Uno spruzzo di sangue sopra una tela troppo candida

Jake Gyllenhaal nei panni di un celebre critico d’arte, Rene Russo che interpreta una glaciale gallerista, Dan Gilroy alla regia, ed un John Malchovich alle prese con il suo genio perduto. Gli elementi per un cocktail esplosivo sono stati mostrati attentamente agli occhi dello spettatore, ma sarà riuscita Netflix a comporre una sinfonia degna di tali presupposti?

 

 

Miami.
Tarda mattinata.
Un’esposizione di arte contemporanea viene attentamente setacciata dallo sguardo vigile del Caronte artistico Morf Vanderwalt.  È così che si mostra al pubblico, di primo impatto l’ultima produzione originale Netflix, provando a porre le basi per la visione di un horror/thriller dal sapore grottesco.

Il risultato, ahimè, è nebuloso, ma attenzione, non è tutto da buttare, spetterà a voi cogliere pian piano i giusti spunti di riflessione, andando ad analizzare le tonalità nascoste in una palette cromaticamente variegata ed intensa. I protagonisti di quest’opera – eccezion fatta per Gyllenhaal, il quale avrà una menzione a parte – finiscono per essere delle mere comparse, e i loro movimenti non disegnano paesaggi visionari e personaggi profondi, non compongono sinfonie, non scrivono sceneggiature gustose, ma continuano a vagare alla ricerca di un autore o, in questo caso, del boia.

Il racconto di Gilroy è un turbinio di azioni incentrate sulll’esaltazione della sofferenza e della crudeltà dell’arte, divenuta, in un contesto sociale distaccato totalmente dalla realtà terrena, mero mezzo di autocompiacimento e guadagno.
La libertà non esiste più. Eppure, quel poco che siamo riusciti a comprendere della vita, è che l’unica testimonianza del nostro passaggio su questa terra è solo ed esclusivamente definito dalla nostra arte, essenza ultima dell’agognata libertà dell’anima.

Le figure di Velvet Buzzsaw invece sono delle marionette in mano al Destino, il quale muove i fili per farle danzare, ma sono dei bardi senza voce, dei ballerini senza gambe, e l’unico risultato di questa continua ed incessante danse macabre è il massacro.

Velvet buzzsaw

La peccaminosa brama di potere e successo personale ha portato Rhodora (Rene Russo), Gretchen (Toni Colette)  e Josephina (Zawe Ashton) a mercanteggiare le opere maledette di un artista defunto. Un moderno Eliot Pickman di lovecraftiana fantasia, caratterizzato da una vita di sofferenze e nefandezze, trasmesse con il proprio sangue nelle oscure tele.
L’arte, nella pellicola di Gilroy (famoso per quel piccolo capolavoro rappresentato da Nightcrawler), non è portata all’apice della propria essenza come in Whiplash, dove lo struggersi dell’animo viene proiettato su strumenti e spartiti, dove i protagonisti, pur indossando una maschera, sono consci di quello che sono, e decidono di trasmettere il proprio ardore, la propria passione, la propria vita, oltre i limiti terreni, per donarli all’eternità. Le figure della pellicola di Netflix sono scosse, è vero, in perenne agitazione al proprio interno, quasi nate dall’inchiostro pirandelliano, desiderose di mostrarsi per quello che sono, ma impossibilitate da un ambiente estraniante e votato al cannibalismo.

In due ore di proiezione le sequenze che si susseguono appaiono come un gigantesco tentativo di emulazione cine-pittorica di Arnold Böcklin, ma senza riuscire mai a donarci la stessa inquietudine, la stessa tensione. Miami e Los Angeles formano una gigantesca Isola dei morti dove gli spettri turbinanti si destano dal torpore delle membra, terrorizzate al proprio interno dal giudizio finale della maledizione del defunto artista Vetril Dease, ma non si arriva mai al picco massimo.

Non dico che la rappresentazione pittorica debba essere mostrata attraverso un filtro romanticista caro ai fondatori dello Sturm Und Drang, perché l’arte non è solo questo, ma, viste le premesse, un citazionismo volto ad omaggiare il “massacro artistico” del Papa di Francis Bacon, attraverso vitree vittime appagate dal proprio Io, come ne La maschera della morte rossa di Poe, avrebbe senza alcun dubbio colto il centro.

L’arte pittorica, come quella letteraria d’altronde, nel mondo del cinema incorre spesso nel banale errore di essere semplificata e resa “scontata” tramite la riproposizione di costanti figure retoriche trite e ritrite. Il thriller di Gilroy, purtroppo, non è da meno. Il grottesco tanto caro ad Allan Poe, pilastro del macabro artistico, viene proposto fedelmente dai personaggi che si stagliano sullo schermo, ma finiscono per assumere dei contorni caricaturali, privi del pathos che li dovrebbe contraddistinguere.

 

Le dramatis personae di una simile rappresentazione dovrebbero vivere in una costante tensione introspettiva, invece l’unico capace di urlare dinnanzi alla società di spettri privi di spirito è Morf.
Ma qui non ci troviamo tra le vie di Oslo, e non c’è Edvard Munch ad impugnare il pennello, è Gyllenhaal a mettere la sua firma su di un soggetto veramente affascinante, l’unico in grado di comprendere che solo l’arte vera e pura è in grado di giustificare la sofferenza umana.

Un critico capace di vedere oltre. Un uomo in grado di squarciare la tela della maledizione che pian piano sta mietendo anime. Lo strappo, cruento, netto, alla “Fontana”, ci permette di vedere qualcosa di più. Morf è l’unico vedente in un mondo di ciechi, annebbiati dal proprio ego.
La sofferenza delle figure non sfocia nell’esaltazione artistica, ma nell’autocommiserazione celata dalla propria barbara violenza, ponendole come peccatori , più che vittime, giustamente giudicate non da un assassino, da uno spettro, o chi che sia, ma dall’Arte in persona.

La sofferenza ha portato per anni registi, attori, pittori e compositori a mostrarci opere che hanno scolpito la nostra società. Persone che hanno vinto la morte e superato le terrene avversità della vita tramite l’esaltazione del proprio spirito, per mezzo delle varie forme artistiche citate in più riprese. Più volte abbiamo avuto la dimostrazione che i corpi di questi uomini fossero nient’altro che vergini di Norimberga volti a dilaniare l’Io. L’unico modo di proiettarsi al di fuori è sempre stato solo ed esclusivamente tramite pennello e colori, come Van Gogh in Campo di grano con volo di corvi, Munch con Sera sul viale Karl Johan o Kirchner in Scena di strada berlinese.

L’ambizioso desiderio della produzione Netflix, però, ci riesce solamente in parte, quasi superficialmente.
In sostanza, Velvet Buzzsaw è una composizione teatrale caratterizzata da una scenografia cremisi e un’affascinante sceneggiatura di base, ma con un’ideale troppo alto per poter essere raggiunto, in cui solo il protagonista riesce degnamente a mostrarci la reale dicotomia arte-sofferenza. Il resto dello spettacolo, nonostante le numerose aspettative, è purtroppo destinato a non destare una pioggia di applausi una volta calato il sipario.

Leonardo Diofebo
Classe '95, nato a Roma dove si laurea in scienze della comunicazione. Cresciuto tra le pellicole di Tim Burton e Martin Scorsese, passa la vita recensendo serie TV e film, sia sul web che dietro un microfono. Dopo la magistrale in giornalismo proverà a evocare un Grande Antico per incontrare uno dei suoi idoli: H. P. Lovecraft.