Una risposta alla proposta di Francesco Fossetti sull’uso del termine e del concetto di dissonanza ludonarrativa

Questo articolo nasce come risposta a un pezzo pubblicato su Everyeye da Francesco Fossetti. All’interno del testo, l’autore analizza il concetto di dissonanza ludonarrativa e critica gli utilizzi più frequenti dello stesso, oltre a elencarne alcuni problemi ed evidenziandone una presenza “naturale” per il medium. Prima di entrare nel cuore del tema, permettetemi di far notare una cosa: è (tristemente?) rarissimo vedere degli scambi, dei dialoghi critici all’interno del settore tra quali strumenti dovremmo utilizzare per fare critica, tra quali forme sono più adatte all’analisi e quali concetti dovremmo sfruttare per rendere più complessi i nostri testi. Quella che segue quindi è una gioiosa risposta, e non una ramanzina né un’astiosa ripicca, nonostante alcune posizioni possano sembrare inavvicinabili.

Detto questo, entriamo nel merito.

Partiamo da un presupposto: come tutti gli strumenti critici, il concetto di dissonanza ludonarrativa può essere utilizzato in modi diversi a seconda della scuola d’appartenenza. Ludologi, narratologi, formaliste, marxisti, teoriche dei visual studies e chi più ne ha più ne metta: esistono numerose prospettive con le quali analizzare gli oggetti culturali (e, tra essi, i videogiochi), e di conseguenza uno strumento assume connotazioni più o meno rilevanti a seconda di ognuna di esse.

Inoltre, come giustamente fa notare lo stesso Francesco alla fine del suo testo, bisogna oramai distinguere tra i vari tipi di dissonanza ludonarrativa che vengono usati sul web. Infatti, come spesso accade, un termine che nasce con una definizione specifica per esprimere un concetto specifico, nel corso del tempo, e a causa dei ripetuti e vari utilizzi, inizia ad assumerne altri: è esattamente quello che è successo al concetto di dissonanza ludonarrativa.

Non ho dei dati specifici al riguardo, ma forte anche del testo di Francesco sento di poter affermare che oggi, spessissimo, per dissonanza ludonarrativa si intende quel fenomeno che in altri mezzi espressivi è di solito una semplice “incoerenza” narrativa. Esempio: Geralt dovrebbe salvare Ciri, ma piuttosto gioca a Gwent per completare il suo mazzo di carte. Questa, che da molti viene considerata una dissonanza ludonarrativa, è in realtà una semplice incoerenza nella scrittura del mondo di gioco e dei personaggi, il cui impatto ovviamente varia di caso in caso.

Hot Line Miami, ossia il gioco che ha reso la dissonanza ludonarrativa talmente estrema da renderla quasi cognitiva, rendendo futili i successivi tentativi di imitazione.

Una parte corposa dell’articolo di Francesco si concentra sul rispondere alle critiche basate su questa semplicistica lettura del concetto, che per la verità non è neanche così facilmente comprensibile dal testo originale di Clint Hocking (che, d’altronde, fa il game designer e non il critico o l’accademico). Cos’è dunque, in origine, la dissonanza ludonarrativa? Si ha dissonanza ludonarrativa quando i temi delle parti narrate tradizionalmente di un videogioco entrano in conflitto con le parti narrate con e/o durante il gameplay.

Ad esempio, se prima di affrontare il boss finale in un Final Fantasy farmiamo esperienza per ore e ore, produciamo due conseguenze: la prima è che dilatiamo il tempo del racconto a seconda del nostro agire, rischiando di trasformare la preparazione per una battaglia da un fatto di giorni a un fatto di mesi; la seconda è che faremo uccidere decine di esseri viventi, colpevoli solo di vivere in un determinato luogo in un determinato momento, a una Aerith o a un Cloud che la storia ci ha descritto come dei buoni, desiderosi di salvare il pianeta e tutte le cose belle che esso ospita.

La prima conseguenza descritta è una “semplice” incoerenza, è una dilatazione temporale del racconto dovuta sia all’elemento interattivo sia alla necessità di livellare prima di poter affrontare il boss finale: l’elemento interattivo è connaturato nella natura del mezzo, confermando quanto dice Francesco relativamente all’impossibilità strutturale di risolvere questo problema, mentre la necessità di livellare è una scelta creativa e/o produttiva, e come tale può essere criticata.

