Le vie del mainstream sono infinite e l’hype opera per vie misteriose, o di come Something in the way è diventata la canzone più ascoltata al mondo

elle ultime settimane è ritornata prepotentemente nelle classifiche di ascolti e di vendite una canzone dei Nirvana, il gruppo che più di ogni altro ha rappresentato l’epopea del grunge nella Seattle di fine anni ’80, inizio anni ’90.
Stiamo parlando di Something in the way, che probabilmente chi ha seguito le vicende della band capitanata da Kurt Cobain ricorderà bene, mentre per tutti gli altri, da qualche settimana è semplicemente la colonna sonora di una delle scene principali di The Batman.

E proprio alla spinta del film di Matt Reeves, ovviamente, si deve l’improvviso exploit del pezzo tratto da Nevermind, del 1991, che già nel 2020 dopo l’uscita del trailer del film, si piazzò al numero 2 della classifica Billboard delle vendite digitali Rock, al numero 5 di quella Alternative e in Top 20 sulle classifiche di Amazon Music e iTunes.

Con l’uscita del film, Something in the way è nuovamente tornata a bussare alle porte delle classifiche di tutto il mondo, raccogliendo risultati ancora più importanti, migliorando i numeri di prima (si è piazzata al secondo e quarto posto delle stesse classifiche di Billboard), facendo registrare un aumento del 1200% degli stream su Spotify e raggiungendo un numero spropositato di visualizzazioni su YouTube.

Insomma, Something in the Way è in questo momento una delle canzoni più ascoltate del pianeta. Ma in effetti la storia del cinema e della televisione è piena di casi più o meno simili, di brani ritornati al successo all’improvviso grazie alla loro presenza sullo schermo. Sembra strano dirlo, ma la spinta data da Fusi di Testa a Bohemian Rhapsody dei Queen è stato uno dei motivi principali del successo del brano storico di Freddie Mercury e soci. Brano che tornò poi nuovamente in classifica, ovviamente, con l’uscita dell’omonimo biopic.

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Pensate poi ai Pixies, mai effettivamente nel circuito mainstream, finché Fight Club non ha fatto conoscere a tutti Where is my mind?.
E ancora, qualcuno saprebbe ascoltare la versione di I Will Always Love You di Whitney Houston senza ricollegarla a The Bodyguard? O Should I stay or should I go? dei Clash senza pensare a Will Byers in Stranger Things?
Eppure sono sicuro che ci sia qualcosa che renda particolarmente significativo il ritorno al successo di Something in the way. Facciamo un passo indietro e vediamo il quadro generale che ha portato alla genesi della canzone.

Siamo nel 1990 quando Cobain inizia a scriverne una versione preliminare. Il bubbone del grunge ancora doveva scoppiare del tutto e quella che di lì a breve sarebbe diventata la scena rock più importante del pianeta era ancora in fase di formazione, dove pochissime band potevano vantare una certa popolarità. Dalle ceneri dei Green River erano nati i Mudhoney, mentre dalla tragica storia dei Mother Love Bone si sarebbero generati prima i Temple of the Dog e in seguito i Pearl Jam. Gli Screaming Trees di Mark Lanegan avevano fatto uscire un paio di dischi prodotti attraverso etichette indipendenti. Gli Alice in Chains si erano già formati, ma il loro primo disco sarebbe uscito solo in autunno. Solo i Soundgarden avevano già firmato per una major e avevano fatto uscire l’album Louder Than Love per l’etichetta A&M, ma non erano certo delle superstar.

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Anche i Nirvana erano già attivi e avevano dato alle stampe il loro primo album, Bleach, l’anno precedente, per la Sub Pop Records, etichetta di Seattle divenuta leggendaria proprio grazie al movimento grunge. L’esordio di Kurt Cobain, Krist Novoselic e Dale Crover (Dave Grohl all’epoca ancora non era entrato a far parte della band) era anche stato abbastanza apprezzato soprattutto a livello locale, ma non si può certo dire che la band avesse raccolto il successo sperato.

Fatta eccezione di una gemma pop come About a Girl, le sonorità e i testi dei Nirvana erano ancora piuttosto adolescenziali e grezzi. Per tentare di distaccarsene, Kurt inizia a scrivere un pezzo ispirato a un particolare periodo della sua vita: quando, neanche ventenne, fu cacciato di casa da sua madre e non aveva un posto dove andare. Something in the Way è quindi la storia di un ragazzo che si ritrova all’improvviso abbandonato e rassegnato, ed è costretto a passare le notti sotto lo Young Street Bridge, nei pressi del fiume Whiskah, ad Aberdeen, Washington (fiume che sarà poi omaggiato anche nella raccolta live postuma From the muddy banks of the Whiskah).

L’immagine così malinconica di Cobain sotto un ponte che vive di stenti e acqua piovana (“And I’m living off of grass and the drippings from the ceiling”), con l’unica compagnia di insetti e animali locali (“The animals I’ve trapped have all become my pets”) è potentissima, e con le tonalità cupe di The Batman calza a pennello.

