assumere dei criteri di profondità che li porta a riflettere sul senso stesso dell’esistenza, sullo scopo dell’esistenza e sul significato della vita. Un paradigma di autodeterminazione che li smarca dal ruolo di semplici macchine assassine, di semplici nemici o di semplici simulacri di un’umanità compilata da una serie di zero e di uno.

Qui si entra di diritto nel merito del rapporto tra il soggetto e l’oggetto, tra l’io individuale che si automanifesta e autorealizza come tale (in sé e per sé e all’interno di uno spazio-mondo) e l’altro, che allo stesso modo compie i medesimi atti-pensiero (i quali, tra l’altro, per il soggetto sono altri oggetti che presumono e si presumono essere soggetti, ma della cui natura non si può avere piena certezza). La mia percezione è condivisa con quella dell’altro o è differente? Il cogito ergo sum di Cartesio non basta più per avere certezza della propria individuale esistenza; e anche qualora potessimo non dubitare del nostro essere, come potremmo stabilire se l’altro sia come noi o se sia piuttosto altro? Perché anche l’androide, anche la biomacchina, pur nella sua non-umanità, ha consapevolezza della propria esistenza e dunque della propria morte, anche lui possiede sentimenti, anche lui ha ricordi (magari prefabbricati ma che egli crede propri)… dunque cosa rimane a distinguere le due entità? Che cos’è, a conti fatti, la coscienza?

Può esistere libero arbitrio all’interno di un sistema preordinato? Cercare di rompere la catena, di fuoriuscire dalla spirale, è anch’essa una mossa prevista dal sistema (magari inserita in qualche riga di codice) oppure è realmente possibile?

L’idea alla base della cosiddetta “intelligenza artificiale forte” afferma che un computer potrebbe possedere una mente vera e propria ed essere dotato di coscienza. Cionondimeno, un sistema di questo tipo, potrebbe possedere diversi gradi di conoscenza senza comprenderne davvero il significato: è quello che cerca di dimostrare il filosofo John Searle nell’esperimento mentale della stanza cinese. Prendendo per vera la teoria della embodied cognition, la quale afferma che la coscienza può svilupparsi soltanto all’interno di un corpo e affermando che gli androidi hanno un corpo esteriormente identico a quello umano (anche se le prime versioni erano interamente meccaniche rispetto alle ultime), che cosa distingue gli androidi dagli essere umani? La potenza computazionale? L’assenza di libero arbitrio, la propria natura artificiale? E cosa li distingue, invece, dalle biomacchine quando anch’esse si comportano come essere umani e sviluppano le stesse emozioni e manifestano medesime volontà sociale e relazionali?
La realizzazione ludica di meccaniche di gioco volte alla distruzione e al massacro, non fa altro che tingere di esiti funerei i passi del giocatore intento a ricalcare per necessità, un percorso, tortuoso e ramificato, fatto di incertezze e sensi di colpa.

 

Memoria come centro di tutto

Forse la questione ruota tutto intorno al concetto di memoria, al concetto di esperienza accumulata attraverso la nostra stessa esistenza, al suo stratificarsi in ricordi e pensieri attraverso i quali definiamo il mondo che ci circonda e la nostra stessa identità. Dalla memoria, infatti, dipende quasi tutto nel mondo-di-gioco di NieR:Automata: dai power-up aggiornabili tramite chip, all’interfaccia grafica del titolo: tutto ciò che ci circonda dipende dagli innesti mnemonici che possediamo e/o che abbiamo ereditato. La nostra comprensione è giustificata da elementi in-game e il nostro livello di conoscenza si appiattisce su quello del nostro avatar. La stessa meccanica di morte e rinascita, che presuppone un incessante e infinito scambio di corpi e coscienze, nella presenza materiale delle scatole nere, non è altro che un classificatore valoriale che distingue, per importanza, i due elementi in gioco: da una parte il corpo, guscio esterno di scarsa importanza; dall’altra la memoria, cuore cerebrale dell’esistenza stessa. Perdere il corpo porta sì alla sconfitta ma anche alla successiva rinascita, la perdita della memoria porta soltanto alla fine.

Ed è proprio perché il trasferimento di memoria, il backup, eternalizza l’esistenza in una spirale di ritorni che il finale E assume una rilevanza assoluta: esso diviene la sintesi estrema dell’ultimo gesto che il gioco può chiedere al giocatore: ovvero la totale eliminazione di qualsiasi traccia lasciata dal nostro percorso. È l’input definitivo, quello che una volta premuto attiva uno sguardo volto all’indietro che annichilisce ogni cosa. La significazione è infinita nelle sue pieghe, nei suoi ricami intorno a quei contorni che vediamo sparire con sistematiche e inesorabile spietatezza. Il premio, l’immolazione per restituire quanto ci era stato donato: un aiuto per non morire e condurre, un passo dopo, all’esaurimento la nostra stessa esistenza. Fondando l’identità intorno a ricordi intensi e dolorosi si aumenta e si ottiene la comprensione di quello che siamo. Si ottiene la possibilità di concepirsi come individui e di svincolarsi da una programmazione “divina”, di farsi libero arbitrio. L’apertura al mondo disperde le individualità digitali in una coscienza collettiva che farà da supporto motivazionale a tutti coloro che effettueranno le medesime, dolorose, scelte. Quello che rimane, dal di fuori, siamo solo noi, noi giocatori privati di un avatar e privati di un salvataggio su cui abbiamo speso decine di ore, intenti, forse, o forse no, a riflettere sullo scopo di un viaggio che ha la stessa consistenza brillante di una composizione ad anello: una dorata superficie scintillante il cui vuoto è presagio di un futuro che è già passato. Avviare, o riavviare, è l’unica scelta dotata di pieno senso. Il resto è un cammino frammentato e insondabile, un atto che è inconoscibile poiché vive sommando attimi infinitesimali.

