Il nuovo gioco diretto da Colantonio mostra gli stessi limiti e i medesimi pregi dei precedenti lavori del designer francese.

uand’ero più giovane, credevo che l’immersive sim fosse l’unico “genere videoludico” capace di elevare il medium a forma espressiva matura, complessa, con una sua identità, una sua autonomia. Mi rendevo conto che mentre gli altri giochi cercavano goffamente di imitare il cinema o la letteratura, l’immersive sim abbracciava con ardore la natura interattiva del videogioco, offrendoci sistemi e strutture con le quali sperimentare, attraverso cui esprimere noi stessi, o magari con le quali creare dei personaggi ideati ad hoc per quel particolare universo narrativo.

Non solo: pensavo che l’immersive sim permettesse di superare la folle idea (tristemente divenuta un faro per molti) di riprodurre con delle IA le stesse dinamiche che caratterizzano il gioco di ruolo cartaceo o da tavolo, che offre un dinamismo narrativo e situazionale limitato (quasi) solo dalla fervida immaginazione dei giocanti, mentre il videogioco è costretto dal freddo codice, per fortuna (?). La pubblicazione di Weird West, il primo gioco di WolfEye Studios, diretto da Raphael Colantonio (oramai storico designer associato al genere), mi ha aiutato a inquadrare meglio questi vecchi pensieri, per aggiornarli.

Teoricamente, Weird West è un immersive sim: è stato comunicato così in fase pubblicitaria, e in effetti presenta molte delle caratteristiche tipiche del genere. In breve, ci mette nei panni di una serie di personaggi tipici del West e del Weird (cowboy, licantropi, nativi americani e stereotipi vari), e ci offre un certo numero di strumenti per creare la nostra personale storia di redenzione, frontiera, vendetta e bourbon.

Questi strumenti possono essere “puramente” ludici, come il poter posizionare esplosivi su un percorso di vedetta ed eliminare numerosi nemici in un colpo solo, oppure più marcatamente “narrativi”, come il dover scegliere se allearsi con il latifondista di turno o meno. Grazie a questi strumenti, da quel che ho potuto testare in due partite complete, si possono creare storie con una certa varietà, anche perché il numero di personaggi che dovremo guidare ci permette già in quanto tale di sperimentare con profili psicologici e background sociali molto diversi.

Non entro più a fondo nel merito della superfice di Weird West (cosa si fa, con quali abilità, durata, ecc.), per due motivi: il primo è che si trova sul Game Pass, quindi vi basta far la prova gratuita (o scaricarlo se già siete iscritti al servizio) e capire in pochi minuti la natura del prodotto; il secondo è che presenta una mole tale di contenuti, perk, abilità, statistiche e simili, che impiegherei pagine e pagine nel descriverle, e che potete invece agilmente evitarvi guardando questo link. Mi è invece utile parlarvi di una specifica meccanica, una di quelle che si “incontrano” per prime, per poter spiegare cosa mi ha detto Weird West sull’immersive sim (e sul videogioco in generale).

Dovete sapere che in Weird West potete seppellire chiunque, a patto di avere una pala, e di trovarvi sulla nuda terra, al netto di specifici boss e situazioni particolari. Appena scoperta questa meccanica, ho ovviamente deciso di seppellire ogni singolo cadavere che avrei lasciato sul mio percorso, perché volevo scrivere questo personaggio tanto morbosamente rispettoso dei morti, quanto strafottente dei vivi.

All’inizio di Weird West, non potevo però sapere che al passaggio obbligatorio a un altro personaggio avrei ripercorso le stesse strade del mio avatar precedente, e che avrei notato tutti i segni delle mie “gesta”. Tra queste, ovviamente, c’erano anche gli immensi cimiteri di cadaveri ben seppelliti che lasciavo alle porte delle varie cittadine che si diffondono a singhiozzo sulla mappa di gioco. Solo un immersive sim può, con una banalissima meccanica priva di particolare inventiva, offrirci uno strumento così sfaccettato per intervenire su racconto, level design e persino bilanciamento del gioco. Sì, perché uccidere un intero villaggio potrebbe renderlo “maledetto” quando ci ritorneremo con un altro personaggio, facendo diventare molto più ostica l’esplorazione e il miglioramento del nostro nuovo avatar.

