cartastraccia è il magazine mensile “usa & getta” di Stay Nerd dedicato al fumetto underground, alternativo e alle autoproduzioni.

il quINTO APPUNTAMENTO è UN EDITORIALE DEDICATO ALLA NOMENCLATURA USUATA NORMALMENTE PER I FUMETTI, CHE EFFETTI HA E QUALI SIGNIFICATI SI PORTA DIETRO.

CONDIVISIONE E MUTAZIONE

Sono passati ormai cinque mesi da quando cartastraccia è diventato realtà. Quattro appuntamenti, a cui si aggiunge quello che state leggendo nel quale ho iniziato a imbastire un discorso il più possibile libero e personale sulla cultura underground e sulle sue implicazioni nel mondo del fumetto. Come tutte le cose che hanno a che fare con la libertà e l’espressione, però, inizio a sentire di aver bisogno in modo sensibile di input esterni. Guardare solo attorno a me senza che non ci siano altre persone a condividere questo atto trovo sia piuttosto limitante, specialmente dato l’argomento che ho deciso di trattare in questa sede.

Per questo motivo voglio che cartastraccia sia un luogo dove chi ha un’idea, una lettura particolarmente interessante da proporre (non solo a me, ma a chiunque passi da queste pagine) o fare due chiacchiere sul proprio lavoro di contattarmi come preferisce. E no, non si tratta di un tentativo poco limpido di delegare il momento in cui penso a su cosa scrivere e perché. Al contrario è una necessità dovuta alla natura stessa della cultura alternativa in generale: che è mutevole e cangiante di continuo. Questo spazio non è di mia proprietà, ma anzi è pensato per accogliere ed evolversi in base a ciò che riceve dall’esterno.

Lasciata da parte la questione relativa alla necessità di questa rubrica di aprirsi il più possibile all’esterno e comunicare con esso, entriamo nel vivo dei contenuti veri e propri di questo quinto appuntamento. Quando ho cominciato a lavorare su cartastraccia mi sono fatto talmente prendere dall’idea di raccontare una realtà, un mondo molto specifico quale è quello dell’autoproduzione e del fumetto underground, e della dimensione più strettamente legata ai luoghi di nascita che ho lasciato quasi totalmente da parte la materia, il supporto fisico in sé: il fumetto. Non mi pento di aver fatto questa scelta, però è anche giusto fare un piccolo passo indietro e valutare la cosa in senso stretto e le relative implicazioni socio-culturali che ha prima ancora di finire in contesti specifici.

Nello specifico, questo quinto appuntamento vuole individuare e indagare alcune convenzioni e convinzioni terminologiche e linguistiche legate al fumetto – di cui alcune estendibili ad altre forme di intrattenimento – in cui mi sono imbattuto nel tempo e quali ripercussioni hanno sulla percezione del medium. Un percorso che, spero, possa servire a consolidare dei concetti e stimolare ragionamenti sulla nona arte.

LE COSE CON IL LORO NOME

Da quando esistiamo come specie siamo sempre alla ricerca di legittimità, approvazione e conferma che quel che facciamo, ci piace e seguiamo abbia senso e sia meritevole. Che ci sia costantemente bisogno di far capire e percepire che ciò su cui stiamo investendo energie, denaro e tempo abbia una sua dignità. E questa è una cosa sacrosanta e sensatissima: nei numeri precedenti di cartastraccia, per esempio, abbiamo visto insieme quanto sia fondamentale e fondante la rivendicazione degli spazi e delle idee. Farci in prima linea bandiera di quel che ci piace – perché è indirettamente ciò che siamo – è un processo fondamentale per l’affermazione dell’essere.

La rivendicazione e la giusta affermazione di sé, però, spesso e volentieri – almeno per quanto riguarda i prodotti e i progetti che hanno a che fare con la cultura – viene confusa con la ricerca costante e coatta di una giustificazione. Come se ci fosse bisogno costante di far capire che la decisione di investire la propria vita in qualcosa abbia senso perché quel singolo concetto o prodotto ha velleità alte, è artisticamente rilevante e assolutamente distante dalla credenza comune e popolare per cui l’attività a esso collegata sia degna di rispetto altrui non per la cosa in sé ma per un presunto valore che si discosta dalla media.

