Deathloop convince ma non brilla come le opere precedenti di Arkane

Ho trascorso le prime ore passate su Deathloop nello smarrimento più totale. Non è una mia incapacità (forse), bensì la prima conferma di essere davanti ad un titolo marchiato Arkane Lyon. Che si parli della saga di Dishonored, che ha catapultato lo studio sotto i riflettori mainstream, oppure di quella gemma rara e tuttora sottovalutata che è il reboot di Prey, la prima scelta di gameplay messa in campo che caratterizza tutte le loro avventure è quella di rendere il giocatore inconsapevole di ogni cosa, buttandolo nella mischia senza preparazione alcuna.

In Deathloop questa scelta aiuta moltissimo a metterci nei panni di Colt, una persona che si sveglia improvvisamente sulla spiaggia e non ha la minima idea di dove si trovi e perché. A dirla tutta, non si ricorda nemmeno come si chiama, se non fosse per qualche suo appunto sparso ed una persona con cui è in contatto radio, tale Julianna, che sembra conoscerlo molto bene.
Col passare delle ore, Colt riprende coscienza di sé e realizza cosa gli succede attorno: è intrappolato su Blackreef, un atollo disperso nel mare dove un’anomalia temporale (chiamata banalmente L’Anomalia nel gioco) fa ripetere la stessa giornata ciclicamente. Non importa cosa accada, non importa come si muoia, ma ogni giorno Colt (e tutti gli abitanti dell’isola) si sveglierà sempre su quella stessa spiaggia, con lo stesso hangover temporale e con lo stesso obiettivo: rompere il loop e scappare da questa eternità artificiale.

La sensazione di essere preso in giro è lampante e voluta ma è doveroso riconoscere che Deathloop è più lineare rispetto alle produzioni passate di Arkane Lyon e anche più comprensibile: ci vorrà relativamente poco a comprendere il ruolo dei Visionari, personaggi di spicco dell’isola, del loro lavoro e di quanto siano importanti per la tenuta del Loop. Inoltre, il nostro girovagare per i quattro aree che compongono il mondo di gioco ci farà capire come sia possibile interferire con gli eventi, manipolando ogni situazione a nostro vantaggio e comporre, come se fosse un puzzle, il piano perfetto per uccidere tutti i Visionari in un singolo Loop e rompere il ciclo infinito per sempre. L’esperienza di Deathloop, seppur con le dovute similitudini e autocitazioni, è inedita rispetto a tutto ciò che Arkane Lyon ha prodotto finora: pad alla mano, siamo di fronte ad un titolo che privilegia in maggior misura i conflitti a fuoco rispetto allo stealth, comunque presente ed efficace.

Probabilmente ciò è dovuto anche al coinvolgimento di Machinegames allo sviluppo: gli autori del nuovo reboot di Wolfenstein si fanno notare nel codice di gioco, non solo con un gran numero di easter eggs ma, in particolar modo, grazie ad un gameplay votato all’azione, con tanti conflitti a fuoco concitati e un gunplay che, per ritmo e velocità d’esecuzione, risulta parzialmente faticoso con il pad e che potrebbe essere “la morte sua” su PC, o eventualmente con tastiera e mouse. Questo però vorrebbe dire anche rinunciare all’eccellente feedback sensoriale del Dual Sense che, ancora una volta, traduce ogni movimento di gioco in vibrazioni aptiche e garantisce piena immersività nello shooting con grilletti a varie resistenze e il suono dei bossoli a terra dall’altoparlante centrale. L’arsenale di gioco è limitato poco più di una decina di armi, tuttavia l’introduzione di meccaniche da looter shooter permettono di acquisire armi tanto rare quanto dotate di abilità aggiuntive, più una pletora di perks applicabili che espandono le caratteristiche della nostra bocca da fuoco.

Allo stesso modo, queste così dette “piastrine” possono essere usate anche per potenziare le caratteristiche di Colt, fino all’ottenimento delle Tavolette, artefatti misteriosi che ci garantiscono poteri come la Traslazione tanto amata dai fan di Dishonored, uno status berserk che ci rende inarrestabili ed un’interessante Vincolo che permette di agganciare più obiettivi e farli soffrire tutti insieme appassionatamente. È doveroso precisare che, essendo in un loop temporale che si resetta ogni giorno, non sarà sempre possibile mantenere il proprio equipaggiamento. Tuttavia ci sarà un momento in cui, sfruttando una certa tecnologia, Colt sarà in grado di assorbire Residuo, una sorta di potere creato dalle interferenze dell’Anomalia sul mondo che ci permetterà di acquisire in modo permanente tutto ciò che troveremo sull’isola, aprendo la possibilità di creare delle dotazioni ad hoc per ogni obiettivo.

Deathloop

C’è anche un altro valido motivo per esplorare Blackreef oltre al nostro desiderio di vendetta (?), ovvero l’esplorazione fine a se stessa: l’isola è infatti un mix molto interessante in termini di design, una commistione di stili dai primi del ‘900 fino alla fine degli anni ‘60, con strutture militari ma anche luoghi fortemente influenzati dalla cultura Beat, il tutto esasperato da tanta, tanta baldoria di contorno. La stragrande maggioranza degli abitanti dell’isola, chiamati Eternalisti, sono infatti persone che hanno deciso di arrivare su Blackreef per poter fare una vita sregolata e senza conseguenze, almeno finché Colt non ha deciso di minacciare la stabilità di questa piccola realtà fuori dal tempo.

