Io credo che, ad un certo punto degli anni novanta, la realtà si sia qualche modo scissa in due (o forse anche tre o quattro… chi lo sa). Da un lato del velo sono rimasti quelli che conservano uno spirito vecchio stampo, attaccati ad un certo modo di fare e vedere le cose, dall’altro sono insorti i progressisti, quelli che volevano una certa diversità, un modo “innovativo” di vedere il mondo. Questa teoria delle stringhe, riassunta così in breve che forse Hawking ci farebbe causa (bella Stephen!) è adducibile a diverse branche della vita, e sarà che gli anni ’90 e il loro spirito belloccio sono stati effettivamente innovatori, o metti la realtà si è divisa davvero in due, fatto sta che anche i videogame sono stati soggetti a questa dinamica in cui, come in tante altre cose, hanno vinto gli innovatori, quelli che volevano “le cose nuove”, ma che oggi sono finiti a proporci sempre la stessa brodaglia… che ha il colore e il sapore del piscio. Succede però che, ogni tanto, come se lo spaziotempo crashasse, quello che resterebbe confinato nel passato si fa spazio nel presente, sembrando addirittura più progressista del futuro (o presupposto tale). Perdonateci se vi siete persi, ma magari rileggetevi tutto e provate a seguirmi perchè Wolfestein: The New Order è esattamente questo: è un prodotto del passato che però prende a calci in culo tanti prodotti dello stesse genere presenti sui nostri scaffali, dando loro una sonora lezione su quella che dovrebbe essere la modalità di produrre, in vista di un futuro migliore. Nessuno ci avrebbe scommesso… e invece…

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4 secondi, inspira…

Wolfenstein_New_Order_12Il tempo, il modo in cui passa e cambia, e il desiderio di un futuro migliore è poi, guarda caso, anche il fulcro della narrativa di The New Order che, come da titolo, da allo storico brand un nuovo ordine e una nuova impronta, talmente ben fatta che vi sfido a non desiderarne un sequel una volta raggiunti i titoli di coda. Con un colpo di straccio magistrale, Machinegame (team svedese sorto dalle ceneri di Star Brezze, aka i ragazzi del bellissimo The Chronicle of Riddick: EfBB) riscrive la storia (dell’umanità e del brand tutto) mettendoci di nuovo nei panni del granitico sorgente William J. Blazkowicz, intendo un raid nel ’44 che potrebbe mettere fine alla guerra, con un doloroso stop alla macchina bellica nazista, incarnata dal perfido Deadshead, gerarca nazista ma anche genio della biomeccanica e della robotica. Le cose, tuttavia, si metteranno ben presto male e nel tentativo di una fuga rocambolesca, “Blazko” si beccherà una scheggia di ferro in testa che lo costringerà in uno stato vegetativo per ben 16 anni. Nel frattempo la Germania ha vinto la guerra e negli anni ’60, il Reich è ormai una consolidata realtà sparsasi per tutto il pianeta, e persino sulla Luna! Risvegliatosi in un ospedale psichiatrico polacco, e non del tutto sicuro di avere a che fare con la realtà, Blazkowicz non potrà far altro che constare di essere in un mondo “dal lato sbagliato”, soprattutto per chi, come lui, è ancora desideroso della rivalsa alleata. Scappato non senza difficoltà dall’ospedale, il sergente si metterà quindi sule tracce della resistenza (o dei suoi rimasugli) nella speranza di trovare qualche alleato che, serpeggiando nei borghi nazisti, gli dia una mano a sovvertire le leggi del mondo. C’è in Wolfenstein l’assetto tipico del racconto ucronico, le cui reminiscenze attingono a una letteratura di genere che, partendo da Philip K. Dick e la sua Svastica sul Sole, è fiorito negli anni attraverso più e più racconti, tutti incentrati sul tipico esempio del “what if” nazista. Wolfenstein: The New Order non è ovviamente il primo esempio vidoeludico di questo genere, ma è certamente quello più recente e meglio riuscito. Machine Games ha in tal senso dato al suo titolo d’esordio un’identità che non fosse solo estetica, ma anche narrativa, tant’è che a differenza di titoli del genere, TNO racconta la sua storia magistralmente, facendosi da subito portatore di una certa identità, tale che i personaggi non sono mai in balia dello stereotipo, ma piuttosto si scoprono, si tratteggiano, acquistano spessore, giocando di continuo con situazioni da un lato volutamente assodate (un esempio: il macho americano “nato pronto”) e dall’altro intrecci psicologici invece più complessi, delicati, figli dell’inesorabile fragilità dei superstiti della guerra, ora più che mai in lotta per il loro posto nel mondo. Da questo punto di vista Wolfenstein non solo non è mai banale, ma ha addirittura molto da insegnare a titoli che pretenderebbero di essere anche più blasonati, avvalendosi magari di qualche volto celebre per raccontare una storia forte. Non è questo il caso. È la storia imbastita dal team, la conseguenza delle azioni dei suoi personaggi e soprattutto il mondo di gioco, una versione fortemente dieselpunk del mondo che conosciamo, a dare potenza alle immagini, tanto che ci si troverà a non volersi mai scollare dallo schermo. C’è qui un modo di fare che sembra rievocare la narrativa tipica di personaggi come Ken Levine, che allo stesso modo, con Bioshock, hanno saputo raccontare la storia dei personaggi, ma anche e soprattutto del mondo di gioco, per mezzo di interazioni con l’ambiente che poco hanno a che vedere con lo sparare o l’uccidere. Wolfenstein segue la stessa scia: un disco con una canzone pop (ma rigorosamente ariana!), un ritaglio di giornale, piuttosto che un poster o una diapositiva, raccontano al giocatore la piega che ha preso il mondo, contribuendo a creare in noi, tanto che nello sfortunato Blazkowicz, quel senso di disagio che si può avere nel sentirsi, contemporaneamente, fuori e dentro il mondo. Un lavoro magistrale, che da solo vale il prezzo del biglietto anche se…

