Danza le cinepresa e colora di bianco e nero la vita. Aprite gli occhi, frammenti di realtà appariranno d’incanto, mentre ruota soavemente il caleidoscopio bicromatico di immagini create da Alfonso Cuarón.

Un riflesso di un aereo nell’acqua sporca, un dettaglio di quotidianità ci accoglie ed una giostra prende il via, a bordo salgono sguardi malinconici, sofferenti, ma capaci d’incanto di riempirsi di brio.

Il regista messicano torna nella sua terra, nella sua infanzia, nelle strade pulsanti in cui è cresciuto e regala una pellicola dalle sfumature poetiche. Perché Roma è il film più personale del cineasta messicano ed ha le fattezze e il retrogusto di un ricordo custodito gelosamente nella propria mente. Quel luogo in cui le orme sul terreno non si cancellano e in cui ogni parola pronunciata ha un eco eterno.

Cuarón ferma il tempo della sua infanzia e cattura l’anima del suo quartiere: suoni inconfondibili, volti di un’umanità ormai perduta e gesti vengono cristallizzati dal suo sguardo. La sua cinepresa crea scansioni di una quotidianità passata, che diventa immortale e senza tempo. E la racconta con l’amore con cui si mantiene vivo un ricordo a cui si è legati in maniera viscerale.

Il regista messicano porta lo spettatore lì dove la sua infanzia iniziava a specchiarsi con l’adolescenza, il quartiere Colonia Roma, regno della borghesia e simbolo delle contraddizioni e dei contrasti della capitale. In questo microcosmo di Città del Messico vivono Sofia, madre di quattro figli e un passato da biochimica accantonato per dedicarsi alla famiglia, sua madre e il marito Antonio, medico perennemente assente causa viaggi di lavoro. Esponenti dell’upper class messicana la cui vita agiata è palesata dagli enormi spazi della loro abitazione, dalla lussuosa ed ingombrante Ford Galaxy parcheggiata nel proprio cortile e dalla presenza costante delle domestiche. Ed è proprio la giovane domestica Cleo che diventa il fulcro portante della pellicola.

Il personaggio interpretato da Yalitza Aparicio appare candido, autentico, capace di donare bellezza ad una realtà altrimenti avversa, fatta di assolute contraddizioni. Perché Roma e il Messico degli anni settanta sono il palcoscenico in cui convivono i ricchi gringos e le classi più povere, in cui la matrice patriarcale della società impone scelte intransigenti alle donne, messe in disparte, vittime di uomini senza morale. Cuarón prende in mano i più tetri contrasti della sua terra e li infrange, utilizzando la purezza e l’umanità dei suoi personaggi.

Lì dove la solitudine e l’abbandono sembrano inarrestabili, rifulge e si ribalta il destino delle donne della pellicola. Come la protagonista di Gravity, Cleo è più forte di ogni sventura ed è capace di azzerare avversità e differenze sociali. Perché anche dove le differenze imposte dalla storia e dalla società sembrano invalicabili, basta affidarsi alla potenza umana più pura e pulsante per rompere schemi, pregiudizi e riappropriarsi della propria vita. Ritrovando quell’umanità, che, nonostante tutto, non ha mai smesso di esistere.

Anche gli eventi politici che scuotono il Messico in quegli anni vengono travolti dalla potenza dei personaggi femminili della pellicola. Esempi lampanti di come accoglienza e solidarietà siano la chiave per arginare e superare contrasti ed emarginazione.

Lo sguardo di Cuarón fluttua nella pellicola, cattura dettagli, ma con delicatezza. La cinepresa si muove in disparte, riprende la potenza della vita e ne pennella le sfumature più acquerellate. In un bianco e nero asciutto, ma allo stesso tempo pieno di poesia. Come solo un ricordo riesce a regalare.

Girata in 65mm, la pellicola è un trionfo di tecnica e ricercatezza estetica. Lunghi piani sequenza, utilizzati con maestria da Cuarón in tutta la sua filmografia, e un utilizzo sontuoso della fotografia regalano al film echi di un cinema d’altri tempi, completamente scevro da interessi commerciali. Con l’unico obiettivo di rapire sguardi estasiati. La delicatezza con cui la camera segue paesaggi e persone contraddistingue ogni sequenza. Umani e luoghi vengono svelati con un tocco registico lieve, quasi a non voler intaccare la forza e la bellezza di chi si trova davanti alla macchina da presa. Le lente panoramiche si insinuano nella vita pulsante dei protagonisti, seguiti con un garbo che crea curiosità ed empatia. Perché il cinema è vita e la finzione è silenziosa.

Il sound design curato nei minimi dettagli inoltre immerge totalmente nella caotica realtà messicana e fa percepire allo spettatore ogni singolo rumore della quotidianità. E in un attimo si è catapultati in un’altra epoca, in un luogo così caro al regista da saperlo dipingere con pennellate soavi.

Verdetto

Roma è un meraviglioso atto d’amore di Alfonso Cuarón. Nei confronti del cinema e delle proprie origini. Lì dove il regista è cresciuto, va in scena il trionfo dell’umanità. Dipinta in bianco e nero. E quei colori danzano insieme, creando quelle sfumature e dettagli capaci di estasiare ogni amante della settima arte.

Leone Auciello
Secondo la sua pagina Wikipedia mai accettata è nato a Roma, classe 1983. Come Zerocalcare e Coez, ma non sa disegnare né cantare. Dopo aver imparato a scrivere il proprio nome, non si è mai fermato, preferendo i giri di parole a quelli in tondo. Ha studiato Lettere, dopo averne scritte tante, soprattutto a mano, senza mai spedirle. Iscritto all'Ordine dei giornalisti dal 2006, ha collaborato con più di dieci testate giornalistiche. Parlando di cinema, arte, calcio, musica, politica e cinema. Praticamente uno Scanzi che non ci ha mai creduto abbastanza. Pigro come Antonio Cassano, cinico come Mr Pink, autoreferenziale come Magritte, frizzante come una bottiglia d'acqua Guizza. Se cercate un animale fantastico, ora sapete dove trovarlo.