È ormai un po’ che mi occupo di Facebook in modo professionale. I motivi sono semplici: non la volontà di inondare di hashtag le home dei miei contatti, né tanto meno tediare l’umanità con stati di presunta denuncia sociale et simila. No. Il mio interesse per Facebook è prettamente lavorativo e deriva dalla natura del mio stesso lavoro, e da come – almeno nella mia testa – la rete di Mark Zuckerberg debba interagire con esso. Ma questo ci porta ad un altro argomento, perché per capire come Facebook potrebbe essere un mezzo (come no) per fare comunicazione pubblicitaria, bisogna fare un passo indietro e capire come Facebook lavora con le persone. Del resto perché stupirsi? Quelle che è una delle reti di informazioni più grandi del mondo è ormai parte integrante del quotidiano umano, tanto che oggigiorno non essere iscritti su Facebook è quasi considerabile come un’eresia, come il folle che si oppone ancora alla rivoluzione copernicana. Una roba da matti insomma.

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Proprio pensando a Facebook, un mio amico mi ha allora chiesto una cosa interessante: “Come fa Facebook a decidere cosa mettere nella nostra home?”. La domanda è tutt’altro che stupida, a maggior ragione se si deve ragionare in termini di comunicazione. A te che pubblichi la tua ennesima foto al mare magari fregherà poco di farti vedere o meno da un numero nutrito di naviganti, ma se riflettete in termini di una società che vuole rendere efficace la propria comunicazione, allora le carte in tavola non possono che cambiare. Alla domanda di cui sopra, quindi, benché possa considerarmi abbastanza pratico del mezzo, mi sono sentito un attimo in bilico. Si sa per certo che la home di Facebook, come del resto TUTTO il mare di internet, è regolato da algoritmi, codici e numeri che rendono possibile la selezione, da parte del social network, di notizie preferenziate. È un’intuizione quasi scontata direi, ma sulla domanda del mio amico mi sono messo a cercare qualche info in più, imbattendomi in un esperimento effettuato dal giornalista informatico Mat Honan, firma stabile di Wired.com.

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Mat Honan

Lì Honan, inspirato da un quote celebre di Andy Warhol ha effettuato un test singolare e interessante: mettere mi piace a qualsiasi cosa apparisse sulla sua home nell’arco di 48 ore ed analizzarne i risultati. Ed è qui che l’algoritmo di Facebook si è scoperto (almeno in parte), tant’è che il risultato è stato che sulla sua bacheca sono comparsi una moltitudine di post pubblicati dai brand alle semplici proposte di notizie di terzi come, metti, i feed di un quotidiano online o di un blog, e sempre meno contenuti proposti dai suoi contatti e, quindi, dalle persone. Perché? Perché l’algoritmo in questione, evidentemente, propone una selezione tra i contenuti dei nostri contatti (da cui sono ovviamente esonerati i post che terzi mettono a pagamento sul social), basandosi sugli interessi che si vanno delineando quando effettuiamo azioni come mettere un mi piace o condividere e, dai dati che così ottengono, delineano un profilo di possibilità.

L’ovvio ci dice che, più un contenuto è popolare su Facebook, più è possibile che esso ci venga mostrato, questo perché probabilmente Facebook, come Google, si pone una domanda alla base della sua interazione con l’utente che, intuiamo, potrebbe corrispondere a: “cosa gli piacerebbe vedere?”. La popolarità di un post, la sua viralità, o forse semplicemente le preferenze dettate dai dati inseriti può effettivamente essere uno strumento utile con il quale rispondere a questa domanda, presupponendo che tra i propri amici ci siano persone che condividono i nostri stessi interessi, o che si segua una determinata rosa di notizie (per esempio notizie di cronaca in generale, piuttosto che un approfondimento su di un fatto specifico), non è errato credere che ciò che piace a loro potrebbe piacere anche a noi, et voilà, ecco che a prescindere dal “tempo” in cui un contenuto viene postato, esso ci viene mostrato in home nel nostro News Feed.