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4 Secondi espira

…anche se non c’è solo questo! Dal passato, The New Order attinge anche al mero impianto ludico, consegnandoci un FPS come si soleva fare una volta (pensate ai vecchi Medal of Honor, o al più recente Rage), con un ritmo martellante, ma studiato, in cui la progressione spesso non vuol dire pianificazione, ma avventatezza e efferatezza, seppur mai a testa bassa. Sembra un discorso che si contraddice da sé, ma che è direttamente figlio dell’esperienza che avrete con Wolfenstein. Riflessi, ma anche aggressività. Il ritmo di gioco è studiato magistralmente, per non annoiare mai, e anche nelle fasi più lente e silenziose, in cui magari tocca ripulire con dinamiche stealth una stanza da sodati che altrimenti chiamerebbero l’allarme, il titolo si lascia giocare con piacevolezza sebbene, in cuor vostro, starete fortissimamente scalciando per tirare giù tutto a suon di fucilate. L’impianto ludico è strutturato, solido, come non se ne vedevano da anni, e unito a una caratterizzazione e uno studio degli ambienti molto ben riuscito mette nelle mani del giocatore un divertimento robusto e appagante, in cui si riscopre (non senza bestemmie) la formula del trial & error ormai surclassata dal semplificazionismo tanto in voga con gli anni 2000. L’avanzamento è qui un lavoro di ritmo, in cui narrazione e azione si cedono il passo danzando, amalgamandosi magistralmente e senza mai mostrare il fianco alla fiacchezza.

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Mond, Mond, Ja, Ja

Tecnicamente parlando, Machine Games porta su console una versione rivista dell’id Tech 5, inchiodandolo a 60 frame anche in situazioni di panico assoluto. Il lavoro si ottimizzazione, tuttavia, non è perfetto, e sebbene la versione da noi provata (PS4) godesse di un colpo d’occhio davvero superbo, il prodotto è lontano dalla classificazione “next gen”, risultando in certi momenti non rifinitissimo. Parliamo comunque di dettagli minori, che non solo non intaccano la bellezza della direzione artistica (come detto, davvero di prim’ordine) ma neanche il gameplay. Salvo qualche texture un po’ slavata, e un rarissimo effetto pop up, il titolo viaggia sicuro e solido dall’inizio alla fine, configurandosi come un prodotto di grande qualità. Certo, siamo lontani dalle prodezze tecniche di titoli come Killzone, tuttavia, considerando la stabilità del framerate ma soprattutto la qualità del prodotto finale (e la sua complessità), riteniamo che davvero non ci si possa lamentare. Ciliegina sulla torta il doppiaggio, la cui qualità magistrale (salvo qualche incertezza nel lab sync) conferisce al tutto un’immersività eccezionale. Unico neo è il livello delle voci rispetto a quello della musica che, data l’impossibilità di regolazione delle singole tracce (la musica la si può solo disattivare) rende la situazione a volte caotica, ma attivate i sottotitoli e ben presto passerà la paura.