È la memoria, quindi, a renderci umani e a definire la nostra coscienza. È vero gli androidi, o le biomacchine, o i pod, non nascono e non crescono: vengono creati e ricreati. Il loro background, i loro ricordi, tutto ciò che attribuiscono alla propria crescita, alle lezioni esperienziali della vita, sono il frutto di una programmazione da parte di terzi, di un demiurgo con il potere di stravolgere un intero passato con un semplice update del sistema. Ma neanche noi possiamo essere certi che i nostri ricordi non siano stati impiantati nella nostra mente da qualcuno o da qualcosa, anche se sono vividi e sembrano veri. Forse siamo soltanto androidi e la nostra coscienza è un semplice glitch, un’anomalia di programmazione.

La ripetizione come logica della narrazione

Il cammino di NieR: Automata non si esaurisce arrivando la prima volta ai titoli di coda. O meglio, semioticamente, questo percorso si costituisce benissimo come uno spaccato autonomo godibile in sé e per sé; il suo confezionamento, d’altra parte, ne evidenzia la possibile autosufficienza narrativa. Tuttavia, qualcosa non torna. Spia tangibile è la proposta scritta attraverso cui si viene invitati a proseguire con una nuova partita nei panni di 9S poiché, sibillinamente, fra le altre cose ci viene detto che ulteriori elementi della trama devono ancora essere svelati. Ed ecco che ripartiti ci troviamo catapultati in una dimensione ludica che conosciamo: il percorso di 9S ci è familiare, solo qualche volta scorgiamo deviazioni inedite, eppure lo spaesamento non ci abbandona mai. Assumere un nuovo punto di vista e fruire delle capacità “esplorative”di 9S ribalta alcune certezze che credevamo di possedere.

La vera natura di NieR: Automata inizia a svelarsi piano piano: dopo il secondo finale, identico al primo, la situazione muta nuovamente e continua a farlo per tutta la terza run restituendo un turbinio di ribaltamenti, di cambi di avatar, di soluzioni ludiche che si intrecciano senza soluzione di continuità a eventi narrativi che modificano radicalmente il rapporto fra i comprimari, cambiando gli attanti e gli agenti in gioco. L’intreccio si fa triplice per poi ristabilirsi su un binario oppositivo che arriva a farci scegliere l’ultimo boss da affrontare. Una scelta-non scelta poiché, anche qui, la ripetizione è tale anche quando si fa arborescenza: le linee narrative mutano in rette parallele che esplodono e si aprono a un ricordo della differenza. I finali C e D sono il preludio necessario per il vero finale, il già citato finale E, la distruzione apocalittica, ma anche per tutti i ventisei finali presenti: uno per ogni lettere dell’alfabeto. Una sovrabbondanza comunicativa che mira a succedere, secondo un ordine non sempre logico né lineare a livello cronologico, eventi aggiuntivi, spesso autoconclusivi e spesso brevissimi. Una sorta di scherzo all’auctoritas che una conclusione essere destinata a dover avere.

Non è una de-mitizzazione del valore del racconto, anzi, la sua potenza è ben espressa in molti momenti e in alcune delle situazioni (o esiti) sopra descritti; piuttosto si esprime in una volontà di unire in uno stretto rapporto di relazione dialettica il campo d’azione della narrazione con quello dell’interattività: un processo alternato, e alternativo, di mutua messa a fuoco. L’incessante invito, qualora il meccanismo trovi un terreno fertile, alla ricorsività, al continuo ricominciare, ripetere, rifare, diviene un movimento ipnotico che significa poiché interviene sul giocatore; anzi, perché fa intervenire il giocatore. Il depositario finale di un accrescimento conoscitivo, memoriale ed esperienziale di una storia, di storie, che potrebbe non finire mai.

Yoko Taro

Autorialità e messaggi: Yoko Taro come comunicatore

Sintetizzare un’opera come NieR: Automata è estremamente difficile, la plurivocità e l’eterogeneità che la compongono sfuggono a un’eventuale maglia contenitiva della classificazione. Le categorie non si scelgono, si sommano e si confondono. Quello che alla fine rimane è un’idea: comunicare, attraverso il mezzo videoludico e le parti che le compongono, un qualcosa. Ma che cosa?
Lo stesso Yoko Taro, l’eccentrico creatore del titolo e del suo universo, ammette di volersi scartare da un diretto e immediato approccio esistenziale, preferendo attivare un meccanismo più profondo e meta-testuale di autoriflessione nei confronti del giocatore e dell’atto stesso del videogiocare. Posti di fronte a un tracciato multiforme, esposti a un cambiamento che sostituisce l’inesatta ripetizione dell’uguale e alterna atti talvolta esplicitamente malfunzionanti (come la maggior parte delle side-quest) a un gameplay sempre divertente, l’economia che ne risulta necessita di dedizione e di rinnovare continuamente un patto con chi è dall’altra parte. La promessa è continuamente rimandata al domani, alla prossima run.

E per quanto l’incompletezza sia un suggerimento più che un reale stato di fatto, di sconti Yoko Taro non ne fa a nessuno. Il risultato è un’ecologia del medium videoludico come spazio non neutro all’interno del quale poter attivare, tramite l’interazione e la successioni di eventi di un racconto, un processo di incontri. Dalla mente del creatore, dalle sue scelte e decisioni di game-design, lo spazio pensiero si allarga ai diversi fruitori, realizzando quello step intermediale possibile solo “qui dentro”. Nel mondo-videogioco insomma, che si fa viaggio trasformativo ancor prima di essere concluso. In quel finale che, come NieR: Automata insegna, non è mai veramente definitivo.

 

 

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