FACEBOOK-LIKE-SHARELa soluzione alla sciarada sarebbe, quindi, che Facebook ci propone contenuti basandosi su due fattori: quello che facciamo noi, e quello che fanno i nostri contatti. Questo spiegherebbe, almeno in parte, il perché spesso in home potrebbero comparirvi contenuti retrodatati. Non dipende esclusivamente da voi, ma dal trending del momento che, stando a chi ha fatto qualche esperimento in più a mezzo Facebook, costituirebbe oltre la metà dei post presenti sulle vostre home. È ovvio che questo non è uno stato dogmatico del modus operandi dell’algoritmo, ma si basa prettamente sugli esperimenti fatti dai singoli che, per ovvie ragioni, hanno interagito con la rete in modo diverso. Senza contare che, lo stesso Honan, si è reso conto che nonostante l’interazione sia la stessa, l’algoritmo – almeno apparentemente – lavora in modo diverso a seconda della piattaforma di consultazione per cui, scrollando la home nello stesso momento da PC e cellulare, le notizie evidenziate sono diverse e, pare, che il primo preferisca le persone, mentre il secondo evidenzi ciò che proviene da altri siti web e dalle pagine scegliendo, quindi, di attirare l’attenzione dell’utente in modo diverso. Il punto, comunque, resta un altro, ossia come e quanto Facebook decide di nascondere e mostrare determinati post e, di conseguenza, come esso si rapporta ai nostri interessi. L’analisi che se ne può fare (e vorrei sottolineare la superficialità di questa analisi, che ben poco ha di scientifico) è che la nostra home tende in qualche modo a uniformare le notizie e gli interessi, nascondendo in modo praticamente voluto qualsiasi altra cosa non sia espressa esplicitamente. Ragionando con la testa di una macchina, la cosa ha senso, perché l’algoritmo fa semplicemente il suo lavoro, ma la cosa non resta meno inquietante. L’iter di questa procedura è un appiattimento delle notizie, che non premia il contenuto in sé. Test alla mano ne risulta che tocca veramente scavare a fondo per rintracciare qualcosa che Facebook non ritenga doveroso farci vedere, e poco cambia se si imposta un News Feed che proponga contenuti in ordine cronologico o meno. Toccherà comunque scavare. Questo è ancor più evidente quando c’è per il social network la possibilità di proporci contenuti similari a quelli appartenenti ad una rosa con cui abbiamo già interagito, e così non è neanche raro che una sola pagina (o una sola fetta di argomenti) inondi la nostra home. La proposizione degli argomenti diventa quasi sovversiva di quelli che potrebbero essere i nostri effettivi interessi, e più che una questione di gusti, Facebook sembra farsi foriero di proposte o alternative che nessuno gli ha effettivamente chiesto.

image-guide-to-take-control-of-your-facebook-profile-privacy-settingIn conclusione che potrei rispondere al mio amico di cui sopra? Su tutti gli direi che Facebook è subdolo, perché – almeno apparentemente – differenzia il lavoro del suo algoritmo in base alla piattaforma con cui il social viene consultato il che, di per sé, rende già difficile identificare in modo adeguato un modo perfetto di creare contenuti. In secundis gli direi che è difficile capire come effettivamente lavori l’algoritmo di Facebook, ma che esso è comunque soggetto a meccaniche di interazione tra noi e i post, tra i nostri amici e i post, e tra la summa dei due fattori. La risultante è che, se siete gente che su Facebook fa poco o nulla più che scrivere quanto bene sono stati al mare, allora è possibile che le differenze non siano percepibili, ed al più avrete la home prossimamente invasa dal tormentone del momento. Se invece Facebook è una fetta del vostro business, allora la situazione è diversa è tocca diventare appetibili. Perché la competizione è spietata, e si gioca ormai all’ultimo post. Tocca ponderare prima di agire, e dare un peso concreto alle azioni che si svolgono sulla nostra home, perché le interazioni portano conseguenze, e quelle conseguenze definiranno, volenti o meno, il comportamento dei vostri utenti e, dunque, la vostra visibilità. Il rischio è finire nel dimenticatoio del News Feed, o peggio non riuscire a uscire dal proprio seminato.

* Per la cronaca, il quote di Warhol era estrapolato da una celebre intervista del ’63, in cui l’uomo simbolo della pop art definiva così la corrente artistica che lo ha reso immortale:

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Andy Warhol

Qualcuno ha detto che Brecht voleva che tutti pensassero allo stesso modo. Io voglio che tutti pensino allo stesso modo. Ma Brecht lo voleva attraverso il comunismo,in un certo senso. La Russia lo sta realizzando con il governo. È quello che sta avvenendo qui indipendentemente da un rigido controllo governativo; per cui se funziona senza cercarlo, perché non dovrebbe avvenire senza il comunismo? Tutti si rassomigliano e agiscono allo stesso modo, ogni giorno che passa di più. Penso che tutti dovrebbero essere macchine. Penso che tutti dovrebbero amarsi.”

Ed è vero… Sembra che ormai tutto si rassomigli.