Peccato che non sia vera. O meglio, per un periodo di tempo Cobain ha davvero vissuto senza una fissa dimora. Ha dormito in macchina, a casa di amici, trascorso notti nelle sale d’attesa di alcuni ospedali, ma sotto quel ponte, con l’acqua alta e il freddo e la pioggia perenne di Seattle, non c’erano proprio le condizioni per sopravvivere, come raccontato anche dallo stesso Krist Novoselic, bassista dei Nirvana e migliore amico di Kurt.

Non si tratta del testo della canzone, o del modo in cui è nata, dunque, né tantomeno il fatto che Something in the Way si trovi in una specie di limbo. C’è chi lo considera un pezzo “di nicchia”, perché non divenne mai un singolo e nonostante Kurt Cobain vi fosse molto legato, non amava particolarmente suonarlo. Non era una canzone facile da mettere in scaletta in un live, ad esempio, perché si trattava di un pezzo lento, emotivo, che mal si sposava al resto della tracklist che solitamente i Nirvana portavano in giro ai concerti per il loro tipo di pubblico, generalmente composto da pazzoidi che pogavano e spesso salivano sul palco per poi gettarsi sulla folla urlante.

Allo stesso tempo però, definire “di nicchia” qualcosa prodotto da quella che negli anni ’90 è stata la rock band più famosa del mondo, ed è presente in due album come Nevermind e l’MTV Unplugged, che hanno venduto milioni di copie in tutto il mondo, forse è un pelino ingenuo.

Non c’era neanche la solita alchimia che caratterizzava un po’ tutta la produzione dei Nirvana. Dave Grohl, che nel frattempo divenne il nuovo e definitivo batterista del gruppo, si era inserito a meraviglia nella routine della band, che col suo ingresso funzionava con un meccanismo quasi perfetto. Proprio Something in the Way, tuttavia, fu uno di quei casi in cui il meccanismo si inceppò.

Lo spiega Butch Vig, un’altra delle immense personalità dell’epopea grunge, che forse qualcuno ricorderà come batterista dei Garbage. Vig è però anche e soprattutto un geniale produttore, che ha firmato dischi come Nevermind, appunto, ma anche Dirty dei Sonic Youth, e Gish e Siamese Dream degli Smashing Pumpkins.

Registrare Something in the way fu, a suo dire, la cosa più difficile dell’intera produzione di Nevermind. Il pezzo semplicemente non funzionava. Krist Novoselic aveva difficoltà ad adattare la sua linea di basso al ritmo compassato della canzone e Dave Grohl, che una volta è stato descritto da Chris Mundy, giornalista del Rolling Stone, come uno che “picchia sulla batteria come se gli dovesse dei soldi”, aveva uno stile che semplicemente non riusciva ad adattarsi a quel cantato quasi sussurrato di Cobain.

Insomma, siamo di fronte a una canzone che era strana e difficile da digerire già trent’anni fa. Il fatto che sia tornata al successo nel 2022, in un’epoca in cui non potrebbe essere più distante da ciò che è considerato mainstream, grazie a qualcosa che invece nel mainstream ci sguazza, come i cinecomic, può davvero essere spiegato solo come l’ennesimo paradosso dell’industria dell’intrattenimento? La struttura alare del calabrone che eccetera eccetera?

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No, il mio lato romantico non si rassegna e vuole vederla in un altro modo. Il grunge è stato il movimento musicale che più mi ha formato e influenzato, e trovo affascinante pensare che se il mio percorso a un certo punto della mia vita non si fosse incrociato in qualche modo con quello di una certa band di Seattle degli anni ’90, oggi non sarei la persona che sono. E se ci pensate, è qualcosa che ha influenzato, seppur in minima parte, anche la vostra vita, perché se non fosse stato così, ora non stareste leggendo questo articolo.

Di quella rivoluzione oggi rimane solo la brace tiepida sotto quello che per breve tempo è stato un fuoco ardente, caldo, devastante, bellissimo. Ma ho sempre pensato che ci sarebbe sempre stato qualche ragazzino o ragazzina che a un certo punto della sua vita sarebbe rimasto folgorato dall’ascolto casuale di Smells like teen spirit e avrebbe voluto saperne di più.

Questa cosa adesso può succedere anche grazie a un cinecomic, e in fondo va bene così. Lasciatemi illudere che non ci sia sotto lo zampino della macchina dell’hype. Voglio pensare che sia solo lo splendido ultimo volo del più famoso angelo caduto del grunge.

D’altronde it’s fun to lose and to pretend, vero, Kurt?

Gabriele Atero Di Biase
Diplomato al liceo classico e all'istituto alberghiero, giusto per non farsi mancare niente, Gabriele gioca ai videogiochi da quando Pac-Man era ancora single, e inizia a scriverne poco dopo. Si muove perfettamente a suo agio, nonostante l'imponente mole, anche in campi come serie TV, cinema, libri e musica, e collabora con importanti siti del settore. Mangia schifezze che lo fanno ingrassare, odia il caldo, ama girare per centri commerciali, secondo alcuni è in realtà il mostro di Stranger Things. Lui non conferma né smentisce. Ha un'inspiegabile simpatia per la Sampdoria.