Mascherati, vestiti con colori sgargianti, se non addirittura pitturati e glitterati, cercheranno di metterci i bastoni tra le ruote con risultati inaspettatamente vari ma non sempre positivi: l’intelligenza artificiale del gioco è infatti una delle più deboli di sempre nella storia di Arkane, seppur contestualizzata nel mood del mondo di gioco. Nella trentina di ore che mi sono servite per completare il gioco e togliermi lo sfizio di fare qualche trofeo, ho realizzato abbastanza rapidamente che la minaccia nemica fosse gestibile in scioltezza, anche utilizzando approcci alla Rambo. Le cose tendono a farsi complicate con gruppi di nemici numerosi e in spazi chiusi ma, spesso e volentieri, basta un buon arsenale e un pizzico di astuzia per avere la meglio in gran parte delle situazioni. Se dunque era lecito aspettarsi questo comportamento dagli Eternalisti, meno inaspettati sono stati gli scontri con i Visionari, che di fatto si sono rivelati abbastanza deludenti, nonostante i tanti modi a disposizione per la loro soppressione.
L’unica minaccia a mio avviso degna di essere tenuta in gran considerazione è Julianna: oltre ad essere il nostro principale interlocutore per tutto il gioco, sarà anche l’unico Visionario in grado di invadere la nostra partita per cercare di ucciderci e farci tornare all’inizio del loop.

Una pensata niente male che viene utilizzata da Arkane Lyon per la modalità “multiplayer” di Deathloop: una volta giunti ad uno snodo della trama principale, avremo infatti occasione di giocare nei panni di Julianna invadendo le partite di altri giocatori e viceversa. Ammetto di aver adorato senza mezzi termini questa meccanica, che ha saputo rendere le mie giornate nel loop molto più elettrizzanti del normale, soprattutto nel caso di quest abbastanza estese e con un certo numero di step da completare.

Deathloop

Anche il profilo tecnico Deathloop si fa valere senza troppe difficoltà: l’impressione di essere su un titolo sviluppato senza compromessi crossgen si vede, grazie anche alla maestria di Arkane Lyon di creare ambientazioni di spessore e ricche di dettagli, che meritano di essere esplorate e osservate con la giusta dose di attenzione. Meno convincente è il discorso prestazionale, in questo caso relativo alla versione PlayStation 5: le modalità grafiche disponibili sono sostanzialmente distinte tra una preferenza alla qualità grafica o alle prestazioni, più una terza che utilizza la tecnologia ray tracing. Le differenze tra le prime due sono tutto sommato poche, con quella dedicata alle prestazioni che ho utilizzato per la maggior parte del tempo nonostante non siano mancati occasionali cali di framerate, quasi sempre ancorati a 60 fps. Quanto alla modalità ray tracing non sono riuscito a tollerarla per più di mezz’ora perché, a fronte di una qualità visiva più che impreziosita dagli effetti di luce, il framerate non va oltre i 30 fotogrammi, inficiando non poco un gameplay che fa della reattività uno dei suoi punti cardine. Un vero peccato e, onestamente, anche un’aggiunta subdola che ci ricorda quanto questa tecnologia sia la nuova chimera dell’attuale generazione di console: basti pensare che su PC Deathloop richiede un processore di ultima generazione ed una RTX3080 per andare in 4K e ray tracing attivo.

Quanto meno, su PC è possibile limitare la risoluzione per avere risultati migliori rispetto a PS5. Promossa anche la colonna sonora, non molto varia per i miei gusti ma sicuramente ispiratissima: contrariamente al setting temporale del gioco, la musica si spinge un po’ oltre nuotando agilmente nelle sfuriate armonie degli anni ’70, a cavallo tra le spy story e il poliziottesco all’italiana. Plettrate energiche e Hammond faranno da sfondo alle vostre sparatorie con un effetto galvanizzante, mantenendo intatta l’epicità dell’azione o le nostre avventure da assassini silenziosi quasi come se fossimo in un disco dei Calibro 35.

Deathloop

Andando al punto della questione, Deathloop ha saputo intrattenermi a dovere ed è senza dubbio un’ottima produzione, tuttavia non posso nascondervi che non mi ha esaltato come speravo: forse sono stato viziato da qualche tipo di aspettativa basata sui lavori pregressi di Arkane Lyon, ma non ho trovato quel quid in più che mi fa percepire il gioco come un’esperienza davvero imperdibile. Probabilmente avrei preferito un gioco meno facilitato, con una curva di difficoltà più ripida, un senso di sfida più marcato ed una narrazione più d’impatto, fermo restando che l’esplorazione del gioco non è mai accessoria ma è uno strumento narrativo in tutto e per tutto, essenziale per comprendere meglio la lore di questa folle isola ferma nel tempo. Insomma, forse il gioco più debole tra quelli sfornati da questo studio formidabile, ma che resta un titolo di pregevole fattura ed un’esclusiva PlayStation 5 (seppur temporale) da non sottovalutare, soprattutto in un anno dove i loop temporali sono stati protagonisti.

Francesco Paternesi
Pur essendo del 1988, Francesco non ha ricordi della sua vita prima del ’94, anno in cui gli regalarono un NES: da quel giorno i videogiochi sono stati quasi la sua linfa vitale e, crescendo con loro, li vede come il fratello maggiore che non ha mai avuto. Quando non gioca suona il basso elettrico oppure sbraita nel traffico di Roma. Occasionalmente svolge anche quello che le persone a lui non affini chiamano “un lavoro vero”.