Andiamo avanti veloce e arriviamo invece al finale di Weird West, anch’esso necessario per capire bene l’immersive sim. L’evento conclusivo del racconto, che cerca di rendere conto di tutte le scelte e delle loro conseguenze, richiama in modo forse troppo evidente quanto già accade con Prey, ultimo titolo Arkane Studios diretto da Colantonio, e che era stato provato in parte anche in Dishonored, sempre per citare un altro titolo che ha coinvolto il designer francese. Ora, non posso entrare nello specifico, ma basta semplicemente dire che alla fine di Weird West vi ritroverete col classico “spiegone” videoludico che intende fare la morale su cosa hai fatto, come, perché, e via dicendo.

Come spesso accade, se si ricorre eccessivamente a una “tecnica” per dire qualcosa di specifico, si finisce per rendere questo qualcosa mera superfice, ribaltando le funzioni di questo strumento (coff coff Miyazaki): è la tecnica a giustificare tutto il resto, e non il contrario. Weird West, dopo così tanti tentativi di dire la stessa cosa usando la stessa tecnica, ricade purtroppo in questa categoria: è un gioco che cerca di giustificare il suo essere violento e, spesso, assurdo, con una trovata narrativa che sa di riciclo, come di una pezza narrativa per tappare il buco della logica.

Weird West mi ha fatto capire che se la peculiarità dell’immersive sim è offrire strumenti per esprimersi e sperimentare, lo fa comunque all’interno di un contesto che guida e orienta con l’autorità, magari quella di chi poi vuole moraleggiare sulle tue azioni. E sia chiaro, il tutto non avviene in un gioco quasi privo di quegli orpelli che scatenano approcci esclusivamente ludici (Shadow of the Colossus), e che quindi si potrebbe ipotizzare “benevolo” nei confronti di certe letture, ma dove vieni ricompensato con armi con gradazioni di colori e potenza diversi, o addirittura con i voti, come a scuola (Dishonored, per esempio).

Ok, è più di un decennio che ci dite che “ah ah il cattivo in realtà sei tu!“, possiamo andare avanti? Purtroppo, il panorama videoludico è ancora talmente pieno di giochi pretenziosi sui grandi temi della vita che l’autocritica ha effettivamente ancora un valore, ed è positivo che certi titoli, al di là del genere, cerchino di parlare di sé, sia come industria che scuole di design e di pensiero.

Di fronte a casi come Weird West, prodotti da nomi di un certo rilievo e con publisher potenti alle spalle, non è però legittimo aspettarsi finalmente una proposta nuova, un’alternativa, un pensiero che vada oltre all’autocritica? È un po’ come col settore della “critica” (aggiungete altre virgolette) videoludica: i primi anni di “carriera” (abbondate anche qui) ti senti coinvolto dagli infiniti discorsi su prezzi degli articoli, clickbait e via dicendo, ma dopo qualche anno ti sembra evidente che l’autocritica è più un consolatorio autoflagellarsi che un effettivo desiderio di cambiamento. Con questo tipo di videogiochi (non intendo gli immersive sim, ma i colpevolizzatori autoritari) avverto oramai la stessa sensazione: davvero vogliono fare autocritica, o sono solo giustificazioni? Chissà.

Weird West è un mediocre immersive sim (come dicevo, è piagato da dinamiche mutuate da un certo tipo di rpg, come le armi con i colori per indicare le più forti, ecc.), è un bel gioco sul weird e sul west, e un interessante primo esperimento di Colantonio fuori dalla “grande industria”. Purtroppo, è soprattutto l’ennesimo videogioco che critica le sue tradizioni e i suoi limiti mentre le usa come struttura stessa del suo design, addossando “la colpa” del tutto su chi gioca, anche se quest’ultimo è privo degli strumenti per liberarsi da questa gabbia. Mi ricorda qualcosa…