Shhh!

Silenzio in sala, inizia il film. E il silenzio resta. Questa la grande trovata del film di John Krasinsky, qui nelle vesti triple di attore, regista e co-sceneggiatore. A quiet place (dal 5 aprile nelle sale italiane), senza troppe parafrasi, è un horror fresco e denso di azione, che si fonda su un’idea ai limiti del meta-cinema, ben sviluppata e strutturata in un racconto conciso e, benché non terrorizzante, angosciante e appassionante.

 

Non sappiamo come, non sappiamo perché – ma d’altronde ormai è topos del genere lasciare aperti gli interrogativi sulle origini di zombie e mostri – l’Umanità è stata decimata a tempo di record (89 giorni) da creature apparentemente indistruttibili che cacciano e si scagliano contro chi produca suoni di alcun tipo. Tutti, e nello specifico un nucleo familiare composto da madre (Emily Blunt), padre (John Krasinsky) e tre figli piccoli, di cui una non udente (Millicent Simmonds), hanno imparato a vivere riducendo a quasi zero la somma di rumori prodotti. Quindi, innanzitutto, si cammina in punta di piedi e si parla con il linguaggio dei segni.

Qui, il primo virtuosismo narrativo: avendo una figlia non udente, i familiari devono aver avuto meno difficoltà a comunicare indipendentemente dal suono e, almeno inizialmente, appaiono a proprio agio in un mondo che, per sopravvivere, deve rinunciare a sentire. Ciò non vuol dire che, comunque, la mancanza di udito della piccola, che si ripercuote su di noi tramite brevi sequenze soggettive, non sia un alto fattore di rischio. Qualunque piccolo rumore può costare la vita, data la ferocia selvaggia delle creature.

Quest’ultime, forse, costituiscono un punto fragile del film. Mentre l’uso auto-referenziale del sonoro, punto chiave di ogni horror e di ogni pellicola in generale, è perfetto perché non richiede artifici tecnici per creare un’afasia assordante, un silenzio muto che ci tiene sempre sulle spine, la regia visiva delle creature potrebbe essere più prudente. Questa, invece, si riduce agli stilemi del genere, senza sbavature ma nemmeno senza osare eccessivamente. Non è strettamente necessario, comunque, quando il film è sorretto dall’inizio alla fine dalla claustrofobia acustica che non manca di declinarsi in diverse occasioni ansiogene. Senza anticipare nulla: come si fa a crescere, educare e tenere al sicuro una famiglia con bambini piccoli in un mondo dove il suono è letale? È possibile divertirsi? O rilassarsi? O ballare a tempo di musica?

La performance attoriale, peraltro, è amplificata dal dover ricorrere a un’espressività tutta diegetica che costringe a ridere, piangere, esprimere rabbia, amore, paura e soprattutto tanto, tanto dolore senza vocalizzare (salvo casi rarissimi, a orecchio una trentina di parole pronunciate in tutto il film). Emily Blunt ci regala un’altra prova delle sue, ottima e super-empatica dalla prima all’ultima scena, persino più di un John Krasinsky comunque efficace, preso nel ruolo di padre-tutore, e dei due figli più al centro delle vicende: l’impulsiva quasi-ragazza di Millicent Simmonds e il più “timido”, per dirla con una perifrasi elegante, secondogenito maschio col volto di Noah Jupe. Chiudono il cerchio di una pellicola breve ma intensa un accompagnamento sonoro giustamente sul chi vive, che enfatizza al massimo scricchiolii, fruscii e tonfi, e una fotografia ispirata della campagna americana ma, onestamente, non certo rivoluzionaria.

a quiet place recensione

Verdetto

A quiet place non rivoluziona il suo genere, ma apre la finestra per far entrare la proverbiale e occasionale ventata d’aria fresca. L’idea di rendere il suono, da mero strumento tecnico per causare scarejump, un elemento chiave della vicenda è vincente e, anche non fosse sostenuto (e lo è) da una prova attoriale molto convincente e una regia pulita, ci spinge con passione dalla prima intestazione ai titoli di coda. Ben fatto e consigliato a tutti, fan o meno del genere.