La seconda conseguenza è dovuta agli stessi fattori, ma ha conseguenze diverse: ciò su cui impatta infatti è la scrittura più profonda dei personaggi e dei temi del racconto, rendendola sempre più conflittuale con quelli esposti dalle fasi narrative più tradizionali. In entrambi i casi descritti, esiste una “soluzione” al “problema” (per chi lo vive così): rimuovere i livelli o renderli molto meno rilevanti. Certo, questo impatta sulle scelte di design, ma in questo momento non sto dicendo se è meglio o peggio, ma solo facendo notare che una soluzione esiste, e che il limite non è del linguaggio in quanto tale, ma delle necessità creative e/o produttive.

Prince of Persia (2008) sembra quasi essere stato ideato tenendo a mente le riflessioni di Clint Hocking: il gameplay collabora col racconto per narrare un rapporto di coppia.

Se teniamo bene a mente queste distinzioni, ci rendiamo conto che il concetto di dissonanza ludonarrativa ci permette di capire tantissimo di ciò che un gioco dice, vorrebbe dire o finisce per dire anche senza volerlo: una cosa è rallentare, accelerare o anche solo fermare un discorso; un’altra è fare discorsi diversi e in contemporanea allo stesso interlocutore. Non è un caso se Naughty Dog ha associato l’uccisione di mille persone al trofeo “dissonanza ludonarrativa” in Uncharted 4: Straley e soci hanno capito che il problema non è la dilatazione temporale, ma il conflitto tra un Nathan Drake solare, positivo, al massimo anti-eroe nelle cinematiche, e un Drake genocida nel gameplay.

È proprio sulla saga dell’Indiana Jones videoludico che Francesco sottolinea l’importanza dalla coerenza narrativa in funzione tematica per il videogioco: “quell’arma è una cosa anomala, fuori posto; le nuove generazioni – e i nuovi giochi – avranno bisogno di altri strumenti”. Centra, secondo me, anche un altro aspetto fondamentale: la generazione di Uncharted, quella 360/PS3, ha rappresentato forse il momento di massimo distacco tra i discorsi portati avanti dalle parti narrative tradizionali, e quelli che emergevano dal gameplay.

Ci sono altri passaggi che vanno analizzati, per capire come ricevere questa proposta, in quali modalità e se se ne può offrire un’altra come alternativa. Nel suo articolo, dopo aver analizzato una serie di esempi che spaziano dal più classico dei Cyberpunk 2077 per arrivare fino al generico “walking simulator”, Francesco sostiene che il problema della dissonanza ludonarrativa “fraintesa” (rispetto al testo di Hocking) sia in qualche modo implicito del videogioco, che avrà per sempre questi “limiti” (o vantaggi, dipende dalla scuola), dato che è un mezzo espressivo caratterizzato dall’interazione.

1000 uccisioni sono imprescindibili per natura del mezzo espressivo, o sono necessità merceologiche per poter avere un richiamo commerciale molto ampio?

Nel caso della dissonanza “mal interpretata”, concordo con lui, anche se entro certi limiti. Nei vari esempi proposti, Francesco giustamente sottolinea come anche un walking simulator privo di collezionabili e secondarie possa generare una rottura dei ritmi, dato che comunque può concedere la libertà all’interattore di fermarsi e osservare punti irrilevanti per il prosieguo della storia. Ma con questo esempio a mio parere si rimarca non tanto una connaturata problematicità del videogioco rispetto alla gestione dei ritmi narrativi, quanto la difficoltà del settore di comunicare in modo efficace le “clausole contrattuali” tra chi crea e chi gioca: se in un gioco come Everybody’s gone to the Rapture il giocatore si ferma per principio in zone prive di interazioni od ostiche dal punto di vista esplorativo, non siamo di fronte a un problema di “dissonanza ludonarrativa”, ma di incapacità del gioco di comunicare le sue regole, o di limiti nel comprenderle di chi sta giocando. È questo, secondo me, il più arduo dei compiti di chi fa da filtro tra il consumatore e il produttore, soprattutto nell’era del sovraccarico informativo: cercare di rendere più semplice le firme di questi contratti; dei notai con la funzione di rendere più fluidi i discorsi tra creativi e pubblico.

Se dunque è formalmente vero quello che dice sul “walking simulator”, è altrettanto formalmente vero che se lo stare fermi in un gioco simile può facilmente assumere la forma di una violazione del contratto tra game designer e giocatore, lo stesso non si può dire di chi sceglie una partita a Gwent mentre Ciri viene braccata dalla ferocissima e brutale Caccia Selvaggia, dato che – nel caso in esame di The Witcher 3 – si è stimolati a livellare. L’interazione, per quanto libera, è sempre guidata da un designer, a meno che non ci troviamo di fronte a fenomeni come le mod, i glitch o i bug, che però ovviamente non possono essere usati come strumenti per criticare il racconto o il Game design, dato che rappresentano elementi non voluti dell’esperienza.

