Dungeon & Dragons è da sempre il gioco più amato dai Nerd

Eravamo partiti con il numero 2, ma arriva adesso il momento di tornare un attimo indietro e di dare spazio a sua maestà, al numero 1, che se si parla di “Giochi da Nerd”, non parlare di Dungeons & Dragons è quasi un’eresia, uno smacco intollerabile per quello che è culturalmente assodato come un epicentro della nerditudine, nonché uno dei più potenti aggreganti sociali per i nerd di ogni dove. Perché c’è quel qualcosa in D&D che ha reso possibile tanti incontri, la creazione di tanti gruppi, e di serate ancor più memorabili. In un tempo in cui essere nerd non voleva dire inforcare semplicemente un paio di occhiali a montatura grossa, o farsi foto con le tette al vento e un pad in mano, il gioco si faceva spazio come aggregante per quei gruppi che, lontani dalla considerazione dei più, erano – di fatto – una nicchia. Oggi siamo abituati a pensare al nerd come ad una categoria facente parte della cultura dei tempi che corrono e questo, spero lo sappiate, è frutto delle mode e di quei personaggi che, con meriti altalenanti, hanno dato la possibilità di conoscere questa particolarissima sottocultura. Ma nerd, almeno con l’accezione di una volta, era quasi un’offesa e capitava spesso di nascondere un vezzo o una passione per il timore di essere giudicati. A dirla e leggerla così sembra quasi una sorta di ghettizzazione culturale; senza la gravità che consegue a questa affermazione, vorrei capiste che di fatto era così. Si categorizzava molto in quegli anni bui che erano i ’90, e tutto quello che non era “cool” e beceramente paninaro, non era poi tanto accettato. Ora, senza scendere ancora più profondamente nell’antropologia da due soldi, torniamo al nostro sfigatissimo nerd, archetipizzato nella figura di uno Steve Urkel a caso. D&D ha fatto sì che gli Steve, anche quelli borderline che non ridevano facendo il verso del porco, si incontrassero, si divertissero e facessero caciara insieme. Non che non ci riuscissero, intendiamoci, non voglio che vi passi l’idea che i nerd soffrissero (o soffrano) di un disturbo compulsivo per la socialità, ma credo sia considerabile come “dato di fatto”, che senza la spinta del gioco di società e, nel nostro caso, “di ruolo”, molte cose sarebbero forse state diverse. Sarebbe bello dire, a questo punto, un “meditate gente, meditate”, ma la locuzione ci fa parecchio cagare e sa di stantio, per cui lasciamo a voi ogni libera riflessione o interpretazione, che ora è il momento della lezione di storia.

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D&D e i periodi più bui

Benché spesso si parli di anni ’90, la storia dei nerd, prima che nerd li si chiamasse così, ha origini ben più lontane e, nel caso dei giochi di ruolo, parliamo negli anni ’70. Sono anni semplici, di rinascita culturale e ludica e quelli che sono gli impianti di gioco più elementari, cominciano a subire delle contaminazioni, spinte più che altro dalla fantasia di chi quei giochi non tanto li faceva, ma li giocava. Ecco, D&D nasce così, da quelli che erano i cosiddetti “wargame”, giochi in cui non si pensava tanto a un personaggio, quanto alla gestione di un gruppetto di personaggi anonimi, sovente soldati intenti in qualche missione, e molto più raramente prodotti di stampo fantastico. Si trattava, in effetti, della canonizzazione in carta e penna di strategici di stampo militare in cui, molto primitivamente, c’era anche una qualche improvvisazione teatrale. I nostri protagonisti dell’epoca sono due tizi con una discreta passione per i giochi da tavolo: Gary Gygax e Dave Arneson, ormai entrambi passati a miglior vita, universalmente noti come i padri dei giochi di ruolo e artefici della prima stesura di D&D.

