Il film che ha trionfato ai Golden Globe

Pioggia di applausi e di statuette per Tre Manifesti a Ebbing, Missouri durante la cerimonia dei Golden Globe svoltasi il 7 gennaio nella consueta cornice di Beverly Hills.
Il film di Martin McDonagh ha vinto come miglior film drammatico, battendo la concorrenza dei favoriti, come il masterpiece nolaniano Dunkirk (niente, caro Christopher, non te lo vogliono proprio dare un premio serio) o il tanto chiacchierato Chiamami col tuo nome di Guadagnino, ed ha trionfato anche nelle categorie Migliore attrice e Migliore attore, entrambi ovviamente per film drammatico, con Frances McDormand e Sam Rockwell (meritatissimo soprattutto l’ultimo), e nella sceneggiatura, sempre di McDonagh.
Insomma un bel bottino per questo film che vedremo nelle sale italiane dall’11 gennaio.

C’è un coeniano a Londra

Martin McDonagh, regista londinese, inizia a darci un calco ben definito della sua autorialità.
Se con In Bruges aveva fatto un esperimento, presentandoci una sorta di poliziesco ricco di sfumature comedy, e con 7 psicopatici aveva posto delle basi importanti, facendoci rivedere quelle tinte noir che ammiccavano molto ai Coen, qui – con Tre Manifesti a Ebbing, Missouri – procede in maniera molto matura su quegli standard, illustrandoci però stavolta un prodotto autentico e assolutamente “suo”.
Non che i precedenti film non lo fossero, ma crediamo sia ovvio che ogni regista abbia dei punti di riferimento, delle basi da cui partire per cercare di realizzare il tipo di opera che è maggiormente nelle proprie corde.
Con quest’ultimo film, McDonagh ha inserito la quarta marcia proseguendo spedito nel viale che aveva già imboccato con le prime due opere, con la consapevolezza di chi ha preso il percorso giusto.

Nella città di Ebbing, in Missouri, Mildred Hayes (Frances McDormand) non si dà pace per via della tremenda fine che ha fatto sua figlia Angela, stuprata ed uccisa da un mostro del quale non si conosce ancora l’identità. Pensa pertanto che il modo più giusto per sollevare l’attenzione sia quello di affittare 3 manifesti pubblicitari, in cui accusa la polizia ed in particolar modo lo sceriffo Bill Willoughby (Woody Harrelson) di non aver lavorato adeguatamente su questo caso. Da qui si scateneranno una serie di reazioni a catena, con il povero Willoughby che nel frattempo deve combattere con una grave malattia, e l’agente Dixon (Sam Rockwell) che gli è molto legato e che non prende assai positivamente le accuse della donna.


Tre manifesti a Ebbing, Missouri è un film che racchiude quindi tanti aspetti.
Uno di questi è senza dubbio la comunità e le reazioni che si scatenano all’interno di essa in una cittadina dove tutti si conoscono e dove i rapporti possono mutare con un semplice gesto, poiché qui ogni piccolo cambiamento ha una portata immane sulla popolazione, sulle interazioni sociali e sui rapporti di forza che governano la località. Guadagnarsi il rispetto in una realtà di questo tipo non è cosa semplice, ma quando ciò avviene si può giocare un ruolo fondamentale, così come quando ti viene data un’etichetta, che sia essa positiva o negativa, è estremamente difficile staccarsela di dosso.  È allora divertentissimo notare come si relazionano i personaggi principali e secondari, con la protagonista Mildred aka Frances McDormand che incute timore per i suoi modi burberi e determinati, nonostante non tutti la rispettino, quantomeno per come ne parlano alle spalle. Discorso diverso invece per lo sceriffo interpretato da Harrrelson, che è una vera e propria istituzione ad Ebbing ed è amato e ammirato da tutti, forse persino da Mildred, che pure non può fare a meno che identificarlo come capro espiatorio dell’incompetenza della polizia locale, che non ha ancora trovato il colpevole del brutale assassinio di sua figlia, a distanza di 7 mesi.

Poi c’è l’agente Dixon, interpretato da un eccezionale Sam Rockwell, che McDonagh ha evidentemente apprezzato alla follia (come pure noi, del resto) nel suo 7 psicopatici, e non ha potuto fare a meno di portarlo con sé anche in questa avventura. Dixon è un bamboccione che vive ancora a casa con la madre, che lo comanda un po’ a bacchetta, ma sul lavoro si sfoga, lasciandosi prendere sin troppo la mano o il manganello, per poi riversare le sue frustrazioni sull’alcool a fine serata. Eppure, nonostante questo è un uomo buono, dal cuore puro (o quasi), che prova una profonda ammirazione per il suo capo e cerca di fare al meglio il suo mestiere. Non a caso l’evoluzione del suo personaggio sarà uno degli aspetti più importanti di tutto il film, e ci appassioneremo alle mutazioni dell’agente Dixon, alla sua follia e alla sua imprevedibilità, ma anche al suo animo candido e in fondo un po’ bambinesco.