“Evil is Evil. Lesser, greater, middling… … If I’m to choose between one evil and another… I’d rather play Gwent!”


C’è un pezzo dell’articolo, forse il più sentito a livello critico, dove Francesco pone una domanda legittima: è giusto pretendere l’applicazione di certi principi su ogni tipo di esperienza, dato che si sta quasi chiedendo, seppur implicitamente, una sorta di castrazione per giochi come quelli di Bethesda, Rockstar, Naughty Dog? Io rispondo con un’altra domanda: è giusto che i temi di queste esperienze debbano essere diluiti da tutti questi “dettagli” e “arricchimenti”, che per quanto belli finiscono spesso per cercare di dire mille cose, senza riuscirci? A me sembra che la prospettiva con cui Francesco imposta il discorso dia per scontato che a una componente se ne possa aggiungere un’altra senza che quella precedente debba trovare il modo di coesistere con quella nuova. Io non credo di poter avere un gioco che mi parla dell’importanza della natura, e che contemporaneamente rende animali e risorse un puro elemento da accumulare per essere sempre più potenti, come accade in Final Fantasy o negli ultimi Far Cry e Assassin’s Creed.

Ammetto serenamente la probabile presenza di deformazione professionale su questo, ma tendo a vedere nei rapporti comunicativi videoludici tra mittente (designer) e destinatario (chi gioca) gli stessi problemi che assillano il dialogo sui social network: incontriamo tanti, tantissimi discorsi, ricchi e probabilmente interessanti presi individualmente, che però assunti a breve distanza e in blocchi diventano soltanto un overload informativo, che non ci lascia nulla di complesso e il cui unico risultato e spingerci a cercare ciò che ci fa sentire sereni, senza ampliare in alcun modo le nostre prospettive. Allo stesso modo, credo che oggi molte esperienze videoludiche potrebbero sfruttare le riflessioni maturate dall’uso di concetti come la dissonanza ludonarrativa per capire se quel che stanno cercando di dire ha spessore quantitativo (tanti temi, tante quest, tante cose da fare) o qualitativo (quanto, come e perché parlo di un tema).

Ecco perché il caso di Control da lui citato funziona: perché in quel caso i collezionabili non solo ruotano quasi sempre intorno al tema del surreale, dell’inconscio e della percezione (ne avevo parlato proprio su Everyeye), ma riescono persino a superare in questo la meccanica principale, ossia le sparatorie, che tutto sono tranne che surreali e new weird, e lo stesso vale per Prey. Per essere coerenti tematicamente non bisogna per forza sottrarre o castrare, ma anche solo avere ben chiaro in fase creativa se si vuole dire qualcosa, a chi la si vuole dire e come lo si vuole fare.

Rimuovere il superfluo, a costo di alienare e infastidire i più, per riuscire a comunicare con pochi individui, ma con una potenza raramente eguagliata: in breve, Fumito Ueda.

A proposito di “sottrarre”: non è un caso se più di 15 anni fa, e prima della nascita del concetto di dissonanza ludonarrativa, esistevano già game designer che sposavano il principio del design sottrattivo: se la funzione di un’opera è quella di comunicare un’idea, un’opinione, una visione, per renderla più chiara possibile bisogna sottrarre il superfluo per lasciare il necessario. È da questa prospettiva che nascono giochi come Journey, the Last Guardian, Shadow of the Colossus, Brothers, Portal. Questa annotazione “storica” è importante, perché se tutti sentissero che tutto può essere messo insieme e comunque riuscire a dire qualcosa in maniera efficace, implicitamente legittimerebbero coloro che sminuiscono i cosiddetti “walking simulator”, i giochi sottrattivi ed esperienze simili, perché a questo punto potrebbero anche aggiungere componenti platform, sparatutto e livelli vari, dato che riuscirebbero benissimo dire ciò che già dicono adesso.

C’è un punto dell’articolo, in cui Francesco dice che chi “pretende” l’opposizione costante e assoluta alle incoerenze tematiche assomigli a quelli che rifiutano categoricamente le sperimentazioni, ma rifiuto con forza questa prospettiva: da un lato abbiamo consumatori che non vogliono veder cambiare le loro modalità di fruizione, dall’altro c’è un discorso critico che piuttosto che censurare mira a esaltare la forma videoludica, guidandola nella sua stessa scoperta.