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A ben vedere, gli elementi di D&D non erano quindi, propriamente inediti, ma subivano, piuttosto, diverse contaminazioni dei giochi più popolari, unendoli a fattori che modificavano sostanzialmente le principali esperienze di gioco. Il duo creativo aveva sostanzialmente preso quanto più amavano dei loro giochi preferiti, e li avevano fusi, introducendo due concetti fondamentali, fulcro poi del successo di D&D. Il primo era l’introduzione di un arbitro neutro, mutuata da tanti giochi da tavolo, ma mai realmente protagonista come sarà, poi, il Dungeon Master. La seconda era l’espansione del concetto di recitazione che portava, di fatto, all’interattività con personaggi inesistenti ma utili per il proseguimento della storia, gli arcinoti NPG. E così nel 1974 nasce la prima edizione di D&D (oggi nota come Original D&D) in cui confluivano, furbamente, le migliori esperienze ludiche e un background che attingeva ad un immaginario in voga negli anni ’70, quello fantasy. Ieri come oggi, spopolava in America la letteratura tolkeniana, ma anche quella di Lovecraft, e di tanti altri autori a noi meno noti come Vance, De Camp e Pratt (non Hugo però!). L’intuizione fu proprio questa, di fare leva sulle passioni letterarie, fumettistiche e su quell’evocativo immaginario figlio della necessità di evadere, per inserire in un gioco personaggi identificabili e gradevoli, che sapessero essere popolare a prescindere dal giocatore. Nessuna meraviglia, quindi l’uso di creature fortemente stereotipate, tant’è che alcune conservavano persino i nomi originali dei libri dai cui erano presi, salvo poi diverse controversie legali (in particolare verso i detentori dei diritti di Tolkien) che obbligarono a una frettolosa revisione (pescate un “balor” a caso e poi diteci a cosa somiglia). Il successo è ovviamente spropositato, ma è confinato a quella sottocultura (i nerd per l’appunto) ancora troppo esigua a livello di numeri, e quindi di vendite. Il duo Gygax/Arneson ha allora un’intuizione: snellire il gioco, modificarne le regole, e introdurne di nuove così da poter vendere il prodotto a fasce più giovani, proponendolo magari come una sorta di giocattolo.

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Nasce così nel ’77 “Basic D&D”, che in realtà nascondeva (male) la volontà da parte del team di creare un binomio di prodotti che sopperisse a ogni necessità ludica. Il secondo arrivato, neanche a dirlo, sarebbe stato lo storico “Advanced D&D” che, almeno nelle idee doveva essere una sorta di “proseguo” del set Basic, onde invogliare i giocatori a restare più a lungo possibile nel mondo di gioco. Tutto figo, se non fosse che si combinò un macello e, benché le vendite furono ottime, non si capì mai un cazzo di come si dovesse gestire la cosa. Il punto era che i due prodotti erano quasi incompatibili, con il set Basic soggetto a delle regole precise e rigide, che in qualche modo sopperivano a TUTTE le possibilità ludiche, e quello Advanced invece più “strafottente”, e in un certo senso lasciato (volutamente) in balia dell’estro e della creatività dei giocatori. Ora, poiché il Basic ti diceva cosa fare sino al conseguimento del livello 3 (proprio perché l’idea era che poi si passasse ad Advanced) se ne consegue che era complicatissimo adattare personaggi e campagne da un set all’altro, seppur fossero in effetti lo stesso gioco, e la gente cominciò a rincoglionirsi tra manuali, matite e prontuari vari. Successe quindi che, inevitabilmente, all’inizio degli anni ’80 i due giochi fossero scissi e furono, di fatto, identificati come due giochi a sé, facenti però parte dello stesso “universo”. Diverse furono le revisioni e le aggiunte, davvero troppo lunghe per essere sommariamente elencate, ma fatto sta che il successo fu sempre alterno e comunque buono, identificando Basic e Advanced come due giochi con una propria identità molto concreta e padroni di un immaginario narrativo molto potente, tanto che alcuni di quei mondi o di quelle espansioni sono poi confluiti in altri media (pensate a Dragonlance, ad esempio, celeberrima espansione di Advanced). Anche i media cominciarono a dare spazio a D&D, ma in maniera negativa, criticando il gioco che per la rappresentazione di contenuti allora considerati “inappropriati”, come immagini di donne succinte o la rappresentazione di creature sataniche… questo portò a una corsa ai ripari immane che, soprattutto nel caso di Advanced, creò di fatto un’ambientazione molto diversa da quella del D&D classico, virando dai binari del tipico “Sword & Sorcery” che aveva spopolato negli anni ’70, a un più indefinito “fantasy medievale”. Alle soglie degli anni ’90, D&D nella sua doppia veste gode di un successo impareggiabile. Le regole sono ormai mature, i mondi sono definiti e le revisioni (dovute in parte alle censure) hanno anche dato l’occasione per alcune limate dei regolamenti, rendendo i giochi popolari e pratici ma… lo spettro del fallimento arrivò con l’uscita di Magic: The Gathering che, in mano alla Wizard of the Coast, distrusse il mercato dei giochi da tavolo, costringendo molti dei giochi presenti all’epoca presenti al fallimento. D&D, che allora era nelle mani di TSR Hobbies, non fu immune all’influenza di Magic sui giocatori, tant’è che le vendite si bloccano di colpo, costringendo la società a correre ai ripari ed a mettere sul mercato diversi, scarsi, tentativi di giochi di carte collezionabili, come Spellfire e il meno fortunato Dragon Dice. Ma siamo onesti: a nessuno andava di essere il fesso della compagnia, con in mano le ignobili carte di Spellfire (ignobili, perché niente batteva il design e i disegni sulle carte Magic) e Dragon Dice (giochi di strategia, per l’appunto, con i dadi), lì dove arrivava dava la vaga impressione di giocare a una roba veramente di nicchia e il successo, nei magici anni ’90 in cui o eri popolare (anche tra i nerd) o eri un povero stronzo® influì non poco al successo di Magic, gioco “cool” per antonomasia. A questo punto TSR fallisce e Wizard vede una buona possibilità di fare soldi, acquistando la società e lasciando a Magic il tempo per fare denaro, in attesa che D&D potesse ritagliarsi una nuova fetta di mercato.