Oltre a questo c’è il dramma, quello vero, palpabile, che affonda le radici nel peggiore dei traumi che un genitore possa vivere e ci viene proposto in maniera indiretta da McDonagh, attraverso il dolore dei suoi personaggi e del modo in cui affrontano la situazione. C’è quello di sua madre Mildred, che nella sfacciataggine delle sue azioni cerca delle risposte concrete, abbattendo ogni barriera e ogni remora, persino quella del rispetto di una persona come lo sceriffo Willoughby, irreprensibile e vittima anch’egli di una tragedia, quella che vive su di sé, sul suo corpo che inizia a manifestare gli effetti di un cancro spietato e terribile. Ma non c’è spazio per l’etica o il buon senso nel cuore di Mildred, che vuole sapere a tutti i costi chi ha fatto del male a sua figlia.
Poi il dolore può assumere forme diverse, meno introverse e meno esplicite, come nel caso del figlio di Mildred, Robbie, interpretato da Lucas Hedges, che vive malissimo le scelte della madre e quindi oltre a dover convivere con l’atroce sofferenza della perdita della sorella è costretto a mandar giù anche gli ostili atteggiamenti della donna. Tra l’altro, a proposito di Hedges, desta curiosità la sua recente sovraesposizione, oltretutto in film davvero di spessore, come il premiato Manchester by the sea o un altro che ci apprestiamo a vedere in questo 2018 ma che negli States ha già riscosso successo di critica e pubblico, ovvero Lady Bird. La maniera di stare in scena di Hedges, rigida e un po’ monoespressiva ci fa in effetti domandare come mai venga scritturato di continuo, seppur non sempre in ruoli chiave.

Al di là di tutto ciò, il dramma è anche quello della comunità stessa, che non può non empatizzare con la famiglia Hayes e con quello che ha subito. Ciò che invece non ci viene del tutto naturale è fare lo stesso in quanto spettatori. Il dramma creato da McDonagh è tangibile e crudo, eppure si perde nella dimensione caotica di un’opera che lancia tanti ami in tanti punti differenti, in quel grande mare che è la messa in scena. Non è necessariamente un male, anzi, non lo è affatto nella misura in cui il vero obiettivo del regista sembra proprio il caratterizzare il suo lavoro con quelle sfumature noir e lievemente grottesche, in un’accezione a tratti coeniana (già solo la presenza della McDormand lo fa sembrare un omaggio a Fargo) seppur più matura e solida: in sostanza diversa, quindi, seppur affine. Probabilmente qualcosa in più sul lato drama si poteva fare, ma c’è tanto di quel materiale che merita di essere analizzato, che quasi non ci si fa caso.

La sceneggiatura di McDonagh è un disegno quasi perfetto, che passa attraverso dei dialoghi sublimi, frizzanti, mai banali, persino più eclettici e stravaganti di quelli apprezzati nei suoi precedenti film, e grazie a questi delinea i suoi protagonisti e gli dona un carattere definito e molto particolare. Non lascia niente al caso il nostro McDonagh, e Tre Manifesti a Ebbing è un’opera in cui la minuzia di dettagli emerge con prepotenza col passare dei minuti, lasciandoci riflettere sul fatto che forse sì, l’HFPA si è fatta un po’ prendere la mano, ma tutto sommato nemmeno tanto.

tre manifesti a ebbing missouri recensione

Verdetto:

Il terzo film di Martin McDonagh è un’opera matura che viaggia spedita sul percorso intrapreso con coraggio già dai suoi precedenti lavori, e stavolta abbiamo a che fare con una pellicola in cui emergono ancor di più le sfumature coeniane del suo stile, ma smussate dall’impronta drammatica di un racconto crudo, che trae forza dallo script di McDonagh e dai suoi incredibili personaggi.

Tiziano Costantini
Nato e cresciuto a Roma, sono il Vice Direttore di Stay Nerd, di cui faccio parte quasi dalla sua fondazione. Sono giornalista pubblicista dal 2009 e mi sono laureato in Lettere moderne nel 2011, resistendo alla tentazione di fare come Brad Pitt e abbandonare tutto a pochi esami dalla fine, per andare a fare l'uomo-sandwich a Los Angeles. È anche il motivo per cui non ho avuto la sua stessa carriera. Ho iniziato a fare della passione per la scrittura una professione già dai tempi dell'Università, passando da riviste online, a lavorare per redazioni ministeriali, fino a qui: Stay Nerd. Da poco tempo mi occupo anche della comunicazione di un Dipartimento ASL. Oltre al cinema e a Scarlett Johansson, amo il calcio, l'Inghilterra, la musica britpop, Christopher Nolan, la malinconia dei film coreani (ma pure la malinconia e basta), i Castelli Romani, Francesco Totti, la pizza e soprattutto la carbonara. I miei film preferiti sono: C'era una volta in America, La dolce vita, Inception, Dunkirk, The Prestige, Time di Kim Ki-Duk, Fight Club, Papillon (quello vero), Arancia Meccanica, Coffee and cigarettes, e adesso smetto sennò non mi fermo più. Nel tempo libero sono il sosia ufficiale di Ryan Gosling, grazie ad una somiglianza che continuano inspiegabilmente a vedere tutti tranne mia madre e le mie ex ragazze. Per fortuna mia moglie sì, ma credo soltanto perché voglia assecondare la mia pazzia.