Arrivati a questo punto sembriamo in una situazione di stallo: a me piace così, ad altri piace colì, pace fatta e tutti a casa. Qui entriamo invece in una fase incredibilmente complessa, ossia quella dove bisogna spostare l’attenzione dalla forma del gioco alle caratteristiche del pubblico ricevente. Francesco dice infatti una cosa giustissima: ci sono milioni di giocatori che evidentemente colgono la distinzione tra momento di costruzione del personaggio e momento di esplorazione del mondo da parte di chi gioca, e vanno oltre la dissonanza che non spezza la loro incredulità. Ciò avviene perché, come tutto ciò che ha che fare con la cultura, ogni singolo individuo recepisce un oggetto culturale secondo dei parametri squisitamente personali, che sono però formati dalla sua cultura e dalle sue tradizioni. Ecco quindi che lo stesso identico gioco può essere recepito in maniera diversa a seconda della nostra classe sociale, nazione, etnia, orientamento o anche solo in funzione di qual è il nostro colore preferito.

Il libro di Bordieu ci aiuta a capire come, indipendentemente dalle strutture del testo che abbiamo di fronte, un oggetto culturale viene recepito diversamente a seconda di tantissimi fattori, che formano il “gusto”.

Ecco perché il ricorso al concetto di dissonanza ludonarrativa come chiave interpretativa che concede il patentino di gioco bello, brutto o mal fatto, è tipico di coloro che si chiudono nelle loro torri d’avorio per spiegare il bello al volgo, e quest’approccio personalmente mi ripugna. Come dicevo all’inizio, un po’ come avvenuto col concetto di piano sequenza nel mondo del cinema, quello di dissonanza ludonarrativa ha superato le barriere del discorso critico o accademico ed è entrato, seppur molto leggermente, nel discorso pubblico, ma con caratteristiche diverse. Il “buco di sceneggiatura”, la “durata del piano sequenza”, “la dissonanza ludonarrativa”, “gli occhi della madre”: certi strumenti legittimi diventano spesso gli appigli ai quali si affida chi ricerca di elevare la sua critica, senza però aver fatto il percorso necessario per comprenderne il loro utilizzo. E la colpa di tutto questo è probabilmente nostra, intesi come settore, perché gli strumenti più complessi si acquisiscono con la costante esposizione agli stessi.

Al contempo, sebbene strumenti simili siano spesso usati come strumenti formali per stimare la bellezza di questo film o quel gioco, non possiamo neanche credere che il videogioco sia l’unico mezzo espressivo che non necessità di strumenti specifici per comprendere le sue forme e i suoi potenziali significati. Nel caso in esame, il riconoscere che un gioco ha una dissonanza ludonarrativa non serve a deciderne la qualità, ma a porci una domanda: abbiamo capito che formalmente ha questa caratteristica, ma perché a certe persone piace e ad altre no? Sì, ok, i gusti, ma… che saranno mai, ‘sti gusti?

C’è un concetto molto divertente che ci viene in aiuto, stavolta ideato da Tim Rogers, e che personalmente ho sempre definito col termine “giochismi”, prima di conoscere l’esistenza del corrispettivo inglese: l’interferenza ludonarrativa. Non so se vi è mai capitato di giocare un videogioco vicino a una persona che con il linguaggio videoludico non ha un grande rapporto: a me è capitato decine di volte. Queste esperienze mi hanno dimostrato che la più assurda delle critiche agli occhi di un giocatore è in realtà un elemento dirimente dell’interesse di qualcun’altro nei confronti dell’esperienza videoludica: per chi gioca molto, vedere Joel recuperare la vita da un foro di proiettile con benda al braccio sembra già realismo rispetto ai medikit in giro per le mappe, ma per chi non è spesso in contatto col videogioco è un’assurdità che rende cartoonesco tutto il processo.

Anche il videogioco, come tutte le altre forme espressive, ci conferma che l’abitudine al suo linguaggio e alle sue tradizioni è un elemento fondamentale per la comprensione, l’apprezzamento dello stesso. In tal senso, il maggiore o minore disinteresse verso la coerenza tematica e narrativa potrebbe suggerire a un critico che il tentativo comunicativo in corso non è verso il giocatore medio ma magari verso un nuovo pubblico, e viceversa.

BioShock Infinite è uno di quei casi videoludico dove i testi delle musiche scelti per i trailer dicono più dei temi del gioco di quanto non facciano le sue meccaniche. Firmato, un fanboy assoluto del gioco.