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Datemi un d20 e vi cambierò il mondo.

L’occasione, come ormai ricorderete, si verificò nel 2000 quando arrivò sugli scaffali la bellissima e popolare Third Edition in cui si sviluppò il celebre sistema d20. Trattasi fondamentalmente di un sistema di regole basilari basato su un set di dadi (il cui massimo è quello da 20 facce per l’appunto) che permetteva a chiunque di creare un’espansione, un libro o quel che cazzo gli pareva, senza dover creare un set di regole apposito (problema che era stato il fulcro del casino di Basic e Advanced). Con il sistema d20 sono nati infatti una mezza infinità di compendi e manuali, spesso anche da altre case editrici, che adottarono d20 come una sorta di standard internazionale. Con la terza edizione, successe quindi una cosa stupenda, ossia che ogni giocatore poteva attingere dai libri che più gli piacevano, aggiungendo al proprio personaggio (premesso il Master non lo prendesse a cinquine) le caratteristiche prese da questo o da quel gioco, aumentando a dismisura la personalizzazione del gioco. Ricordiamo poi la bellissima ed evocativa espansione dei Forgotten Realms, in cui era evidente la contaminazione stilistica e “narrativa” dei mondi partoriti con Magic, tant’è che nei Forgotten si trovava di tutto, dalle culture commerciali e arabeggianti, sino ai pirati, gli arcimaghi e i dragoni. Con Forgotten, D&D è ormai un universo narrativo a tutti gli effetti, in cui sono i suoi personaggi a trascendere i media, e non il mondo in sé (come era successo con Dragonlance, sempre relegato a “mondo di gioco”, e mai foriero di veri e propri “protagonisti”). Nascono così libri basati sui personaggi più popolari (come Drizzt), o avventure multimediali ambientati in specifiche, ma evocative, città, come la popolare Baldur’s Gate. Il resto, come si suol dire, è storia. Una storia che ha contribuito a radicare nell’immaginario collettivo personaggi, mondi, e persino una certa “mitologia”, il cui accesso non aveva privilegi, ma era (ed è) anzi libero. E così nascevano e nascono gruppi di PG spesso all’oscuro delle regole più “dure”, con la sola intenzione di condividere una serata di caciara e magari una bella storia.

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Una storia di stronzate, bestemmie, e critici che non si confermano, o magari una narrazione epica, marziale e incredibilmente cesellata, neanche si diventi, manuale alla mano, un cazzutissimo scrittore fantasy. Nel numero precedente avevamo detto che, in un certo qual senso, D&D gode di una dignità che lo mette sopra qualsiasi altro gioco, una sorta di “aura” che gli permette di essere sempre e comunque al di sopra del pregiudizio, delle critiche, o dello smacco altrui, ed è così. Che ci si senta sfigati o meno a giocare a D&D, è impossibile non ammettere la sua capacità di divertire sempre e comunque, fottendosene di tutto e tutti. Quella capacità di unire, di rendere coeso un gruppo di squinternati che, in virtù della partita settimanale (una regola la vuole quasi sempre di sera in un giorno infrasettimanale), diventa una squadra organizzatissima e rodata, in cui si compilano schede con una precisione “filiniana”, seppur si finisca a fare “fantozziane” figure di merda… ma tutte rigorosamente in game.