Si crea dunque la situazione per cui bisogna trovare parole e linguaggi, meccanismi e dispositivi, che rendano palese e chiaro che “non si sta perdendo tempo” ma anzi si sta partecipando a un momento di rilievo culturale e che si discosta dall’ordinario. Non fraintendetemi: io stesso agisco in questo modo e credo sia normale farlo. Quel che voglio intendere con questo articolo, però, è che forse stiamo mancando il punto e che il processo di giustificazione crea più danni che altro.

Affermarsi e rendere ben chiaro perché ci piace qualcosa non deve e non può dipendere dalla giustificazione del perché investiamo tempo dietro a quella specifica cosa. Perché indirettamente il rischio che si pone è quello di creare delle barriere di senso, dove solo un tipo specifico di cose può inserirsi e venire considerato.

Questa cosa – ossia quel processo di giustificazione e di specificazione – ovviamente accade anche nel fumetto e anche e soprattutto nel contesto relativo al fumetto autoriale, alternativo e underground. Se da un lato è assolutamente sensato che si prendano le distanze dall’ordinario e dal seminato, dall’altro si rischia di creare dei discrimini poco utili e che creano distanze non necessarie con il contenitore – il mezzo, in questo caso il fumetto -, la sua storia e il suo linguaggio.

Un esempio su tutti è riscontrabile nel termine graphic novel, ancora oggi molto ambiguo e legato a interpretazioni fumose e poco chiare. Dalla sua introduzione da parte di Will Eisner che voleva porre una linea contenutistica (e non qualitativa, come invece viene intesa oggi) rispetto alle comic strips presenti sui quotidiani, questo termine ha assunto caratteri giustificatori. Come se leggere graphic novel indirettamente non significhi leggere fumetti ma qualcos’altro, molto più colto e rilevante delle infantili storielle dei giornalini. Maus, il capolavoro di Art Spiegelmann, non è più rilevante di altri fumetti per il suo formato o il suo tono, piuttosto per come usa e intreccia le caratteristiche del fumetto ed è su queste che dev’essere valutato.

Sì, certo, le velleità esistono e ci sono senza dubbio – nello stesso medium – luoghi in cui è più probabile trovarne rispetto ad altri. Sembra però che tutto ciò che ha a che fare con la cultura geek abbia bisogno di affermazione ulteriore, di essere affiancato ad altri dispositivi culturali per fare capire che c’è rilevanza in essi. Considerare un prodotto rilevante è totalmente differente dal pensare che sia di livello se, anziché al suo linguaggio, si avvicina per rilevanza ad altri. Dire che “questo fumetto è letteratura” è un ragionamento svilente tanto per il prodotto in sé, quanto per il fumetto come linguaggio universale.

L’unicità di un medium è ciò che lo rende credibile e degno di nota. Non la vicinanza ad altre cose più affermate e nemmeno il distanziarsi da altri prodotti simili attraverso etichette, nomi o considerazioni che non sono altro che l’ennesima etichetta di mercato che divide pubblici. Non c’è un tipo di fumetto in assoluto più rilevante, c’è soltanto il come le unicità del fumetto vengono plasmate, assemblate e perché no distorte.

Luca Parri
Nato a Torino, nel 1991, Luca studia scienze della comunicazione come conseguenza della sua ossessione nei confronti delle possibilità che offrono i mezzi di comunicazione e ha lavorato come grafico e consulente marketing (lavoro che ha fatto crescere esponenzialmente la sua ossessivo-compulsività per le cose simmetriche e precise). Lo studio gli ha permesso di concretizzare la sua passione per i differenti linguaggi dei media, sperimentando con mano l'analisi linguistica e semiotica; il lavoro gli ha dato la possibilità di provare a inserire la teoria nel pratico. Studio e lavoro, insieme, lo hanno portato a scrivere di, tra gli altri argomenti, grafica pubblicitaria, marketing, comunicazione e comunicazione visiva collegata al videogioco.