Come tutte gli strumenti analitici, il concetto di dissonanza ludonarrativa, così come quelli di risonanza ludonarrativa (simile all’accordo ludonarrativo proposto da Francesco) e irrilevanza ludonarrativa proposti da Toh Weimin, ci aiuta a concepire una “forma ideale” il cui punto non è essere raggiunta, ma che rende di valore i passi verso di essa che vengono compiuti. Anche in questo penso di poter leggere un’opinione simile nel pezzo di Francesco, nel frangente dove sottolinea le differenze tra Uncharted 4 e i precedenti capitoli della saga, che altro non sono che un tentativo di limitare i problemi atavici dello sparatutto in terza persona, per adeguarli a necessità espressive più complesse. Non penso dunque che sia necessario ripensare il concetto di dissonanza ludonarrativa, che al contrario può finalmente diventare utile, abbandonandone la concezione di “buco di trama” e rimarcando l’idea che il videogioco racconta in ogni suo istante, e che quindi anche il gameplay fa parte del racconto. A quel punto, e solo a quel punto, a seconda della scuola critica di appartenenza, ci renderemo conto che ci sono esperienze più coerenti con il loro significato e che sono ben fatte, non perché seguono dei principi formali ma perché sono oggetti comunicativi più efficaci. Ecco il luogo concettuale della nascita del “walking simulator”: sottraendo e semplificando in termini quantitativi, aggiungiamo e stratifichiamo in termini contenutistici.

Se dunque riconosciamo l’esistenza di esperienze differenti in virtù dell’esistenza di pubblici differenti, di sensibilità differenti e di abitudini al linguaggio differenti, dobbiamo chiederci quanto le critiche basate sulla dissonanza abbiano danneggiato le produzioni “non sottrattive” (perdonatemi la categorizzazione), e quanto al contrario le ingerenze della tradizione critica abbiano danneggiato la sperimentazione.

Non ho numeri esatti di fronte a me, ma penso di poter affermare serenamente che Red Dead Redemption II, Cyberpunk 2077 (che, se ha avuto problemi di vendite, non credo li abbia avuti per le critiche sulla dissonanza…), i vari Assassin’s Creed e via dicendo abbiano ricevuto l’apprezzamento della critica e gli acquisti del pubblico. Rimanendo tra i sandbox e tra le produzioni Tripla A, quei rarissimi titoli – Mafia III meno di 70 su Metacritic, idem Mad Max – che cercano di seguire principi basati su scuole alternative sono stati penalizzati in quanto produttivamente deboli (per inciso, Francesco ha apprezzato molto la scelta degli sviluppatori di Mafia III, premiandolo in sede di recensione).

Mafia 3 è un gioco povero di contenuti e di varietà perché la vita del protagonista è priva di contenuti e varietà: in primis perché criminale, e poi perché nero.

Dato che chi legge mi starà odiando per la lunghezza del testo, chiudo con un esempio perfetto per l’odioso “tl;dr”: Assassin’s Creed. Nel primo capitolo della saga, Patrice Désilets ha implementato una serie di meccaniche e caratteristiche atte a risolvere alcuni aspetti della dissonanza ludonarrativa “vera”, ma anche alcuni di quella “fraintesa”. Quando provi a eliminare un civile, il gioco ti avverte che verrai desincronizzato, dato che il gameplay avrebbe contraddetto l’agire narrativo del personaggio Altair, protagonista e avatar. Inoltre, l’inventario e la progressione delle armi venivano giustificate dalla progressione narrativa: Altair non poteva usare altre armi oltre a quelle concesse da Al Mualim, perché il Credo gli imponeva di seguire un percorso prestabilito. In Assassin’s Creed 2, il nuovo protagonista Ezio continua a non poter uccidere i civili, ma l’inventario esplode di possibilità e varietà, rinunciando alla credibilità.

A questo punto, usando la dissonanza come strumento critico, non dobbiamo semplicemente prendere atto della cosa e limitarci a definire Assassin’s Creed migliore perché più credibile del 2, ma dobbiamo chiederci: perché è stato fatto questo cambiamento? Cosa vuole dire una così massiccia dose di armi e opzioni rispetto al capitolo originale? La varietà serve ad altro, oltre che a offrire approcci diversi a target diversi?

A seconda della risposta, potremmo definire un prodotto rispetto a un altro come tendente a rinunciare a una velleità autoriale, e aspirante alla creazione di esperienze modulari. Tramite queste domande, un critico può rendersi conto di scelte più o meno tendenti al significato o alla creazione di prodotti di consumo, e può capire come meglio veicolare il suo messaggio: può cercare il modo più completo per far comprendere le regole del contratto tra gioco e giocatore, designer e interattore. La necessità di questi passaggi non è né colpa dell’utenza né è scritta nel genoma del mezzo espressivo: è al contrario il frutto di scelte creative e produttive, e concetti come la dissonanza ci aiutano a capire come destreggiarci in questo complessissimo e intricato groviglio di cause e conseguenze.